La dittatura della tecnologia

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13 Novembre 2012 - 13.34


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di Luigi Zoja l”Unità

Attraverso un percorso sotterraneo, universale e trasversale, che investe ogni popolo con la ipermodernizzazione, si è imposta a noi una nuova «dittatura»: una egemonia autoritaria non di certe forme politiche, ma di un universo economico e tecnologico che non ha precedenti in tutta la storia umana.

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Esso sconvolge e deforma i nostri affetti e le nostre relazioni con gli altri, le nostre emozioni e il controllo del nostro sistema neuronale. La critica al consumismo esasperato ci dice da tempo che acquistando oggetti e progresso, la nostra attenzione è distolta dagli uomini, quindi riversata sugli acquisti e sulle cose. Negli ultimi anni, però, abbiamo anche appreso che la tecnica genera (ad esempio attraverso internet o i telefoni cellulari) rapporti prima inesistenti con chi è lontano, ma in cambio si porta via l”affetto per chi è vicino e ci svincola dalle responsabilità che esso comportava.

Due sono dunque le cause – profonde e irreversibili – che concorrono alla attuale estraneazione. La prima è l”anonimato della civiltà di massa. Fino ad un secolo fa, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale (ben più del 90%) era agricola: una condizione dominante anche nei paesi già allora più ricchi, in Nordamerica e in Europa centro-settentrionale. L”economia e la società erano fortemente locali: la maggioranza della gente viveva nello stesso luogo per tutta la vita (il fascino ambiguo del servizio militare stava in gran parte nell”essere uno dei pochi eventi che potevano portare lontano). E la maggior parte della popolazione conosceva solo 200, al massimo 300 persone in tutta la vita. L”animale uomo, del resto, si è evoluto durante gran parte della sua storia come nomade che vagava in piccole bande su territori quasi vuoti. Il suo sistema nervoso è dunque predisposto per riconoscere, memorizzare e accogliere positivamente un numero ben ristretto di volti.

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VITA IN CITTÀ

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Ma dal 2008, hanno detto le Nazioni Unite, più della metà della popolazione terrestre vive in città.

È una svolta senza precedenti, più importante del passaggio dell”egemonia mondiale dagli Stati Uniti alla Cina. Anche la Cina sarà una breve comparsa sul palcoscenico delle epoche: altri protagonisti vi saliranno e scenderanno come è capitato all”Impero persiano e a quello di Alessandro, a Roma, alla Spagna e all”Inghilterra. La città, invece, dice l”Alto Commissariato delle Nazioni Unite non cederà più il primato alla campagna. Nelle città, l”individuo medio, che esce in strada, usa mezzi pubblici, visita uffici e supermercati, vede migliaia di nuovi volti anonimi: non durante la vita, ma ogni giorno. Il suo sistema nervoso, i suoi meccanismi (animali e naturali) di allarme di fronte agli sconosciuti, sono costantemente mobilitati: non se ne accorge solo perché si tratta di una condizione che non è particolare, ma permanente. Vive in un stato (strisciante, inconscio) di stress e diffidenza continui. Non sorride più riconoscendo i volti, come facevano i suoi antenati nel villaggio. Per riconoscere volti, accende la televisione. I sorrisi, artificiali e anonimi, di attori e presentatori che non ha mai incontrato, gli sono noti: sono la sua famiglia, tecnologica e preconfezionata.

Il secondo fattore di distanza e perdita del prossimo è infatti la tecnologia. La tecnologia ha fatto cose meravigliose che moltiplicano le possibilità di interagire con gli altri. Già da tempo, però, è stato lanciato l”allarme: gli uomini non sono capaci di usarla, ne divengono dipendenti come da una droga e perdono la capacità di comunicare anziché arricchirla. A questo fenomeno è stato dato il nome di «Paradosso di internet». Più recentemente, pubblicazioni scientifiche ci hanno fornito dati concreti. Nel ventennio 1987- 2007 le ore quotidiane che il cittadino inglese medio trascorre davanti a mezzi di comunicazione elettronici sono passate da 4 a circa 8. Nello stesso periodo, quelle trascorse comunicando con persone reali sono scese da 6 a poco più di due.

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Tutto questo è morboso in ogni senso. È ingiusto, ci suggerisce istintivamente ogni morale laica o religiosa. È dannoso psicologicamente, come ho cercato di argomentare in un breve saggio sulla Morte del prossimo. Ma è anche così innaturale per il nostro corpo da costituire un grave fattore patogeno: la sostituzione dei contatti sociali con quelli elettronici può, per esempio, favorire alterazioni nei leucociti e diminuire la resistenza ai tumori.

Secondo la Scuola di Medicina di Harvard, nelle persone di oltre 50 anni socialmente isolate la perdita di memoria avanza a velocità doppia rispetto a quelle integrate. E così via. In simili condizioni, ci abituiamo sempre più a recitare le relazioni umane e affettive, così come ce le propongono già confezionate i mass media, anziché relazionarci veramente. Avendo osservato l”accelerarsi di questi fenomeni negli ultimi decenni, avendone misurato le conseguenze devastanti sui propri pazienti, uno psicoanalista – quale sono di professione – si è permesso di uscire dal suo ambito e rivolgere una domanda a teologi e filosofi.

Per millenni, un doppio comandamento ha retto la morale ebraico-cristiana: ama Dio e ama il prossimo tuo come te stesso. Alla fine dell”ottocento, Nietzsche ha annunciato: Dio è morto. Passato anche il Novecento, non è tempo di completare quella affermazione? È morto anche il prossimo. Abbiamo perso anche la seconda parte del comandamento perché non abbiamo più esperienza di una verità che ci era trasmessa dalla tradizione giudeo-cristiana. Tanto in ebraico nel Levitico, quanto in greco nei Vangeli, prossimo significava: il tuo vicino, quello che vedi, senti, puoi toccare.

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Nella complessità delle tecniche e della società urbana l”esperienza della vicinanza sembra svanire per sempre.

 

(8 novembre 2012)

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Fonte: l”Unità

 

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