Se l'integrazione esce da scuola

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16 Gennaio 2010 - 11.29


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di Alessandro Cisilin – da Galatea European Magazine di febbraio 2010.

“Parliamo di scuola dell”obbligo e io devo  dire alle famiglie che non le posso prendere? Dovrei ricevere altri bambini da altre città perché altrimenti, visto che il quartiere è abitato da immigrati, nel giro di due anni chiudo? Ma chiudere una scuola è perdere una ricchezza!”.
E” una delle tante proteste individuali raccolte dall”informazione indipendente sul tetto del trenta per cento imposto  dalla Gelmini sulla proporzione scolastica degli alunni stranieri.

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La ministra precisa che ha scelto sulla base delle indicazioni degli operatori del settore, ma sono proprio i presidi e gli insegnanti a reagire in larga parte così.

Le precisazioni di viale Trastevere al seguito della sua stessa circolare emessa il mese scorso si sono peraltro moltiplicate con nuove circolari e comunicati stampa.

Se la ministra voleva moltiplicare le apparizioni e citazioni televisive di sé ci è effettivamente riuscita.
Se l”obiettivo era quello di fornire un”indicazione chiara alla scuola che dirige l”obiettivo si allontana.

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Queste le precisazioni: il provvedimento interesserà solo una piccola frazione degli alunni, dato che, nell”anno in corso, la suddetta quota è stata sforata in solo il 4,7 per cento degli istituti; tale percentuale inoltre si abbasserà sensibilmente in quanto nel computo del trenta per cento non saranno considerati i ragazzini nati in Italia (ossia oltre un terzo degli alunni stranieri), e nemmeno quelli che dimostrano un”adeguata conoscenza della nostra lingua; la quota potrà inoltre essere elusa se si tratterà di condizioni geografiche particolari, quali le comunità montane; gli eventuali spostamenti non dovranno essere a carico delle famiglie.

Tra precisazioni ed eccezioni, la circolare sembra dunque destinata a risultare scarsamente rilevante sulle future classi, interessando tutt”al più, secondo un”indagine ufficiosa, una scuola su cinquanta.
Gli stranieri residenti in Italia sono vicini alla soglia dei quattro milioni, con un incremento annuo nel 2009 intorno al 15 per cento, ma la popolazione scolastica non italiana resta limitata rispetto agli altri paesi europei. La proporzione è del 3,5 per cento, inferiore a tutti i paesi euro-mediterranei, mentre la Germania ne ha tre volte tanti, il Regno Unito quattro, la Svizzera addirittura sette.

Insomma, l”emergenza, se tale vuol essere chiamata, non c”è, e la portata del provvedimento tende ai fatti ad azzerarsi.
E” dunque una misura dal sapore dell”indirizzo politico, destinata a prevenire il raddoppio degli studenti stranieri stimato nei prossimi dieci anni, sebbene si tratti di un atto amministrativo, orientato per definizione a regolamentare l”immediato, e non di una norma discussa e votata in Parlamento.
L”obiezione qui è politico-giuridica, ma sul piano formale ben più serie conseguenze si annunciano in sede europea. La norma del trenta per cento è talmente clamorosa che sta facendo il giro del mondo nei blog di ogni lingua e latitudine.

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Un giro di telefonate con gli operatori scolastici in Inghilterra, Francia, Germania e Spagna – interpellando anche insegnanti di destra -  lo conferma: la misura è ritenuta ovunque “fascista” e porrebbe l”Italia al di fuori non solo dell”Europa ma dell”intero ambito del diritto internazionale.
La Convenzione delle Nazioni Unite sui Diritti del Fanciullo, ratificata e resa esecutiva dalla legge 176 del 1991, stabilisce l”assenza di limiti di sorta, e men che meno di origine etnica, religiosa o linguistica alla “gratuità dell”insegnamento”, prevedendo “l”offerta di una sovvenzione finanziaria in caso di necessità” (articolo 28), e precisando che l”offerta formativa debba formularsi “indipendentemente dalla nazionalità, status di immigrazione o apolidia” (articolo 2).
La Convenzione europea dei diritti dell”uomo è un po” più scarna ma stabilisce ugualmente che: “Il diritto all”istruzione non può essere rifiutato a nessuno”. In pratica non ci possono essere limiti, e quindi le quote sono inimmaginabili.

E qui il diritto non è un”astratta formulazione ma il risultato univoco e concreto delle più disparate tradizioni europee in materia di integrazione. Ai poli opposti: il pragmatismo britannico, che accetta e tutela territori etnicamente separati, e l”etica transalpina della “citoyenneté”, che ambisce a un”egualitaria formazione universale ai valori della nazione.

In ambedue i casi la discriminazione risulterebbe inconcepibile: nel primo suonerebbe come una forzatura illiberale, nel secondo come une un”astrusa costrizione a uscire dal proprio quartiere per trovare un istituto sufficientemente denso di “autoctoni” da poter rientrare nelle quote.
La norma del trenta per cento non trova pari nel resto dell”Unione Europea, dove le uniche discriminazioni ammissibili sono quelle “positive” nei confronti degli immigrati, non certo “quelle” negative. Non è cioè pensabile stabilire “un massimo di”, tutt”al più lo è talora il “minimo” a beneficio degli stranieri.

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Un precedente simile è peraltro emerso in un paese candidato, ovvero la Croazia. Il caso di quattordici ragazzi rom, nati nel paese tra il 1988 e il 1994 ma inserito in classi separate, è giunto all”attenzione della Corte europea dei diritti dell”uomo. La risposta dei giudici di Strasburgo è stata ambigua ma pesante: non possiamo intervenire sulla legislazione di Zagabria, ma le famiglie devono esser risarcite di duemila euro di danni morali cui vanno sommate le spese legali.

La reazione europea non consisterà dunque solo in qualche richiesta di “chiarimento” o in qualche editto morale di “condanna”, facilmente zittibili dalle tv controllate dal premier o neutralizzabili come “anti-italiane”. Si tratterà di tirar fuori soldi pubblici per affrontare contenziosi continentali e le relative sconfitte, che dall”Italia si annunciano ben più estese rispetto alla minuscola Croazia.
La Commissione per ora schiva: “Aspettiamo i risultati concreti”, ben sapendo però che l”esito sarà giudiziario, a spese dei contribuenti italiani, oltre che dei diritti universali. Ora, facendo astrazione dei nodi giuridici e dei valori assoluti, resta tuttavia il quesito politico sollevato dalla circolare della ministra.

L”obiettivo dichiarato, ossia quello di evitare “classi-ghetto”, appare in effetti sacrosanto, considerando la finalità ultima di una scuola che assicuri livelli di istruzione il più possibile adeguati e uniformi sul territorio nazionale e sappia promuovere l”integrazione e non la spaccatura tra etnie e gruppi linguistici, compreso l”italiano.
E se voleva essere un regalo politico al Carroccio, si tratta invece, a ben vedere, di un indirizzo opposto rispetto all”ipotesi leghista (e croata) delle classi separate.

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Per promuovere quell”obiettivo era però sufficiente una circolare che raccomandasse attenzione a un”articolata composizione linguistica delle classi, evitando il fenomeno, in effetti talora sussistente, di “scuole per migranti” accanto a quelle “per italiani”.

Bastava questo, mentre si è scelta la strada delle quote. E qui si carica la scuola e le famiglie di problematiche tali da ingenerare l”esito contrario. Studenti tagliati fuori, discriminati in funzione della loro etnia, e quindi per essa ghettizzati: gli antropologi lo sanno molto bene; laddove i diritti delle comunità si coniugano amministrativamente sulla base di percentuali, l”esito è quello di aggravare la segregazione politica e sociale. E poi c”è il nodo de costi aggiuntivi, per portare il figlio in un altro quartiere o in un”altra cittadina, con l”alternativa di scegliere una vicina scuola privata (infatti gli organi di stampa cattolici plaudono, e la stessa ministra si è diplomata in un istituto confessionale).

Ma se invece si volesse preservare l”opzione pubblica, servirebbero fondi per potenziare le scuole e finanziare gli spostamenti degli studenti allontanati dalla quota. La ministra assicura che ci saranno, da parte del ministero e degli enti locali, e qui il mistero si infittisce, dato che ambedue hanno subito viceversa copiosi tagli.
In qualche Land tedesco, una sorta di quota sembra talora sussistere, e sembra perfino più rigida (venti per cento) della gelminiana, ma si tratta in realtà di tutt”altro, in quanto essa è accompagnata da un robusto impegno didattico, effettuato nell”istituto stesso, per il recupero degli stranieri, con corsi della lingua del paese ospitante, accompagnati da lezioni sulle altre materie nella lingua degli immigrati.

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Un paio d”anni fa un convegno europeo degli operatori del settore notava come la valorizzazione scolastica delle identità di origine non genera segregazione, bensì la evita.
E poi diceva un altro paio di cose che probabilmente non piacciono al governo italiano: che l”integrazione non deriva da alchimie numeriche ma da quanto solida è, in generale, la scuola pubblica; e che l”insegnante non può tutto, mentre moltissimo dipende dalle norme extrascolastiche a tutela o meno dei diritti degli stranieri, nonché dal livello di eguaglianza economica (Svezia docet).

acisilin@yahoo.it
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