Nepotismo & Gerontocrazia nel Paese della Meritofobia

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25 Settembre 2009 - 13.06


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di Sergio Nava – fugadeitalenti.wordpress.com.

 

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In Italia il nepotismo è un dato di fatto, non un”opinione“: è tranchant il giudizio di Michele Ainis, che sul Sole 24 Ore di pochi giorni fa non lasciava dubbi su come la pensi lui in materia.

 

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Ainis cita una rilevazione Censis del 2006, secondo cui ben il 61% degli italiani considera i soldi di famiglia e le conoscenze del padre più importanti del merito per farsi largo nella vita.

Solo tre anni fa, dunque, la “meritofobia” spopolava ancora nel Belpaese. difficile che in diciotto mesi si sia verificato il miracolo!

Ainis aggiunge dati su dati: il 17,5% dei notai italiani è figlio di notai; passano di padre in figlio ben 66mila aziende l”anno (siamo un Paese talmente a capitalismo famigliare che -nel mondo- la metà delle aziende più longeve e “made in mura domestiche” sono italiane, con relativi sindacati di riferimento); fu nel Belpaese che si riuscì a scrivere una legge secondo la quale l”erede del farmacista (ancorché privo di qualsiasi titolo) aveva diritto di gestire la farmacia dopo il decesso del legittimo titolare; sempre in Italia la Banca Nazionale lascia a vedova/figli del “fu” dipendente un bel posticino (e quante banche sostituiscono i dipendenti con i loro figli. per concorso?).

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E via di questo passo, con tanti altri esempi che Ainis si diverte -con amarezza- a snocciolare: non da ultimo il Festival del Cinema di Roma, una parata di “figli di”, impegnati a produrre film nei più svariati ruoli, dalla regia alla recitazione, dalla sceneggiatura al trucco.

C”è chi dice e sostiene -con orgoglio- che il passaggio generazionale garantisca un analogo passaggio di patrimonio di conoscenze. Tutto vero, se non fosse che dietro questa foglia di fico si nasconde in realtà un medioevale e strutturatissimo sistema di autoprotezione delle caste e delle corporazioni. Sarà un caso che la mobilità sociale in Italia è ridicola (dati Bankitalia alla mano)? Anche perché non si è mai capito quale diavolo di “sapere” -solo per fare un esempio- possa apportare il figlio scemo di un notaio. non è forse meglio fare spazio ex-novo a un giovane brillante, ma non raccomandato e “figlio di”? (Diverso discorso meriterebbe l”insostenibile pesantezza -in termini di portafoglio- della casta dei notai, ma non è questa la sede.)

Ainis lancia a questo punto una proposta-choc, che mi vede assolutamente d”accordo. In sintesi: arrivati a questa situazione di marciume, a questo punto di non ritorno, da cui possiamo “ritornare” -aggiungo io- solo più poveri di prima, perché non introduciamo la seguente regola: in qualsiasi concorso, il “figlio di” dovrà dimostrare di essere più bravo degli altri. Se al tuo concorrente basta 100 per passare l”esame da avvocato, notaio, magistrato, ricercatore, professore. tu che hai la “(s)fortuna” di essere figlio/a di cotanto padre dovrai arrivare a 120. Ainis evita di arrivare all”assurdo di proibire espressamente alla prole di seguire le orme del padre (anche se la tentazione -applicata al caso italiano- sarebbe forte), ma lancia a mio avviso la giusta provocazione.

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Siamo arrivati all”eccesso, ci troviamo in una situazione che ha aggravato tutti i mali endemici derivanti dal nepotismo all”italiana. Serve una cura altrettanto forte. Rilancio su questo blog la provocazione di Ainis, sperando che venga raccolta ed entri nel dibattito pubblico.

Tuttavia -ahimé- la piaga del nepotismo non è la sola, in questo Paese alla deriva: pochi giorni fa l”edizione milanese de La Repubblica segnalava con un certo sbigottimento come i professori settantenni dell”Università Statale del capoluogo lombardo non volessero proprio sentir parlare di pensione.

Sono ordinari di fama, appartenenti soprattutto alle Facoltà di Medicina e Giurisprudenza: sono pronti ormai a godere dei loro munifici risparmi di una vita. ma vogliono continuare ad esercitare il potere. Il prorettore Dario Cassati è esplicito: “Nel biennio questi professori costeranno all”università 31 milioni e 300mila euro in stipendi. Una cifra importante  che -se risparmiata- permetterebbe di assumere decine di giovani ricercatori ed eviterebbe di dover fare tagli alla ricerca”. Che facciamo, care auguste mummie che dai vostri scranni osservate con deferenza le nuove generazioni affacciarsi alla vita. chiamiamo la forza pubblica?

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Un”ultima considerazione, in un Paese che soffre sempre più di un rovesciamento della realtà dei fatti: ieri il Ministro dell”Economia Giulio Tremonti ha definito l”Italia come un Paese “nella normalità europea” per le sue anomalie nei conti pubblici. Insomma, che alle prossime generazioni lasceremo un rapporto debito/pil pari al 120%, indebitandole fin dalla culla, è qualcosa quasi di dovuto. mi pare di capire.

Questi sì che sono politici che guardano al futuro. Il suo collega al Welfare Maurizio Sacconi, invece, ha mostrato con orgoglio il dato sulla disoccupazione italiano: 7,4%, con altri 378mila posti di lavoro persi. Magari -è vero- facciamo meglio di altri Paesi europei, ma la domanda successiva è: a parità di perdita del posto di lavoro, qual è la differenza tra un giovane italiano e un giovane francese? O svedese? Magari -ipotizziamo- sussidi più alti (non quelli ridicoli stanziati dal Governo italiano per far fronte alla crisi). magari una maggiore flessibilità all”atto della ricerca di un nuovo lavoro – qualificato? A queste domande dovrebbe rispondere Sacconi. Il quale invece da tempo ripete che i giovani del Belpaese devono imparare ad accettare qualsiasi lavoro, non accorgendosi che questo “sport” -i tapini- lo praticano già da anni.

Peccato però che i suddetti giovani proprio scemi non siano: secondo un recentissimo sondaggio, realizzato per il convegno italo-britannico di Pontignano, il 63% dei 18-35enni italiani intervistati afferma che ci troviamo ancora nell”occhio del ciclone della crisi. Per il 16% il peggio deve ancora venire (contro il 7% dei britannici). Il 19% degli italiani (contro l”8% dei britannici) aggiunge di aver già subito notevolmente gli effetti della crisi, mentre il 63% dei giovani del Belpaese (contro solo il 47% dei coetanei britannici) sostiene di guardare al futuro con apprensione. I “nostri” hanno anche più paura di perdere il lavoro (59 a 41), mentre alla domanda “Il tuo Paese ha agito bene sulla crisi?”, il 54% degli italiani afferma di no, che le misure sono state “sbagliate e insufficienti”, contro il 45% degli inglesi. C”è di che riflettere, vero?

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Fonte: fugadeitalenti.wordpress.com.

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