Italexit? No, Germanexit | Megachip
Top

Italexit? No, Germanexit

Gli angloamericani giocano la carta M5S-Lega puntando alla Germanexit. [Federico Dezzani]

Italexit? No, Germanexit
Preroll

Redazione Modifica articolo

26 Maggio 2018 - 08.11


ATF

di Federico Dezzani

Dopo un travagliato parto, l’Italia ha infine il suo governo. Si tratta di un esecutivo integralmente “populista”, il cui complicato parto sarebbe stato impossibile senza l’imprimatur di Washington e Londra: decisiva deve essere risultata, a questo proposito, la “mediazione” dell’ambasciatore statunitense Lewis Eisenberg, ex-papavero di Goldman Sachs. Con la formazione del nuovo esecutivo M5S-Lega e la nomina di Paolo Savona al ministero dell’Economia, gli angloamericani intendono spingere la Germania, custode dell’ortodossia finanziaria, a uscire dall’euro: non c’è più alcun motivo, infatti, perché Berlino continui ad arricchirsi con una moneta sottovalutata, quando flirta apertamente con Cina e Russia e si allontana sempre di più dall’orbita atlantica. (f.d.)

***

Salvo improbabili sorprese dell’ultimo minuto, l’Italia ha infine il suo governo, che poggerà in Parlamento sull’alleanza tra Movimento 5 Stelle e Lega. Si è trattato di un parto non facile, passato per la dissoluzione della coalizione di centrodestra (cui Mattarella non ha mai misteriosamente voluto dare la possibilità di presentarsi in Parlamento per cercare i voti mancanti alla maggioranza), e l’archiviazione dell’alleanza “liberal” tra M5S e PD, resa impossibile, come avevamo previsto, dalla ferma opposizione di Matteo Renzi. In fondo il matrimonio giallo-verde era, dopo il voto del 4 marzo, inevitabile: nel momento in cui Luigi Di Maio ha posto il veto a Silvio Berlusconi e, specularmente, Matteo Salvini ha fatto altrettanto con Matteo Renzi, la sola via praticabile era un’unione dei due. Il rischio, verso la metà di maggio, di tornare a nuove elezioni dopo settimane di estenuanti trattative ed il provvidenziale “placet” di Silvio Berlusconi (sempre vulnerabile attraverso Mediaset) ha impresso lo slancio finale al governo integralmente “populista”: c’è chi, infatti, sarebbe rimasto molto irritato da ulteriori ritardi. E non ci riferiamo agli elettori italiani, che sulla scheda elettorale non hanno apposto nessuna croce sulla coalizione giallo-verde.

Passiamo così al secondo piano dell’analisi, quello decisivo, spostandoci dal livello nazionale a quello sovranazionale: si sa, l’Italia è dal 1943 un Paese a sovranità limitata, dove non si muove foglia che Londra e Washington non vogliano.

Chi si sarebbe molto irritato di ulteriori tergiversazioni è, in primis, l’ambasciatore statunitense Lewis Eisenberg che, ricevendo il 21 marzo Matteo Salvini e l’indomani Luigi Di Maio, deve aver espresso il proprio consenso alla nascita del governo populista, di cui, passati quasi due mesi, era ormai in fremente attesa: nessuno meglio di Lewis Eisenberg, sa, infatti, che il tempo è denaro. Il neo-ambasciatore americano può vantare nel suo curriculum una ventennale esperienza (1966-1989) presso Goldman Sachs, di cui è stato persino capo nel settore Equity, e, proprio come il governo grillo-leghista, ha un profilo interpartitico: repubblicano e conservatore, certo, ma anche gradito ai liberal per le sue posizioni in materia di matrimoni omosessuali. Bisogna, infatti, sottolineare bene questo punto: il governo M5S-Lega è il frutto di un compromesso, tra liberal (reddito di cittadinanza, decrescita felice, superamento della famiglia tradizionale) e neocon (flat tax, stretta sull’immigrazione, politica estera pro-Israele).

Un profilo simile a Lewis Eisenberg è quello di Steve Bannon, che è entrato in Goldman Sachs nel 1985 per poi uscirne nel 1990 nella veste di vicepresidente: si è parlato di divorzio con Trump, dopo il suo addio alla carica di consigliere strategico nell’agosto 2017, ma, da quanto è avvenuto in Italia negli ultimi mesi, si evince che il potentissimo Bannon sia piuttosto una sorta di “agente speciale” dell’amministrazione Trump, incaricato delle missioni estere più sensibili, tra cui la stessa formazione del governo M5S-Lega. Gli appelli di Bannon per un esecutivo integralmente “populista” (appelli che si traducono in direttive per le istituzioni italiane) abbondano: si parte da l’esortazione esplicita del 10 marzo e si termina con l’intervista rilasciata alla Stampa (Steve Bannon: “L’Ue sarà costretta a trattare con l’Italia anti-sistema”) il 23 maggio, lo stesso giorno in cui Sergio Mattarella ha asegnato l’incarico per la formazione del governo a Giuseppe Conte, premier indicato da M5S e Lega.

Con Eisenberg e Bannon si è analizzato il lato americano dell’operazione, ma altrettanto evidente è quello britannico. Innanzitutto, lo stesso Movimento 5 Stelle è un prodotto più inglese che americano, come dimostrano la lunga carriera di Gianroberto Casaleggio presso il colosso dell’informatica inglese Logica Plc ed il doppio passaporto, italiano e britannico, del figlio Davide. Londra ha giocato un ruolo decisivo nella nascita del governo giallo-verde attraverso il “protestante” Jorge Mario Bergoglio che, a sua volta, ha schierato l’ancora influente Conferenze Episcopale Italiana (La Cei non boccia l’alleanza: “La sfida è il nuovo che avanzatitolava il Fatto Quotidiano il 23 maggio), indispensabile per vincere le ultime remore (c’è da chiedersi se davvero esistenti, considerando la rigida osservanza di Mattarella alla Trilaterale) del Presidente della Repubblica. Dopo un così lungo lavoro, partito nel 2009 con la fondazione del Movimento 5 Stelle, Londra vuole passare finalmente all’incasso e sembrerebbe avere buone probabilità di riuscirci: salvo improbabili sorprese, il prossimo Ministro dell’Economia sarà infatti l’82enne Paolo Savona, appositamente dimessosi per l’occasione dal fondo Euklid, basato, ça va sans rien dire, a Londra. È sufficiente dire che, durante la sua lunga carriera, i punti di riferimento di Savona sono stati tre: Francesco Cossiga, Ugo la Malfa e Mediobanca. Ossia le quinte colonne dell’Inghilterra e della finanza anglosassone in Italia.

Terminata l’analisi sulla genesi squisitamente “sovranazionale” del governo “populista”, veniamo ora al quesito più interessante: perché? Perché la City e Wall Street hanno, partendo dall’esito delle elezioni del 4 marzo, assemblato un governo M5S-Lega?

Ci spostiamo così su altro piano ancora, quello geopolitico.

Sulle origini della moneta unica si è molto scritto: ingabbiando le disomogenee economie europee in un regime a cambi fissi (l’euro) era solo questione di tempo perché si accumulassero tensioni tali da sfociare in una grave crisi finanziaria (l’eurocrisi). La suddetta crisi, prevedibile sfogliando qualsiasi manuale di macroeconomia, avrebbe dovuto fornire il pretesto per strapparel’unione politica della UE, i cosiddetti Stati Uniti d’Europa che la massoneria speculativa insegue nei secoli. È bene sottolineare come l’euro sia un progetto atlantico (può avvenire qualcosa in Europa senza il placet della NATO?) che la Germania non ha cercato, ma si è vista piuttosto regalare: lo stesso Helmut Kohl ammise che i tedeschi, se avessero potuto votare, non avrebbero mai abbandonato il D-Mark. Se però l’eurozona non evolve in un governo federale, dotato di un Tesoro Unico e di un potere esecutivo accentrato, l’unione monetaria rimane quello che è: un’enorme idrovora che risucchia ricchezza in tutta l’Europa e la concentra in Germania, come visibile dal fatto che le finanze tedesche sono talmente floride da poter, anno dopo anno, ridurre il debito pubblico accumulato nei decenni precedenti. La Germania è, probabilmente, l’unico Paese al mondo che ha attualmente un rapporto debito pubblico/PIL in discesa.

Una Germania, quindi, sempre più ricca e forte grazie all’euro. Già, ma altrettanto affidabile? E qui nascono i dubbi nelle più alte sfere dell’establishment angloamericano: Berlino, infatti, è irresistibilmente attratta dal polo euroasiatico e, in particolare, dalla Cina, che sta velocemente scalando la classifica dei Paesi destinatari dell’export tedesco (attualmente è in quinta posizione) e diverrà nel prossimo decennio la prima economia al mondo. Negli ultimi anni, come abbiamo più volte sottolineato, i rapporti atlantico-tedeschi si sono progressivamente deteriorati: il Dieselgate, nato negli Stati Uniti e mirante al cuore dell’industria tedesca, l’assalto speculativo a Deutsche Bank condotto da Soros, ne sono esempi lampanti. Ultimamente si sono aggiunti il braccio di ferro sul North Stream 2, che i tedeschi intendono portare avanti nonostante la dichiarata ostilità americana e la minaccia di sanzioni, e l’azione coordinata di Berlino con Mosca e Pechino per conservare l’accordo sul nucleare iraniano affossato da Trump.

Se la Germania non si impegna nell’edificazione di un’Europa federale, si allontana dall’orbita atlantica e si avvicina a quella russo-cinese, non c’è più alcun motivo perché debba continuare ad avvalersi di una moneta sottovalutata, che le ha regalato in questi ultimi anni avanzi record della bilancia commerciale: come la potenza giapponese fu negli anni ‘80 duramente colpita dalla rivalutazione dello yen imposta con gli accordi di Plaza (settembre 1985), così la rinata potenza tedesca potrebbe frenata da una ritorno al D-Mark o dalla creazione di un Euro del Nord, più forte del 15-20% del suo omologo meridionale. A questo punto, rientra in scena il governo M5S-Lega assemblato dagli angloamericani.

Dopo aver digerito controvoglia la politica monetaria ultra-espansiva di Mario Draghi, aver già caldeggiato nel 2015 la Grexit e aver accolto con grande freddezza le riforme dell’eurozona avanzate dal presidente francese Macron, non c’è alcuna possibilità che Berlino voglia scendere a patti con un governo “populista” che si propone di “fare l’opposto di quello che dice l’Unione Europea”, tanto più se, dietro a quel governo, si nascondono le potenze che stanno cercando di affossare il Nord Stream 2 e mettere in ginocchio Deutsche Bank. Di fronte alla “ribellione populista” dell’Italia, spalleggiata da Londra e Washington, si aprono quindi due strade per la Germania:

– difendere ad oltranza, come nel caso della Grecia nel 2015, il rigore finanziario a costo di un’Italexit;

– uscire dall’euro, portando con sé il “nocciolo germanico”.

L’opzione della Italexit, con annesso default, è troppo rischiosa per la stessa Germania, su cui ricadrebbero le colpe di avere contribuito a generare uno tsunami finanziario. Il ritorno al D-Mark è più fattibile ed indolore ed è la opzione su cui puntano gli angloamericani e, in fondo, anche i falchi tedeschi: con una netta rivalutazione sull’euro meridionale e sul dollaro americano, l’export tedesco calerebbe immediatamente e con lui la crescita economica, d’altro canto i tedeschi potrebbero vantarsi di aver riottenuto la propria moneta. La Germania, così, continuerebbe il suo avvicinamento all’Eurasia, ma priva di quella moneta unica che le ha sinora regalato piena occupazione e finanze pubbliche più floride che mai: la speranza di Washington e Londra è che la Germania, come il Giappone dopo gli accordi di Plaza, entri in una lunga fase di stagnazione e recessione.

E l’Italia? Liberata dall’euro “tedesco”, certamente, ma ancora saldamente relegata all’orbita atlantica e francese.

P.S. Il piano di riunificazione delle due Coree sponsorizzato dalla Cina sta incontrando, come facilmente prevedibile, forte ostilità a Washington. Un’eventuale escalation non sarebbe certamente scollegata dal discorso appena concluso.

(25 maggio 2018)

 

Link articolo: Gli angloamericani giocano la carta M5S-Lega puntando alla Germanexit

 

 

Native

Articoli correlati