'Criticare il sapere accademico e rompere l''illusione del talento'

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19 Giugno 2011 - 20.05


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di Nicola Villa.

Una convinzione consolante, comune e condivisa tra gli intellettuali, è che siamo alla provincia del potere ma depositari della cultura e dei saperi che incidono sulle trasformazioni del mondo: come la Grecia classica era dominata dall”Impero romano, sebbene influente culturalmente, così noi siamo dominati dalla cultura tardo capitalista nord-americana, ma conserviamo l”orgoglio almeno della non-ignoranza della vecchia Europa, o meglio dell”Italia umanistica e scientifica. Questa metafora, che deriva da un film canadese di qualche anno fa dal titolo eloquente Il declino dell”impero americano, non potrebbe essere più fuorviante: nella realtà infatti siamo alla provincia della periferia dei saperi, lontani dai dibattiti culturali, arretrati in tutti i campi della ricerca, scientifica e umanista. .

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Mentre le nostre università si inorgogliscono, in modo autoreferenziale, sugli alti standard di conoscenze e saperi raggiunti dagli studenti italiani, paesi ben più lungimiranti come Germania e Cina hanno aumentato gli investimenti alla ricerca universitaria all”alba dell”ultima crisi economica-finanziaria, come a garantirsi per la concorrenza spietata del futuro non solo nel campo delle risorse energetiche e dell”innovazione tecnologica. Un caso paradigmatico è la convinzione dell”esportabilità dei nostri studiosi, intellettuali e scienziati, vanto nazionale: ormai la famosa “fuga dei cervelli” sembra già terminata da un pezzo perché le uscite di sicurezza sono intasate e chi ha trovato un varco in qualche università straniera lo occupa saldamente

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Se non si criticano i saperi, la lotta è di retroguardia

C”è una battuta paradossale sull”università che ha diverse paternità per quanto è suffragata: “all”università ho imparato tutto ciò che non so”. Che sia Ennio Flaiano o Jack London poco importa: non sono pochi coloro che la sottoscriverebbero sentendosi frustrati o delusi dalla loro personale esperienza accademica. Ma non è tanto l”aspetto di non aver imparato abbastanza o aver appreso nulla all”università, perché quello che manca è una dimensione politica e pratica dei saperi accademici. Una volta ho sentito dire da una studentessa delusa e sperduta: “l”università non mi ha fatto scoprire i libri utili e necessari che mi avrebbero aiutato a capire la realtà, a muovermi in questo presente”. Il problema è proprio l”assenza di una dimensione politica in tutti i campi del sapere accademico e, dove non assente, questa è insufficiente o superata.

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In questi ultimi anni di mobilitazioni studentesche, limitandosi all”Onda del 2008 e alla rivolta dell”autunno del 2010, la critica dei saperi è mancata sia nelle prospettive che negli intenti della protesta.

Da un certo punto di vista questa mancanza è stata dovuta a una vera e propria Realpolitik: gli studenti, anche quelli che criticano il sistema, spesso per difendere l”istituzione pubblica non criticano i suoi difetti. Quando una lotta è di retroguardia – si difende cioè il poco che si ha e che è fortemente a rischio – è pacifico che questa diventi un minimo reazionaria, che si adatti al momento e al nemico politico: quando un potere assume aspetti anarchici bisogna irrigidirsi, quando al potere ci sono i pregiudicati bisogna per forza di cose essere un po” giustizialisti, per esempio.

Ma in questi anni, due opinionisti come Francesco Ciafaloni e Carlo Donolo sul mensile “Lo straniero” sono stati piuttosto inascoltati quando avvertivano i movimenti sulla necessità di legare la difesa dell”istruzione pubblica a una critica dei saperi anche in ottica del discorso sul lavoro (poi le riflessioni di Donolo sono confluite nel recente Italia sperduta pubblicato da Donzelli).

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A dire il vero una minoranza di studenti ha proposto nelle assemblee l”ipotesi di gestire corsi di autoformazione, di creare piccole redazioni intermittenti di confronto politico-culturali, ma queste esperienze minoritarie si sono rivelate poco efficaci e velleitarie. Da un punto di vista mediatico le proteste sono state etichettate come quelle “dei bravi ragazzi”, cioè dei bravi studiosi che non vogliono perdere i corsi, le ore di studio, che non vogliono essere costretti a trovarsi un lavoro in nero o part-time per pagarsi l”aumento delle tasse, consapevoli che il futuro lavorativo passi per l”investimento nella formazione individuale e collettiva, ma forse sarebbe stato molto più radicale e di rottura se la rabbia per l”attacco all”università fosse passata per la prospettiva di totale riforma e rifondazione.

Bisogna difendere con le unghie e con i denti l”università, ma quando una laurea vale zero, quando nessuno legge più i cv, quando ormai la fase transitoria della precarietà è finita per una prospettiva di non lavoro, quando cioè l”università è stata per anni consapevolmente complice con la congiura sociale contro il lavoro e l”autonomia giovanile, che senso ha difenderla più a lungo?

 

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Rompere l”incantesimo del talento (e dei “consumi culturali”)

Più in generale un altro aspetto che vede i giovani deficitari sul piano della contestazione sociale è la critica della cultura. Siamo forse il primo paese europeo che negli ultimi dieci anni ha intensificato, raddoppiato e triplicato i consumi culturali collettivi, non intesi come libri, cd o dvd ma come biglietti e partecipazioni: si pensi alla fioritura di festival culturali (musica, teatro, letteratura, danza) che hanno occupato quasi totalmente le 52 settimane annuali, oppure alla eventizzazione di ogni aspetto pubblico. Un popolo ormai mutato e televisivo riesce a trovare una piazza pubblica e comune solo quando questa viene spettacolarizzata, nella celebrazione dell”arte, della cultura e della creatività in un clima festivo permanente.

La cosa più impressionante è che i giovani partecipano a questa festa culturale illusi che ne venga valorizzato il talento. La grande invenzione del nostro tempo, conseguente alla scomparsa del lavoro, è proprio il talento, l”illusione che ognuno possa raggiungere, attraverso la propria creatività, fama e denaro.

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Eppure una critica della cultura deve passare anche per quella dei consumi culturali: è abbastanza preoccupante che i maggiori lettori di articoli reazionari di Travaglio siano giovani, che i maggiori e più indignati spettatori di Santoro siano il “pubblico dei laureati”, che i best-seller e la musica più ascoltata siano confezionati per incontrare i gusti giovanili.

È l”illusione della diversità culturale a permeare tutti questi consumi per generazioni di accettanti e dormienti.

 

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Fonte: MolecoleOnline

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