Riprendiamoci il sistema pubblico di formazione e ricerca

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24 Novembre 2010 - 09.02


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di Paolo De Santis – Megachip.

Che sta succedendo del nostro sistema

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Il sistema pubblico di formazione e ricerca è ormai da un decennio oggetto di attacco, sia pure con intensità e modalità diverse, da parte dei governi sia di destra che di centro-sinistra. Il sapere è uno degli ultimi beni comuni che ci sono rimasti. Stanno cercando di togliercelo con generiche e quasi sempre infondate accuse di inefficienza, e in nome di una pretesa efficienza del privato.

È interessante vedere come – quando si parla di efficienza e di meriti che si pretenderebbero dal sistema educativo italiano – nessuno, né a destra né a sinistra, intervenga per chiarire il significato di questi termini, come se fossero concetti assoluti e non funzionali al tipo di società al quale si vuole tendere.

E questo è un punto cruciale, perché se, con appena un po” di buon senso, si riconoscesse che il gioco della crescita infinita (del PIL) è ormai arrivato al capolinea e che è imperativo riprogettare tutto il sistema produttivo e commerciale, allora si scoprirebbe che c”è bisogno di cittadini con una formazione ben diversa da quella messa in atto nelle due riforme che si sono succedute a brevissima distanza, la Berlinguer nel 2000 e la Moratti nel 2004.

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E questo sarebbe vero perfino nell”ottica riduzionista di pensare all”educazione come mezzo di formazione della forza-lavoro, senza contare che la cultura di un popolo rappresenta di per sé la sua identità e la sua ricchezza e, contrariamente alle politiche che perseguono l”incremento del PIL, genera benessere sociale.

Invece, in nome dell”esigenza di un sistema di reclutamento e avanzamento in carriera rigorosamente basato sui meriti dei professori, condizione a suo parere necessaria per un sistema educativo “efficiente”, il Ministro taglia il numero dei posti di ruolo, anche in presenza di un rapporto studente/docente quasi doppio dello standard europeo.

E fa rabbrividire che sia questo Ministro, di questo governo, brillanti entrambi per l”apprezzamento di cui godono a livello internazionale, che parlino di meriti dei professori.

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L”obiettivo del DDL Gelmini è in parte dichiarato: trasformare le università pubbliche in fondazioni private, i cui consigli di amministrazione decideranno tutto: cosa insegnare, come insegnarlo, quanto far pagare di tasse alle famiglie, e quindi a quale fasce sociali sbarrare l”accesso al sapere. La parte non dichiarata è nondimeno evidente: aprire la strada alle università-spazzatura, come le università telematiche che oggi già occhieggiano, ancora timidamente, dai cartelli pubblicitari, promettendo non formazione e cultura, ma il superamento degli esami e il conseguimento del titolo di studio, il cui valore legale nel prossimo futuro sarà prossimo a zero.

Sul fronte della ricerca scientifica la situazione è molto più chiara ed è emblematicamente illustrata da una scelta fatta alcuni anni fa, in modo quasi autonomo e indipendente dal MIUR, dal ministro dell”Economia: si tratta dell”istituzione dell”Istituto Italiano di Tecnologia (IIT), emulo del MIT americano, che qualcuno ha ribattezzato Istituto Italiano Tremonti.

Come si può leggere sul sito dell”IIT (http://www.iit.it/it/), l”istituto è nato “con l”obiettivo di promuovere l”eccellenza nella ricerca di base e quella applicata e di favorire lo sviluppo del sistema economico nazionale. Scopo principale di IIT sono la creazione e la disseminazione di conoscenza scientifica nonché il rafforzamento della capacità competitiva del sistema tecnologico nazionale”.

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Dalla formula si evince che il sistema pubblico di ricerca non era in grado di disseminare la conoscenza scientifica e favorire lo sviluppo del sistema economico nazionale attraverso l”innovazione, né di rendere il Sistema-Italia competitivo. Anche senza entrare nella polemica dell”obiettivo ottusamente sviluppista dell”IIC, dobbiamo dire che questo nostro sistema pubblico di ricerca, che è ora sotto il fuoco del governo, è lo stesso che in passato ha prodotto molti premi Nobel e ha creato le condizioni culturali per lo sviluppo di un sistema industriale che in molti settori produttivi si è imposto come eccellenza nel mondo. Salvo poi, in casi di settori di grande rilevanza strategica, essere finito miseramente (energia, auto, chimica, elettronica, informatica, per citare alcuni esempi di insuccesso), e non certo per la responsabilità delle istituzioni di ricerca.

Sull”IIT, fondazione privata, generosamente finanziata attraverso un apposito articolo di legge, aleggiano pesanti interrogativi a cui ancora il governo non ha dato risposta.

E così, mentre vengono tagliati i fondi ai Progetti di Ricerca di rilevante Interesse Nazionale (PRIN), ai quali accede tutto il sistema nazionale di ricerca, si fanno convergere risorse, in quantità superiore a quelle erogate ai PRIN, su un ente privato gestito attraverso nomine ministeriali.

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Qualcuno potrebbe candidamente pensare che quella pubblica sia solo una parte del finanziamento e che nel bilancio della prestigiosa fondazione privata figuri una cospicua entrata da parte di Confindustria. Sbagliato, IIT è una fondazione privata che opera con finanziamenti pubblici.

 

Che fare?

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Sulle questioni della formazione e della ricerca, mi è capitato ultimamente di partecipare a varie mobilitazioni e incontri e vedere come le parti sotto attacco dal DDL Gelmini si ritrovassero a discutere tattiche per la sopravvivenza, cercando di disegnare una strategia di recupero e ricostruzione di ciò che restava del nostro sistema pubblico di educazione, attestandosi su un gioco di rimessa in cui si era ormai rassegnati a minimizzare le perdite e recuperare il recuperabile.

Sono tentativi di recuperare qualcosa di quella scuola e università pubbliche, che per decenni sono andate avanti, tra alti e bassi, in modo sì accettabile, ma che certamente sarebbero state suscettibili di grandi miglioramenti, se solo ci fosse stato lo spazio politico e la determinazione a innovare da parte di tutti i cittadini, a cominciare dagli addetti ai lavori.

Eppure nel ”62 eravamo riusciti ad avere, per volere di Aldo Visalberghi, una scuola media unificata che rappresentava uno dei modelli più avanzati in Europa. Avremmo dovuto continuare in quella direzione.

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Nei tempi di bonaccia, invece, non si è avuta nessuna spinta propulsiva degna di rilevo. Si è tirata avanti la carretta gestendo l”ordinaria amministrazione, fino al primo raid aereo del nemico, che all”improvviso richiama tutti alla dura realtà.

In queste condizioni si cerca allora di gestire l”emergenza: si soccorrono i feriti, si aiutano gli sfollati e si cerca di rimettere in funzione i pezzi del sistema che rimangono ancora sani, ritrovando una certa unità (ma senza esagerare) contro un nemico agguerrito che noi stessi abbiamo contribuito ad armare.

Ci si mobilita con l”obiettivo minimalista di cercare di ottenere una parte del maltolto, con l”ambizione di tornare poi a gestire di nuovo l”ordinaria amministrazione. Una patetica tattica di rimessa, che si è verificata nel 2004 con il D.M. 270, nel 2008 con la legge 133, e in questi mesi con la minaccia del DDL Gelmini, e che a chiunque abbia occhi per vedere appare avere i giorni contati, un errore fatale che anche questa volta giocherebbe a favore dell”aggressore.

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Confesso di aver avuto sempre qualche difficoltà a seguire molte delle problematiche presentate nelle riunioni, problematiche ben conosciute e vissute da ciascuno degli addetti ai lavori, nei vari settori e qualifiche, ma fondamentalmente di tipo tecnico.

È chiaro che in situazione di emergenza c”è bisogno anche di questo tipo di risposta: in definitiva si deve cercare di non paralizzare la macchina per non fare il gioco del nemico. Ma non ci si può fermare a questo, i temi centrali rimangono in piedi, grandi come macigni.

Anche durante un”emergenza, come quella che stiamo vivendo, non si dovrebbe mai rinunciare a confrontarsi su quale scuola e quale università vorremmo, cosa questa che discende dal definire quali cittadini e quale società vorremmo.

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Al dibattito su un tema di tale portata, potrebbe partecipare qualunque cittadino e dare un contributo fattivo.

E si potrebbe costruire un modello, ancorché ideale e utopico, condiviso da tutti e non solo dagli addetti ai lavori.

Ma occorre dirlo ora, in questo clima da Hiroshima, mentre facciamo un sit-in-presidio davanti a Montecitorio, che vogliamo una scuola in cui i ragazzi possano esprimere liberamente i loro talenti, una scuola dove si divertano imparando per tre-quattro ore quotidiane d”insegnamento frontale e dove ne dedichino altrettante a sport e attività creative scelte liberamente, invece che rimanere prigionieri, immobilizzati e decotti per 5 ore, lottando contro la noia.

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Siamo uno dei paesi che sprecano, inquinano, hanno un PIL da club degli 8, allora diciamo che vogliamo dedicare una parte adeguata di questo PIL alla formazione, come fanno Francia e Germania.

Diciamo che vogliamo cittadini colti, ma con una cultura vasta, non con una formazione tecnica, che li trasformerà in forza lavoro usa-e-getta.

Diciamolo che vogliamo per tutti una scuola dell”obbligo unificata che parta dalla materna e vada al liceo, un liceo unico con il sapere di un liceo classico e scientifico insieme, e il saper fare degli istituti tecnici. Dove i ragazzi imparino le culture greca e latina e non la tecnologia linguistica greca e latina, dove imparino la logica matematica e non le tecnologie matematiche in tutte le salse, ma anche il diritto, l”economia e l”informatica. Perché la cultura non è ramificata, e mai come ora abbiamo bisogno di cittadini che sappiano fare scelte consapevoli per affrontare i problemi che i limiti dello sviluppo e la stupidità umana ci scaraventeranno addosso.

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Questo, che sembra essere un discorso utopico, richiede che tutti insieme, unendo tutte le nostre competenze, ci si ponga a progettare una scuola nuova, su cui modellare un”università nuova, sia pure disegnata entro gli angusti limiti dello schema 3+2.

Ciò richiede anche che si pensi a un sistema di formazione continua dei docenti della scuola, da realizzarsi unicamente attraverso lo studio e la ricerca, alla maniera in cui si è fatto finora, e speriamo si continui a fare, nelle università pubbliche.

No ai mediocri, inutili e mortificanti corsi di “aggiornamento”. Un tale progetto non sarebbe realizzabile con i tagli di bilancio di Gelmini, né a costo zero come a suo tempo fu la riforma Berlinguer 509/99. Ci vorrebbero invece molte risorse. Molte più delle attuali, ma neanche tante, se guardiamo agli indicatori di spesa per formazione e ricerca europei. Ragionevolmente poche, se cominciassimo a negare il finanziamento alla scuola privata. Niente, se recuperassimo e usassimo il 5% della grande evasione fiscale.

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E dobbiamo dire forte e chiaro a chi accusa chi fa ricerca di sprecare il denaro pubblico e d”inefficienza chi insegna, che un governo che non sa combattere l”evasione fiscale, non si deve permettere di tagliare il Welfare e si deve dimettere per incapacità.

E che la formazione non è negoziabile: quello di essere socialmente incluso è un diritto sacro del cittadino e una grande ricchezza per il paese, che forma cicli virtuosi da cui tutti ricavano benefici, anche Confindustria.

Privatizzare il sistema educativo pubblico, significa recintare uno degli ultimi beni comuni rimasti e abbattere una delle ultime barriere che proteggono ancora l”individuo dal suo asservimento incondizionato al mercato.

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Siamo realisti, sosteniamo l”utopia di una società colta e intellettualmente libera, e uniamo le nostre forze per cercare d”imporla con le unghie e con i denti, magari mentre ci lecchiamo le ferite.

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