La scuola nel sistema in cui non servi a nulla

Un problema cronico, la scuola. Se ne parla tanto, si propongono soluzioni, eppure si aggrava sempre di più, perché la decadenza si collega a una crisi sistemica vasta.

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1 Aprile 2013 - 15.29


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di Miguel Martinez – Megachip.

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Un problema cronico, la scuola, si presenta sempre più grave. Se ne parla tanto, si propongono soluzioni, eppure si aggrava sempre di più, perché la decadenza della scuola si collega a un problema ben più vasto, una crisi sistemica che ha tante facce. Le facce più vicine sono quelle dei nostri figli in età scolare, ai quali ci sentiamo di dover dare qualche risposta. Partirò insomma dalla scuola, ma dovrò andare oltre.

Sento in giro due discorsi, il primo prevalente nei media, il secondo tra le persone che possiamo considerare in qualche modo affini a noi:

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1) «la vecchia scuola va riformata, in buona parte privatizzata, “efficientizzata”, finalizzata al mercato»;

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2) «dobbiamo conservare a tutti i costi la vecchia scuola, come istituzione parastatale, sostanzialmente libera dal mercato».

Secondo me, dobbiamo invece uscire da questo doppio monologo, così come usciamo dal doppio monologo «destra e sinistra».

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Si tratta di capire che la scuola è una delle istituzioni fondamentali dello Stato Nazione. E lo Stato Nazione è in via di collasso in tutto l”Occidente (non parlo per il resto del mondo). Non si tratta semplicemente della prevalenza temporanea di “cattive idee” neoliberali, che si possano esorcizzare con un richiamo alla Costituzione, ma di una cosa enormemente più grande, che ha a che fare sia con il crollo delle basi energetiche dello Stato Nazione, sia con l”esplosione informatica, per citare solo alcuni fattori.

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Se leggete i discorsi di chi difende la scuola pubblica, vedrete che ricorrono incessantemente espressioni dello stesso tipo: “povera scuola”, “crisi”, “resistere”, “non farsi sommergere”, “salvare”…

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Attenzione, dire che una cosa sta morendo non vuol dire condannarla. Non si tratta affatto di condividere il monologo “privatista”. Né di sottovalutare minimamente gli aspetti positivi che ha avuto la scuola pubblica.

Vuol dire, prenderne atto e capire che dobbiamo dedicare le nostre poche forze a trovare un’«alternativa» adatta ai tempi tremendi che ci aspettano, anziché dedicarci all”accanimento terapeutico.

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Non ho idea di cosa ciò possa implicare. Forse (forse) abbiamo qualcosa da imparare dai pensatori “alternativi” statunitensi, che sono nati nel paese del capitalismo assoluto, senza dover far conto con i residui arcaici che ci sono in Italia; e che non vivono in modo così forte il dilemma italiano «Stato contro Privato».

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Ma credo che dobbiamo iniziare a pensare in termini diversi dall”identificazione tra “stato” e “beni comuni”.

Comunque mi riferisco solo in parte all”Italia. Gran parte delle mie riflessioni nascono infatti dalla lettura di un libro di Régis Debray, Lo stato seduttore, che parla della scuola francese, e che risale a ben 20 anni fa. Più in generale, credo che qualunque discorso sulla scuola dovrebbe essere fatto almeno analizzando i processi in corso in tutta Europa e nel mondo, e non solo in Italia.

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Ovunque ci siano agitazioni nel mondo della scuola – a Chicago oppure a Parigi o Madrid – troveremo analisi che sembrano dipingere i problemi scolastici italiani.

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Ovviamente, la maniera in cui i singoli dispositivi giuridici reagiscono alla crisi globale sono diversi, ma sono più collegati di quanto pensiamo: Roberto Renzetti tempo fa fece uno studio interessante sui lavori dei think tank sulla riforma scolastica globale.

Per quanto riguarda il collasso dello Stato-Nazione, mi sembra il dato più evidente di tutti: lo Stato Nazione è un modo particolare di organizzare la società a un sistema energetico di un certo tipo, in via di dissoluzione. La conseguenza inevitabile, che stiamo vivendo tutti ormai da diversi decenni, è il tracollo lento ma sistematico del sistema Stato, che si riduce sempre di più ad alcune funzioni poliziesche. I meccanismi sono stati studiati e descritti da tanti. Uno dei pensatori più chiari in merito è Ugo Bardi.

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Ma è un fenomeno che viviamo tutti, e – ripeto – non solo in Italia: succede tanto nella piccola città degli Stati Uniti che non può più asfaltare le strade, come nel Comune di Firenze che non ha più i mezzi per gestire il verde pubblico, come nel comune inglese che chiude gli uffici di pianificazione urbana: non a caso, cito esempi periferici, perché il crollo avviene dalla periferia verso il centro.

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Nel caso della scuola in particolare, si sovrappone il processo mediologico, descritto da Debray: cioè il passaggio da un sistema di informazione in qualche modo controllabile dal centro, costruito con un processo di lenta accumulazione tipico del sistema scolastico, a un flusso simultaneo di immagini. Ma qui possiamo anche inserire l”enorme rivoluzione della bioingegneria, che giorno per giorno sta mettendo in dubbio anche di cosa stiamo parlando quando diciamo “esseri umani”, dove la biologia e l”informatica diventano sempre più una struttura unica.

Sono cose enormi, di cui è difficile immaginare la portata; non sono nemmeno cose gradevoli, per molti versi, ma è il mondo in cui stiamo entrando.

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Estendendo la riflessione partita dalla scuola…

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Sono necessari due elementi.

I processi di cui noi accusiamo i vari Berlinguer, Gelmini o altri, sono semplicemente la cronaca locale con cui si realizzano processi grandi come il pianeta.

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Il secondo elemento consiste nel cogliere la portata della “decrescita”. Un termine che, per fortuna, è ormai stato accettato in molti ambienti, ma di cui forse sfugge il senso più profondo.

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Il rischio è quello di vederlo in termini di emergenza e di scelta: ci sono alcuni ricchi sfrenati che stanno sprecando le risorse del pianeta, ritorniamo all”equilibrio attraverso un comportamento virtuoso: riciclaggio della plastica, o tassazione delle rendite, per porre fine a eccessi vari e creare una società equilibrata.

Non ho nulla contro il riciclaggio, né contro la tassazione delle rendite, naturalmente, ma la vera questione è un”altra: viviamo nel punto di convergenza di varie linee gigantesche di crisi: inquinamento, demografia, esaurimento delle risorse, complessità tecno-informatica, crescente inutilità del lavoro umano, necessità di espansione del sistema per sopravvivere, inevitabile gigantismo finanziario, ad esempio.

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Quando queste linee si scontrano, l”intero sistema che abbiamo conosciuto va lentamente in frantumi.

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Di solito, di queste cose si parla in termini di minaccia futura: «smettiamo di bruciare idrocarburi, oppure tra cinque anni arriveremo al punto di non ritorno». Questo uso del collasso come “uomo nero”, brandito per risvegliare il Cittadino Responsabile che è in noi, fa dimenticare che con ogni probabilità abbiamo già passato il punto di non ritorno.

E siamo già “nella” decrescita, che non è fatta di nostre scelte virtuose, ma di una catena di catastrofi collegate, cui il sistema risponde attraverso un progetto di pilota automatico (come dice Mario Draghi), che può essere finanziario, ma è anche di un Panopticon di controllo elettronico totale e di bioingegneria che reinventa ciò che ancora chiamiamo “essere umano”, e che passa attraverso la costruzione di un”unica mente globale/elettronica.

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Il collasso avviene dalla periferia verso il centro: tutte le energie calanti vengono infatti dirottate dalla periferia verso il centro per alimentare il Panopticon.

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Quindi si dissanguano rapidamente le periferie delle città, le periferie della salute, le periferie della conoscenza (l”infanzia), le periferie del lavoro, le periferie della ricchezza, poi il collasso arriva sempre più verso il centro e in alto – non a caso inizia oggi a massacrare non solo i disoccupati, non solo gli operai, ma anche il ceto medio; non solo il Sudan, ma anche la Grecia e la Spagna…

Allo stesso tempo, crolla il motivo di essere dello Stato Nazione: la formazione e la tutela di lavoratori, soldati e riproduttori (madri) indispensabili per mandare avanti la baracca: la realtà è che oggi la maggior parte della gente non serve a nulla. Nel nuovo sistema, prevale il privante, cioè colui che priva gli altri dell”accesso ai beni comuni, semplicemente per deperimento del potere istituzionale.

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Questo credo che sia, a grandi linee, il contesto entro cui dobbiamo pensare alle scelte politiche, economiche, sociali, scolastiche.

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Vengono le vertigini, ed è davvero difficile anche pensare a cosa mai potrà essere “la scuola” in un simile contesto: in cui non ci saranno fondi, in cui non si forma ad alcun futuro concreto (non si può pensare oggi a studiare “per diventare” avvocato o geometra, per dire), in cui le interferenze del dispositivo informatico esterno sovrastano totalmente le voci interne.

Ma sarebbe bene iniziare a pensare in questi termini, per quanto siano spaventosi e ovviamente impopolari.

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Tutto questo non significa che occorra in qualche modo accettare inermi lo sfascio della scuola pubblica. È certamente giusto cercare di dirottare i fondi sempre più poveri dello Stato morente verso il tempo pieno nelle scuole, fosse anche l’ultimo volo, anziché verso gli aerei F-35, che nemmeno volano. È giusto chiedere che i soldi che restano vadano al rifornimento della carta igienica nelle scuole, invece che disperderli nelle Grandi Opere Inutili.

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Semplicemente, se vogliamo essere davvero alternativi, dobbiamo capire che non basta appellarci alla Costituzione o alla legalità per avere una società migliore: siamo sull”orlo dell”abisso, con i tirannosauri alle spalle, e dobbiamo pensare soprattutto in termini di paracaduti.


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