Oltre i tradimenti e le cattive interpretazioni. Per una vera politica della conoscenza

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12 Novembre 2010 - 22.20


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di Francesco Sinopoli – MolecoleOnline.it.

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In un testo del 1944, “La grande trasformazione”, Karl Polanyi descrive, che approccio per certi versi ancora oggi insuperato, l”impatto della crisi del 1929 sulle istituzioni liberali (Polanyi 1944). C”è un passo, tra i tanti attuali del libro, in cui discostandosi dalle tesi degli economisti classici e dello stesso Marx si rifiuta l”idea che il lavoro, la terra (l”ambiente diremmo noi oggi), la moneta siano delle merci. Nessuno di questi elementi, ci dice Polany, sarebbe “prodotto per essere venduto”. Non era una affermazione scontata al tempo e pare straordinaria anche oggi. Nella grande trasformazione del nostro tempo, in cui si sovrappongono società informazionale e crisi economica Polany avrebbe certamente iscritto anche la conoscenza tra i beni che non possono e non devono essere ridotti a merce.

Sono parte della vita umana, beni comuni. Invece la produzione e la trasmissione della conoscenza mai come oggi, a livello mondiale, subiscono un processo di crescente mercificazione (Bellucci Cini 2009) Se questo è vero per quasi tutti i paesi ad economia avanzata nel nostro succede qualcosa di più. La scelta di mettere la conoscenza al centro dell”organizzazione del lavoro e delle merci non ha mai rappresentato una priorità per la parte maggioritaria del nostro tessuto produttivo.

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Ancor meno rientra tra le intenzioni del nostro attuale governo che, al contrario, considera la produzione e la riproduzione del sapere un costo inutile. Infatti le coordinate per la “competitività” contenute nella politica tremontian-sacconiana sono quelle delle produzione di merci a basso valore aggiunto sostenute da un costo del lavoro decrescente. Insomma l”Italia sarebbe ormai collocata tra le prime posizioni dei paesi “emergenti” rinunciando definitivamente a sfidare quelli che, (ancora) nella retorica ufficiale, sono presentati come i competitori naturali.

 

La destra e la politica dell”annichilimento di scuole e università

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Questa però è solo una delle ragioni che spiegano le politiche su formazione e ricerca della premiata ditta. L”idea è quella di fare cassa imponendo allo stesso tempo un nuovo paradigma culturale funzionale al meccanismo di produzione del consenso della destra governante. Annichilire le istituzioni della conoscenza per governare più liberamente. Naturalmente architrave di questo progetto è la strutturazione permanente della precarietà assunta a condizione ineliminabile del sistema a cui si aggiunge la riduzione pianificata nel tempo del numero di persone che fanno ricerca e insegnano.

Un modello che ha come corollario l”abbandono definitivo della vocazione a far crescere il livello generale di istruzione del paese presupposto di una democrazia realmente funzionante.

Questa situazione appare ancora più paradossale quando ascoltiamo il Ministro dell”istruzione in carica affermare che il governo intende investire il 3% del pil in ricerca e sviluppo mentre sono in corso gli effetti devastanti della scelte appena descritte. Tuttavia come ben sappiamo la distanza tra ciò che si predica e ciò che si fa in concreto sui temi del sapere è una caratteristica assolutamente bipartisan, certo con gradazione diversa.

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Guardiamo per esempio a ciò che è accaduto durante i governi di centro sinistra del periodo 1996-2001. La spesa reale per l”istruzione che sarebbe dovuta aumentare in modo considerevole, stando alle roboanti dichiarazioni di alcuni ministri dell”epoca, è rimasta, a dire il vero, assolutamente invariata; anzi nell”ultima fase è iniziata a diminuire. I soloni del pensiero autodefinito liberale ci diranno che il problema non sono le risorse ma come vengono spese, noi invece pensiamo che il peso delle scelte politiche in tutti i paesi del mondo si misura nelle leggi di bilancio.

Le cucine delle finanziarie di quel periodo erano preda di convulsioni da consenso, quindi ben lontane da investimenti a redditività differita come quelli nella conoscenza (Ranieri 2006). Eppure erano state messe in cantiere importanti riforme come quelle che hanno introdotto l”autonomia nella scuola e implementato quella delle università. Dal fallimento di quelle riforme si deve ripartire per immaginare una nuova politica per la società della conoscenza.

 

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Le brutte (e sbagliate) interpretazioni del Libro Bianco di Jacques Delors

Come Orazio Giancola ci ricorda in questo numero di Molecole, i tradimenti della società della conoscenza sono molti. Ed iniziano con l” incapacità di cogliere gli aspetti più innovativi di quel testo straordinario che era e rimane il Libro Bianco di Jacques Delors. La casareccia interpretazione di alcuni settori della politica e delle parti sociali in Italia, secondo la quale occorreva adeguare le agenzie formative alle presunte domande del sistema produttivo era errata. Nel Libro Bianco c”è senza dubbio un”idea di economia, quindi di capitalismo e di mercato, ma anche un” idea avanzata di società.

L”analisi di Delors partiva da una consapevolezza: il paradigma fordista era in crisi ma la via d”uscita non era scontata e soprattutto rischiava di essere disastrosa per l”economia della nascente Europa di Maastricht. Il ragionamento di Delors punta a coniugare cittadinanza e sviluppo implementando proprio le caratteristiche peculiari, i punti di forza del sistema Europa. Partendo dalle istituzioni della conoscenza e dal welfare.

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Guardando a ciò che è accaduto nell”Inghilterra Blairiana della terza via e ai tentativi goffi di imitazione della sinistra italica neoliberale della seconda metà degli anni ”90 forse troviamo una delle spiegazioni del disastro successivo. Europeo e Italiano.

La sinistra europea, e quella italiana in particolare, sono rimaste prigioniere di una idea fordista della politica che invece Delors cercava di superare mettendo al centro il sapere delle persone come strumento di crescita e di sviluppo della qualità della vita più di qualunque architettura industriale e finanziaria.

Il paradigma produttivista del fordismo declinante richiedeva come via d”uscita per coniugare crescita sostenibile e qualità della vita una vera rivoluzione fondata sulla conoscenza. Al contrario la maggioranza delle culture politiche, anche progressiste, si è accontentata del semplice adeguamento alla domanda incerta del mercato mentre nel contempo si preservavano i pilastri di fondo del taylorismo: il principio indiscutibile di autorità e lo sfruttamento intensivo del tempo di lavoro. Esattamente quelli che Marchionne ci propone oggi come moderne relazioni industriali.

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La subalternità cronica al taylor-fordismo del pensiero prevalente delle sinistre si è manifestata anche al crepuscolo di quel modello produttivo. Così pensava un grandissimo intellettuale e dirigente sindacale come Bruno Trentin che dedicò gli ultimi anni della sua vita a riflettere sul nesso tra lavoro conoscenza e libertà. Non si trattava di adeguare le nostre scuole e università alla domanda del mercato, come qualcuno sosteneva negli anni ”90 e ancora oggi impenitente sostiene, ma di costruire le condizioni per una cittadinanza più consapevole e cambiare attraverso la conoscenza i modelli di impresa. La chiave di volta di questo obiettivo non poteva che essere uno straordinario investimento pubblico finalizzato a produrre una enorme eccedenza di sapere ad ogni livello. Esattamente quello che non si è verificato con i governi di centro sinistra (per non parlare dei governi tecnici) degli anni ”90.

Riscoprire l”autonomia di scuole e università

L”autonomia è ancora un riferimento essenziale nel nostro sistema formativo. Un progetto che ha radici antiche piantate nella storia del movimento operaio e socialista in quella tradizione autogestionale e libertaria che fu anche alla base del sindacato delle origini come spesso ci ha ricordato Vittorio Foa. Pur se sbrigativamente interpretata da una certa vulgata in termini aziendalistici continua ad essere la strada principale per costruire un nuovo spazio pubblico della conoscenza. Non è un caso che anche in questi giorni proprio l”autonomia di enti di ricerca ed università è sotto attacco da parte di un governo in crisi ma ancora pericoloso.

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Ma l”autonomia introdotta dalle riforme degli anni ”90 ha dimostrato i suoi limiti: anzi in molti casi ha prodotto una sorta di eterogenesi dei fini. Anziché costruire strutture orizzontali ha rafforzato poteri verticistici.

Preferiamo allora parlare di autogoverno democratico delle istituzioni della conoscenza da collocare dentro un sistema condiviso di valutazione e in un quadro certo di risorse finanziarie crescenti. Una valutazione in grado di premiare non solo il mainstream dominante, ma di riconoscere e sostenere anche il pensiero divergente e per questo aspetto più innovativo. Insomma una valutazione ben diversa da quella che ci propongono i soliti ineffabili economisti di scuola bocconiana e magari più vicina al modello proposto da fisici intelligenti e informati come Francesco Sylos Labini e Stefano Zapperi (Sylos Labini – Zapperi 2009). Tale cioè da sostenere attraverso la leva finanziaria una nuova etica della comunità scientifica.

Serve però soprattutto una riconoscibile e condivisa missione per le nostre istituzioni della conoscenza sostenuta da grandi investimenti pubblici. Perché tutto ciò sia possibile è però necessario piano straordinario di assunzioni che serva non solo a dare opportunità concrete alle migliaia di precari della conoscenza ma sia tale da aumentare nel tempo il numero delle persone che insegnano e svolgono attività di ricerca.

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Gli attuali precari anche se fossero tutti assunti sarebbero troppo pochi per sostenere un progetto simile. Corollario dell”autonomia dovrà essere un sistema di welfare che garantisca la mobilità degli studenti e dei ricercatori, un welfare non risarcitorio che promuova opportunità, scelte, spazi di autodeterminazione. Insomma crediamo sia ancora possibile una politica in questo campo che progetti e realizzi riforme vere pensate per migliorare la vita delle persone, aumentare la loro capacità di determinare il futuro e ridurre le disuguaglianze. Una politica così deve assumere il sapere come punto di riferimento delle scelte in materia industriale finanziaria e ambientale. Ma soprattutto deve costruire le condizioni per affermare la conoscenza come diritto di libertà.

 

Riferimenti bibliografici:

Andrea Ranieri, I luoghi del sapere, Donzelli 2006;

S. Bellucci – M. Cini, Lo spettro del capitale, Codice Edizioni 2009;

Karl Polanyi, La grande trasformazione, Einaudi 1974; ult. ed. 2010;

F. Sylos Labini – S. Zapperi, I ricercatori non crescono sugli alberi, Laterza 2010;

Bruno Trentin, La libertà viene prima, Editori Riuniti 2004.

Fonte: www.molecoleonline.it.

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