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Con le nuove norme non saranno mai professori. E per i giovani il rischio è di non essere mai assunti.
“Ci lasciate in mutande, ci vestiremo di cultura”. Molti gli striscioni come questo esposti dai ricercatori ieri mattina davanti al Senato contro la riforma dell”Università . Una categoria di plurilaureati, specializzati, con esperienze all”estero e anni di docenza in Italia che si ritrovano improvvisamente cancellati dalla legge al vaglio di Palazzo Madama.
Il ministro dell”istruzione Mariastella Gelmini ha infatti proposto di precarizzare definitivamente il ricercatore. Da ora in poi, se la riforma sarà approvata, non esisterà più la terza fascia della docenza, ma solo un contratto a tempo determinato di tre anni, rinnovabile di altri tre, alla fine del quale il ricercatore “potrebbe” diventare professore associato.
E la discriminante non sarà solo il superamento dell”esame di abilitazione alla professione, ma i soldi. Se l”università non potrà coprire le spese del suo stipendio, resterà a casa. E con il taglio di 1 miliardo e 300 milioni solo nel 2011, il futuro non è roseo. Protestano quindi studenti e dottorandi. Ma protestano soprattutto i 25 mila ricercatori presenti adesso nell”università che tra sei anni avranno la concorrenza spietata delle giovani leve, che nel frattempo avranno fatto solo ricerca. Perché nel ddl Gelmini non è calcolata, tra i parametri per l”abilitazione e quindi la progressione di carriera, la docenza. Cioè l”attività a cui i ricercatori assunti nelle università dedicano almeno il 50% del loro tempo, senza che ciò rientri nei loro compiti. “In questo momento sono dottoranda in biologia – spiega Annamaria Russo, arrivata a Roma da Taranto – lo finirò a 27 anni, poi con un assegno di ricerca arriverò a 29 e allora, nella migliore delle ipotesi, potrò accedere al 3+3. Quindi arriverò a 35 anni, mettiamo 36 con l”abilitazione, precaria e senza prospettive se la mia università non può assumermi. Come pensano che io possa costruirmi una vita stabile e autonoma. E se a 36 anni resto per strada che faccio?”.
Il ministro ha pensato a tutto: “Ci sarà la possibilità di accedere all”abilitazione nazionale, quindi entrare di ruolo con una progressione di carriera o con uno scatto stipendiale nell”università – ha detto ieri la Gelmini – o ancora di lavorare all”interno della pubblica amministrazione o anche nelle aziende private”. Peccato che università e statali sono i più colpiti dai tagli della prossima manovra, e le aziende private non sono certo in grado di assumere il totale bacino dei ricercatori che escono dalle università italiane. Se così fosse, si andrebbe verso una chiara deriva aziendalistica della formazione, che sarà richiesta solo a seconda del lavoro che devono svolgere le multinazionali.
Una delegazione di ricercatori, studenti e sindacati ha incontrato ieri un gruppo di senatori della VII Commissione del Senato. Ma al termine del faccia a faccia, ha riferito Marco Broccati della Flc Cgil, “è lontana una soluzione condivisibile”. E allora agli studiosi italiani non resta che andare all”estero, con la benedizione del ministro della Sanità , Ferruccio Fazio: “Siamo tra i primi governi che non prevedono provvedimenti per favorire il ritorno dei ricercatori. Vogliamo creare una comunità di italiani che lavorano all”estero, e farli collaborare con chi lavora nelle nostre strutture”. Col rischio concreto che la comunità diventi totalmente straniera.
Fonte:Â il Fatto Quotidiano del 20 maggio.
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