Comunicazione e informazione: armi del dominio e del potere

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17 Giugno 2011 - 18.30


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di Massimo Ragnedda.

La principale battaglia nella nostra società è quella per la conquista delle menti. Da sempre la comunicazione e l”informazione sono armi del dominio e del potere (ma anche del contropotere), ma mai come ora la capacità di costruire consenso è fondamentale per imporre le regole che governano le istituzioni della società. Il potere, dunque, si esplica, anche e soprattutto, attraverso la capacità di plasmare le menti (Castells, 2009). Infatti il modo in cui noi pensiamo influisce e determina le leggi, i principi e i valori su cui le società si fondano; il modo in cui noi pensiamo determina come agiamo, sia singolarmente che collettivamente.

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La vera sfida dell”èlite al governo – che non necessariamente coincide con i politici al governo, quelli democraticamente eletti, anzi spesso trae vantaggio dallo stare nell”ombra – sta nel riuscire ad imporre, grazie alla comunicazione, il pensiero unico, ovvero, per usare le parole di Ignacio Ramonet “la trasposizione in termini ideologici, che si pretendono universalisti, degli interessi di un insieme di forze economiche, e specificamente di quelle del capitale internazionale” (Le Monde diplomatique, “La pensée unique” gennaio 1995).

Questa tecnologia del consenso sociale, abilmente costruito con la ridondanza e la trasversalità dei messaggi, è affidata di volta in volta ai tanti opinion leaders, all”industria culturale e ai mass media, alle riflessioni dei tanti autorevoli esperti che presentano un”unica visione delle cose, quella politically correct, che non urta, quella che non turba. I concetti chiave del pensiero unico si basano essenzialmente sugli aspetti economici e sul ruolo dell”economia come guida della nostra società. Il pensiero unico esalta l”onnipotenza del mercato e ce la fa accettare come inevitabile.

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Questo processo egemonico si articola mentre si forma e crea le proprie istituzioni man mano che si “sviluppa”, dal G8 alla Banca mondiale, dai miti hollywoodiani ai “loghi” intesi come universi simbolici. Il mercato fa il suo corso sino a determinare lo sviluppo di un Paese. Gli accordi commerciali vengono considerati la base del processo di democratizzazione di un Paese. Siamo dinanzi ad un processo che colpisce e svuota i soggetti politici classici e le loro istituzioni e che priva gli organismi nazionali (liberamente eletti) del proprio potere decisionale.

Uno Stato che accetta le direttive imposte dai grandi organismi internazionali – WTO, Banca Mondiale, FMI, le agenzie di rating eccetera – che non pone ostacoli al “normale corso del mercato”, che ne recepisce le leggi, viene aiutato e sorretto (non solo economicamente) dall”estero. Chi si oppone è oggetto di ritorsioni politiche, economiche e spesso anche militari (in quest”ottica devono essere intese alcune delle recenti guerre umanitarie o alcuni tentativi di rivoluzioni “pilotate”).

Concetti come “mercato del lavoro più flessibile”, “riforme delle pensioni”, “moneta forte”, “crescita del PIL”, “aumento dei consumi” e così via, sono entrati nel nostro lessico quotidiano, come elementi imperanti e imprescindibili di qualsiasi azione di governo. E questo, grazie al lavoro sotterraneo e lento dell”industria culturale e della pubblicità, dei film e dell”informazione: in una parola grazie alla comunicazione. Il mercato, con le sue leggi e il suo corso, è riuscito a farsi accettare e desiderare; e lo ha fatto presentandosi con il volto suadente del progresso. Il “libero mercato”, nell”ottica neoliberista, che dovrebbe estendere i diritti e la democrazia, in realtà, rende schiavo il sistema democratico stesso. Infatti, tutti devono recepire le leggi imposte dal mercato, indistintamente dal colore o fazione politica.

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Chiunque si veda investito del potere popolare di governare, deve necessariamente mettere mano al mercato del lavoro per renderlo più flessibile ed adattarlo al mercato che cambia. È il “mercato che lo impone”: non accettare questo diktat significa porsi volontariamente fuori dal circuito internazionale che conta. Allora ecco che la politica diviene “schiava” dell”economia e chi liberamente eletto deve sottostare alle leggi ferree imposte da chi, non democraticamente, siede nei posti di potere.

Maggiore flessibilità significa anche e soprattutto minori diritti sindacali per i lavoratori, minore tutela e sicurezza del posto di lavoro. Lavoro flessibile significa anche e soprattutto «una ferita dell”esistenza, una fonte immeritata di ansia, una diminuzione di diritti» (Gallino, 2002). Affermando questo si rischia di essere considerato “anacronistico”, fuori dai tempi, fuori moda: e questo, oggi, è un peccato mortale.

La nuova egemonia – che grazie ai media viene “accettata” come naturale dall”opinione pubblica e sembra esistere in virtù di un potere indiscutibile – è ora una forza transnazionale, che travalica i confini dello Stato e si perde nella sua internazionalità. Le scelte che influenzano realmente la nostra quotidianità, vengono prese in sedi e da soggetti di cui spesso si ignora anche l”esistenza. Mentre da una parte si decantano le lodi di un sistema di democrazia rappresentativa, dove i cittadini sono chiamati a votare ed eleggere così i propri rappresentanti, dall”altra non si parla dei meccanismi di autoperpetuazione degli interessi privati.

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Non si da risalto alle regole di nomina dei governatori delle Banche centrali, dei dirigenti del Fondo Monetario Internazionale o della Banca Mondiale o si tace, cosa tanto sconosciuta quanto preoccupante, sull”esistenza di società private che certificano anche i bilanci pubblici, le cui valutazioni determinano, in misura tutt”altro che secondaria, il grado di affidabilità di un Paese.

Sono queste istituzioni e questi personaggi, in parte oscuri, che determinano l”andamento dell”economia reale e influenzano in maniera diretta le scelte economiche e politiche dei governi democraticamente eletti. Sono queste istituzioni e persone (quella ristretta èlite al potere) che decidono se un Paese deve fallire o meno, quanti milioni di disoccupati ci devono essere, quali servizi devono essere privatizzati e così via. Non si può affidare al solo momento elettorale la protezione efficace dei cittadini dagli abusi di potere, poiché il voto, da solo, non basta per garantire i cittadini dall”uso arbitrario del potere. La difesa dei diritti passa anche attraverso la libera informazione: per questo potere e contropotere si scontrano anche nel mondo mediatico.

 

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Fonte: http://notizie.tiscali.it/opinioni/Ragnedda/1297/articoli/Comunicazione-e-informazione-sono-armi-del-dominio-e-del-potere.html.

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