'Il mito dell''individualismo Perché ci crediamo tanto?'

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2 Settembre 2012 - 07.31


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di Daniela MontiCorriere della sera

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Molti di noi mentono a se stessi. Cresciuti con il mito del lavoro, del farsi da sé, del «decido io chi voglio diventare e qual è il prezzo che sono disposto a pagare», danno prova di un”inossidabile adesione al principio del «volere è potere». È il modello Steve Jobs: colui che crede nelle proprie capacità e nel proprio talento, che non deve rendere conto a nessuno se non a se stesso e ai propri valori, che rischia e che vince, a dispetto di tutti. Confrontato con una certa diffusa apatia, è un modello molto apprezzabile.

Eppure l”idea di autodeterminazione che sta alla base di questa visione della vita e di noi stessi è «un”illusione, una fantasia». Non siamo autosufficienti. Nessuno di noi lo è, però continuiamo ad alimentare questo «mito ostinato dell”indipendenza». Perché? Se lo chiede il filosofo americano Firmin DeBrabander sul forum «The Stone» del New York Times e i seicento e passa commenti che il suo scritto ha suscitato la dicono lunga sull”interesse del tema.

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È dura ammettere di essere guidati da altre forze che non siano quelle della sola ragione e volontà. Sulla vita emotiva, per esempio, è calato una sorta di oblio: la potenza delle emozioni viene presa poco sul serio.

«Crediamo illimitatamente nelle nostre capacità soggettive – dice Elena Pulcini, professore di Filosofia sociale a Firenze – perché dimentichiamo di essere animati anche da forze diverse, che ci chiedono un rapporto con noi stessi meno rigido ma comprensivo di fragilità e debolezze».

Sovrastimiamo il nostro autocontrollo e Freud è stato il più efficace nello smascherarci. «L”io non è padrone nemmeno in casa propria» è una delle sue celebri sintesi per spiegare la dipendenza dell”io, cioè del soggetto cosciente, da un principio istintivo, inconscio e irrazionale che agisce anche al di fuori della consapevolezza. Ma la lezione è stata messa da parte. Il risultato è «un”insistenza cocciuta» sul mito dell”autosufficienza, nonostante la realtà ci porti in tutt”altra direzione.

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DeBrabander cita un articolo del Times in cui si racconta la vita degli abitanti di un quartiere a maggioranza repubblicana in Minnesota e il loro «desiderio conflittuale di essere autosufficienti». Mentre i repubblicani chiedono tagli alle tasse e alla rete sociale, i loro elettori al contrario contano, come gli altri, sugli aiuti pubblici. Sussidi agricoli, detrazioni d”interesse sui mutui, garanzie ipotecarie federali, sostegno agli anziani: la recessione ha aumentato la dipendenza dal governo, «ma in troppi fanno finta che non sia così» e continuano ad applaudire a slogan come «ci siamo fatti da soli, senza l”aiuto di nessuno». «Non vi è dubbio che l”individualismo radicale rimarrà un punto di forza nella campagna repubblicana», chiude DeBrabander.

Non serve leggere i programmi della destra americana per accorgersi della cavalcata dell”individualismo radicale. «I figli soffrono la dipendenza dai genitori, donne e uomini vivono piuttosto male i reciproci vincoli affettivi, Stati e comunità sono divisi tra globalizzazione e nazionalismi. Nell”insieme l”individualismo si è notevolmente rafforzato», riflette Claudio Risé, scrittore e psicoterapeuta.

Si può attingere alle esperienze più spicciole, quotidiane. Pulcini prova a fare un elenco. Troppo spesso si sente parlare a voce troppo alta, come se gli altri non esistessero. Basta salire sul treno per accorgersi che chi ci è seduto vicino è diventato opaco, tanto che non lo notiamo neppure più (a meno che non attiri l”attenzione su di sé urlando nel telefonino). Non viene presa neppure in considerazione l”idea di poter instaurare una relazione con qualche casuale compagno di viaggio, anzi si studiano tutte le strategie possibili per evitare qualunque accenno di contatto. C”è una sensazione diffusa di legittimazione dell”anarchia dei comportamenti: si può anche tirare la palla addosso a bagnanti, in spiaggia, tanto chi protesta verrà zittito con quello che suona ormai come un insulto: vecchio moralista.

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Ma questo è solo un corno della faccenda, si sentono anche voci diverse. Mentre il mito dell”individualismo guadagna posizioni, in ambito professionale, per esempio, cresce l”enfasi attorno all”importanza del lavoro di squadra: tutti insieme, uniti, si può fare prima e meglio. Però anche il lavoro di squadra può rivelarsi un falso mito. «Quando è imposto dall”azienda, è una forma di condivisione artificiale finalizzata ai bisogni dell”agenda e del fatturato, non ha niente a che fare con una vera forma di relazione», insiste Pulcini. È l”assegnazione di un ruolo a cui uniformarsi e, per arrivare al successo, richiede la valorizzazione delle competenze di ciascuno (questo è decisamente un punto a suo favore). «Ma laddove il meccanismo si incrina e una persona della squadra incorre in una debolezza, in una fragilità, a quel punto diventa l”anello debole e la sua permanenza nel gruppo è in discussione. Non ci si può permettere di tenere conto della vita soggettiva».

Il mito ostinato dell”autodeterminazione, insomma, è fumo negli occhi. La realtà è diversa e il filosofo americano la riassume così: «Siamo tutti profondamente legati. Le mie decisioni, scelte, azioni sono ispirate e motivate da altri. Le nostre richieste culturali di individualismo sono troppo estreme e costituzionalmente irrazionali». Se riuscissimo ad uscire dalla nebbia ci accorgeremmo di vivere «in una società che afferma la dipendenza e l”interdipendenza di tutti».

Tutto da buttare, dunque? «C”è una versione dell”individualismo più moderna ed è quella della persona: unica, irripetibile, porta un contributo del tutto originale alla vita collettiva, alla storia, nella relazione con gli altri. E soprattutto ha una coscienza, un senso di responsabilità», dice Risé.

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I tre milioni di giovani che nel nostro Paese non studiano né lavorano – uno dei dati più drammatici di questa crisi – sono la prova del fallimento dei nostri modelli di riferimento: l”individualismo radicale da una parte, la politica assistenziale dall”altra. Se il valore dell”individualismo è innegabile «dobbiamo però riconoscere che dipendiamo dagli altri e dalle nostre emozioni. Dobbiamo ripartire da qui non per negare l”importanza dell”individuo, ma per inserirlo in un contesto più ampio», chiude Pulcini. Dalla serietà con cui ciascuno svolge il proprio lavoro, al rifiuto del rampantismo, alla capacità di vedere e aiutare l”altro in un momento di difficoltà. «Va riscoperta la lezione delle propria insufficienza, della non assoluta sovranità». Siamo tutti sulla stessa barca, riassumerebbe DeBrabander.

 

(1 settembre 2012)

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Fonte: Corriere della sera.

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