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di Andrea Cortellessa – www.leparoleelecose.it
Ricordiamo Elio Pagliarani, indiscusso protagonista della poesia italiana della seconda metà del ”900, morto ieri all”eta di 84 anni. Lo facciamo pubblicando l”articolo di Andrea Cortellessa, apparso oggi su “Le parole e le cose”, incentrato su una delle liriche più significative del “poeta della classe operaia”, tratta da “Lezione di fisica” (1964).
Era superstizioso, Elio. I suoi amici lo sapevano bene, ed evitavano di sfidare la sua collera leggendaria. C”è anche chi fra loro – come a ironicamente sancire un discepolato “segreto” – ha mutuato una sua superstizione a rovescio: impostando la sua opera proprio su quel numero, otto, che Elio chissà perché evitava come la morte. Stando così le cose, appunto della morte non si poteva parlare in sua presenza. Neppure io mi sono azzardato, in effetti, scrivendo della sua opera. Omettendo così un tema, e una sostanza psichica, che a rileggerla in questa chiave – come non posso non fare oggi, purtroppo – vi appare centrale.
La poesia straordinaria che in Lezione di fisica (1964) s”indirizza ad Alfredo Giuliani col titolo Oggetti e argomenti per una disperazione attacca così: «Che sappiamo noi oggi della morte / nostra, privata, poeta?». “Morte”, qui come nel resto dell”opera di Pagliarani, è parola dai molti significati. È una parola-connettore, a parlar filosofese bisognerebbe dire un sincategorema, che lega campi semantici (e pulsioni psichiche) assai distanti fra loro. La «morte privata», è specificato, è quella individuale, cui da «adolescenti» si crede (o si «teme») di non essere soggetti: e che all”apparire nella mente segna, in ciascuno di noi, il passaggio della linea d”ombra. Da quel momento in poi si tende al proprio fine, aveva detto Gadda: al termine comprensivo e definitivo (che ci comprende e ci definisce: esistenzialisticamente, certo). Col passare dei versi però, interrotto di continuo da raffiche di discorso altro (che fanno del libro del ”64, specie con la sua extension di quattro anni dopo, Lezione di fisica e Fecaloro, il più audacemente informale e asintattico di Elio nonché – malgrado in precedenza venisse egli considerato in quel novero quasi un “moderato”, un realista attardato – di gran lunga il più scatenatamente sperimentale fra quelli di tutti e cinque i Novissimi del ”61), il monologo passa a considerare “morte” sotto un punto di vista collettivo, più che storico biologico però, cioè filogenetico: «ci avevano detto che gli uomini, non un uomo, sopravvivono / che a noi tocca la stessa immortalità come alle belve / nell”amore che genera».
Ecco, l”amore: che nella poesia di Elio – come da millenaria tradizione – alla morte sempre si associa. Ma in un”accezione decisamente diversa – materialistica, fisica appunto – da quella della tradizione. Si tratta infatti dell”«amore che genera», cioè dell”accoppiamento sessuale: che, nella sua pulsione irresistibile di «belve» (molto più avanti, negli Epigrammi ferraresi dell”87, così verrà trascritto da Savonarola: «la carne è un abisso che tira in mille modi»), alla morte si contrappone e, freudianamente, la sussume. In un”altra poesia del libro, quella che gli dà il titolo, all”evocazione teterrima di scenari da guerra nucleare nelle parole di un dottor Stranamore del tempo («160 milioni di decessi in casa sua / non sarebbero la fine della civiltà [.] / [.] va da sé che esiste, egli scrive, un ulteriore problema / quello cioè se i sopravvissuti avranno buone ragioni / per invidiare i morti») segue subito dopo, col solito montaggio straniante (ma, stavolta, psichicamente chiarissimo), un inciso di pura «gioia» sessuale: «attiva, trionfante [.] / [.] vino rosso capriole con lancio di cuscini / nella mia stanza».
Amore, in questo senso, è pure quel che ispira poesia: «tra il trentanove e il quaranta», «lo stesso anno / che conobbi gli stimoli del sesso», racconta Elio sempre in Oggetti e argomenti per una disperazione, si trovò a tradurre – «male» – un sonetto di Shakespeare: «il mio verso vivrà finche gli uomini / sapranno respirare e tu con quello». La sopravvivenza al fluire delle generazioni, prima evocata sul piano biologico, passa ora di nuovo a quello storico: nella fattispecie a quello della storia della letteratura cioè dell”eredità «non genetica» della parola poetica destinata a trasmettersi ai posteri. Ma si tratta di un”illusione (non a caso, in precedenza, lo slancio dell”incipit era stato subito stroncato da un inciso metatestuale di brechtiano straniamento: «Faccio una pausa / rileggo questo inizio non è male mi frego le mani»), la più crudele forse. Perché da tempo chi scrive sa di farlo, invece, in una condizione di oggettiva disperazione. «Non si esalta / più delle avventure dello spirito»: «da tempo ciò che brucia / mi devasta soltanto», e non serve certo «a sublimare le mie sconfitte». Devastante chiusura del cerchio: se il tragico moderno (quello all”ombra della minaccia nucleare, per esempio) «trae una morale / di morte universale», non può provvedere – a differenza di quello antico – alcuna catarsi: non serve cioè «a consolarci della nostra», di morte: quella «privata».
Racconta Franco Cordelli che a diciott”anni si trovò alla libreria Einaudi a una presentazione dei Novissimi, forse proprio quella dell”antologia curata nel ”61 da Alfredo Giuliani. C”era maretta. Il pubblico si divideva fra esaltati fautori («In ogni città d”Italia c”è un giovane disposto a morire per Sanguineti»», recitava in quegli anni – lo si creda o meno – uno slogan editoriale di Feltrinelli) e altrettanto esagitati avversatori. Il frastuono crebbe sino a mettere a tacere gli oratori. Allora si alzò in piedi Elio, si mise davanti a un cartello appeso al muro con stampata proprio Oggetti e argomenti per una disperazione, prese a leggerla a voce altissima. E tutti tacquero. Gli ultimi versi suonavano: «Ma se avessi soltanto bestemmiato / allora Brecht ai vostri figli ha già lasciato detto / perdonateci a noi per il nostro tempo». Era quello un tempo, davvero, in cui non si poteva non bestemmiare: dicendo a voce alta verità durissime che altri tempi, invece, preferiscono nascondersi.
L”episodio mette in scena tanti caratteri tipici di Elio. Dall”esacerbata moralità che propelleva i suoi slanci, irresistibili quanto le sue collere, allo stoicismo quasi brutale con cui affrontava l”esistenza (la «violenta fiducia» di Narcissus pseudonarcissus); dalla passione pedagogica appunto brechtiana, nella quale – a differenza che nel maestro avverso Pasolini – l”obliquità dell”assunto non si disgiunge dalla veemenza del gesto («Colpisci, vita ferro città pedagogia / I Germani di Tacito nel fiume / li buttano nel fiume appena nati / la gente che s”incontra alle serali», si legge in un inciso della Ragazza Carla), sino all”attitudine teatrale di letture pubbliche – maturata nella compagnia anni Cinquanta della mitobiografica trattoria milanese da Poldo a via Borgospesso: con Amodio, Fachinelli, Bosio e gli altri – con cui Elio tempestava in quei roaring Sixties, incrocio quasi di Majakovskij e Jimi Hendrix (c”è uno scampolo video di quegli anni, con lui in occhiali scuri, che fa quasi spavento), ad anticipare voghe tanto più recenti e meno squassanti. E che tante volte in seguito, dimidiato ma sempre arcipossente, ci ha vulnerato live: ogni volta accompagnandosi con la mano libera, ha scritto il suo lettore più fedele Walter Pedullà , come il «direttore d”orchestra» di se stesso: «i ritmi di Pagliarani drammatizzano ogni modo di pensare e di parlare».
Morte è poi quella del vivere sociale che, aveva scritto Ungaretti, si sconta vivendo. Nei versi limpidissimi che sigillano La ragazza Carla, il poemetto decisivo pubblicato nel ”60 (ma ideato in forma di soggetto per un film neorealista, ha raccontato Elio, già nel ”47-48), è detto citando addirittura Cavalcanti: «Quanto di morte noi circonda e quanto / tocca mutarne in vita per esistere / è diamante sul vetro, svolgimento / concreto d”uomo in storia che resiste». Morte in vita, senz”altro, quella delle tante ragazze Carle asservite dal capitale che, aveva raccontato Fachinelli – riportato in esergo – «il sabato si prendono un sonnifero, opportunamente dosato, che le faccia dormire fino al lunedì». Guardiamo il cielo, Carla Dondi, in storia che resiste – ed ecco risuonare i più stoici, i più umani, i più morali versi di Pagliarani: «È nostro questo cielo d”acciaio / che non finge Eden e non concede smarrimenti, / è nostro ed è morale il cielo / che non promette scampo dalla terra, / proprio perché sulla terra non c”è / scampo da noi nella vita». Per mutare in vita questa morte, ancora una volta, solo una è la strada (con la più bella delle rime equivoche): «non c”è risoluzione nel conflitto / storia esistenza fuori dell”amare / altri, anche se amore importi amare / lacrime [.]».
In Oggetti e argomenti per una disperazione c”è pure questo inciso, sulle «consuetudini della specie»: «anch”io mi sono sentito in gran ritmo naturale / sopra una donna e ci guardava un mare / come avessimo avuto un senso, o guardavamo un mare / come avesse avuto un senso». Ecco l”ultima accezione – archetipica e antropologica – della morte: che così si congiunge alla vita, al suo atto germinale. Nella Ballata di Rudi (l”altro grande poemetto, epico e corale, pubblicato solo nel ”95 ma iniziato proprio in quei primi anni Sessanta: di fronte a un”Italia che si trasformava, e implacabile cresceva e spensierata si perdeva nella «società del benessere») ossessiva presenza è quella del mare, appunto. Quell”Adriatico del quale Elio in molti sensi era originario, quei «braccianti del mare» da lui messi in scena, al lavoro come in una danza ritmata. Ecco, quell”umano lavoro – che è la vita di Carla e la nostra – si basa sulla presunzione, o sulla superstizione se si vuole, che (con eco appunto di quell”inciso da Lezione di fisica) «non ha senso pensare / che s”appassisca il mare». Che si esaurisca cioè la forza vitale – «privata» e collettiva – che ci tiene al mondo. Nelle varie redazioni e frammenti della Ballata, assai significativamente, il mare appassito di volta in volta ha senso e non ha senso (come del resto ha senso e non ha senso la nostra vita – la vita nel suo complesso). Ma nella clausola ultimissima, con un verso gradinato che si spinge sino all”estremo del paginabile, così Elio concludeva: «Ma dobbiamo continuare / come se / non avesse senso pensare / che s”appassisca il mare».
È quello che ci sforziamo di fare, Elio, come hai fatto tu sino alla fine. Anche se come te in fondo lo sappiamo bene, che così non è.
Oggetti e argomenti per una disperazione
ad Alfredo Giuliani
Che sappiamo noi oggi della morte
nostra, privata, poeta?
………….Poeta è una parola che non uso
di solito, ma occorre questa volta perché
respinti tutti i tipi di preti a consolarci non è ai poeti che tocca dichiararsi
sulla nostra morte, ora, della morte illuminarci?
……………………….Tu
corrispondesti quando dissi con dei versi
che ho sofferto e avuto vertigine orgogliosa, temendo adolescente
di non poter morire. O credendo.
……………….Faccio una pausa
rileggo questo inizio non è male mi frego le mani
dove c”è un po” di reumatismo stagionale, sollevo gli occhiali
mi guardo l”occhio allo specchio. Non lo capisco, non so giudicare
ma so che i medici mi spiano gli occhi, io non so se il mio
è torbido o dilatato o sporgente, che cosa può rivelare: so che mi tirano ora
le corde del collo che scrivere questa notte
mi terrà eccitato parecchio che direi ne vale la pena sapessi
che fra tre notti riprendo un ritmo di sonno.
…………………….Alfredo e chiedo
in giro agli amici comӏ la mia faccia, il colore.
…………………….Anche tu
quello stesso pensiero adolescente, anche tu
sbianchi alle volte d”improvviso dopo un pasto.
Immortali per le stradi non ce nӏ
ci avevano detto che gli uomini, non un uomo, sopravvivono
che a noi tocca la stessa immortalità come alle belve
nell”amore che genera, e sapessi o no che era
il solo atto consentito oltre il limite di uno
l”ossequio necessario alle consuetudini della specie
anch”io mi sono sentito in gran ritmo naturale
sopra una donna e ci guardava un mare
come avessimo avuto un senso, o guardavamo un mare
come avesse avuto un senso.
Ma ciò che distingue l”uomo è la scommessa
ecco una frase inventata dalle élites, in ogni modo è vero che qualcuno
scommette di non morire.
…….. …….Ci vuole orgoglio: credere
che il proprio lavoro la pena non se stessi ma il proprio modello sia utile
agli altri; fiducia: che la storia
paghi il sabato; eccetera: e il bello è che di questa scommessa
l”unico a non avere le prove se l”opera gli sopravviva
magari di una sola luna
è chi ha scommesso, chi muore.
……………….Le dissi: lo stesso anno
che conobbi gli stimoli del sesso tradussi un sonetto di Shakespeare
male, “Shall I compare thee to a summer”s day?”
tra il trentanove e il quaranta, col finale
“il mio verso vivrà finché gli uomini
sapranno respirare e tu con quello.”
…………………E tu con quello
volto di donna, sei ormai finale?
……………….E” ora conchiudendosi
il respiro che la clausola s”adempia
risolutiva?
……..Ho fumato duecento sigarette
per non amarla, in dodici ore accanto
il volto nel calore
le si apriva in dolcezza lievitata
ma da me è travisata soltanto
la malafede degli intestini
……………in bile e escremento
e il panico poi, e l”attrazione della clinica.
E il fisico con il cancro nel ginocchio, col ginocchio di vaccina
che urli, picchia lì avrebbe detto al fascista, picchialo nel ginocchio che c”ha il cancro.
Quanti alibi ormai per non amare
………………..e lei insiste al telefono
se è questo di me che ti interessa, ti aggiungo che è a Bologna
che ormai gli amputeranno la gamba.
…………………Da tempo io non mi esalto
più delle avventure dello spirito, da tempo ciò che brucia
mi devasta soltanto e non posso continuare
a far versi sulla mia pelle, a sublimare
le mie sconfitte, a presumere significativi
me e lei le penultime esplosioni
……………….a trarre una morale
di morte universale a consolarci della nostra.
Ma se avessi soltanto bestemmiato
allora Brecht ai vostri figli ha già lasciato detto
perdonateci a noi per il nostro tempo.
(Elio Pagliarani, 1927-2012)
Fonte: http://www.leparoleelecose.it/?p=3790#more-3790
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