Editoria, interessa ancora a qualcuno? Sette punti per una riforma radicale

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17 Dicembre 2012 - 21.45


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di Marco Niro Megachip.

Nella campagna elettorale forse più frastagliata e incerta e della storia repubblicana, non c”è spazio per il dibattito sui media. Forse si dovrebbe ragionare, più in generale, sul fatto che, in questa campagna, non c”è spazio per altro che non siano sigle, percentuali, alleanze, candidature. I contenuti restano in secondo piano, e questa a dire il vero non è una grossa novità. In ogni caso, pur nell”aridità del confronto fra temi e opinioni, si riesce a “sentire” bene l”assordante silenzio sull”assetto dei media, argomento che pure nel recente passato aveva destato parecchie attenzioni. I motivi di ciò sono di due tipi.

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Da un lato, l”uscita di scena (mai definitiva!) di Sua Emittenza nel novembre 2011. Come sempre accaduto in Italia rispetto a questo argomento da almeno vent”anni a questa parte, il dibattito sulla libertà di informazione si lega – quale errore! – alle umane vicende del Cavaliere.

 

 

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Più costui ha fortuna nelle cose della politica, più si attribuisce a lui la colpa della scarsa libertà d”informazione e quindi di quest”ultima si torna a parlare. Viceversa, più il Cavaliere ha sfortuna, più dello stato della libertà d”informazione, improvvisamente, si tace. Grave portato di quella personalizzazione della politica che proprio la videocrazia ha condotto in Italia ai suoi peggiori eccessi.

Dall”altro lato, il motivo del mancato dibattito odierno sui media si può attribuire anche all”effettivo cambiamento, da un punto di vista meramente tecnologico, del panorama mediatico rispetto all”epoca delle ultime elezioni politiche: il 2008, ovvero un”era fa, parlando di tecnologia. Infatti, nel frattempo, l”avvento del digitale terrestre in ambito radio-televisivo, l”accresciuto accesso al web e persino la diffusione degli stessi social media (Facebook, Twitter, etc.) hanno reso molto difficile sottrarsi alla sensazione che il pluralismo, e quindi la libertà di informazione, siano aumentati. Da una parte, però, non è per nulla detto che questo sia vero: si potrebbe infatti citare, come contrappunto, il rischio o l”effettiva chiusura, contemporaneamente sopravvenuta, di molte testate cartacee, quasi sempre, peraltro, nella stessa area politico-culturale. Dall”altra parte, va comunque ricordato che la quantità non corrisponde quasi mai alla qualità, e men che meno in questo caso.

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La situazione dei media, nel nostro Paese, è ancora insoddisfacente, da un punto di vista democratico. Concentrazione, sbilanciamento televisivo, eccessiva dipendenza dalle logiche commerciali di mercato, scarsa qualità dell”informazione, sono problemi che restano, ingombranti, sul tavolo. Eppure non se ne parla.

L”unico che prova a farlo è il Movimento 5 Stelle. Che però ha una visione in parte diversa da quella che dovrebbe avere una sinistra che avesse ancora in agenda il tema. Il M5S nel suo programma, in materia d”informazione, inserisce obiettivi d qualche interesse, come il «tetto nazionale massimo del 5% per le società di raccolta pubblicitaria facenti capo a un singolo soggetto economico privato» e il «divieto della partecipazione azionaria da parte delle banche e di enti pubblici o para pubblici a società editoriali». Tuttavia, tralasciando il fatto che, come su altri argomenti, il Movimento sembra anche qui privo di una visione complessiva, si possono avanzare almeno un paio di critiche alla sua proposta. Da un lato, essa appare sbilanciata troppo sul web (che non è il solo mezzo di comunicazione esistente!), dall”altro pecca d”una visione troppo “mercatista” dell”informazione, laddove chiede l”abolizione tout court di qualunque finanziamento all”editoria, dimenticando che l”informazione, come la politica, non è una merce a disposizione solo di chi ha più soldi per farla e per comprarla.

Ecco quindi che si sente, a sinistra, la disperata esigenza di una proposta in materia, che vada a introdurre una riforma radicale della vecchia normativa sull”editoria in Italia, includendo almeno i seguenti sette punti:

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  1. Disciplina antitrust. Deve essere molto più severa di quella odierna, arrivando a introdurre limiti (calcolati sulla base non solo delle tirature ma anche del fatturato) che impediscano alla stessa testata di occupare più di decimo del mercato (nazionale o locale che sia)
  2. Mercato pubblicitario. Bilanciamento delle risorse tra il settore televisivo, che ancora oggi ne attira la maggior parte, e gli altri settori
  3. Trasparenza. Obbligo per ogni testata di consentire al suo pubblico di poter conoscere in maniera chiara e immediata chi lo informa e soprattutto chi finanzia le testate cui si rivolge per informarsi
  4. Conflitto d”interessi. Diveto assoluto di ricoprire cariche di rappresentanza politica a chi partecipa alla proprietà di qualsivoglia testata giornalistica o abbia parenti o affini stretti che vi partecipino
  5. Finanziamento pubblico. Revisione totale dell”attuale e distorto sistema, a vantaggio di chi il contributo lo merita realmente (e quindi del pluralismo): eliminazione di tutti i contributi indiretti; contributi diretti solo a testate edite da cooperative, fondazioni o enti morali senza scopo di lucro, che vendano almeno il 50% delle copie stampate (col divieto di vendite sottocosto, in blocco o in abbinamento); contributo proporzionato non alla tiratura ma ai giornalisti dipendenti assunti dalla testata; accesso immediato al contributo alle nuove testate che rispettano i requisiti
  6. Riforma della Rai. Qui il dibattito è tornato davvero all”anno zero. Forse qualcuno di voi sbalordirà nel ricordare che nel 2006 era stata avanzata la proposta di legge d”iniziativa popolare “Per un”altra Tv”, che chiedeva che il Consiglio di Amministrazione della Rai fosse eletto ogni 6 anni dai membri di un Consiglio per le Comunicazioni audiovisive, la maggior parte dei quali eletti dalla società civile. O che addirittura il ministro Gentiloni, nello stesso periodo, proponeva di dividere l”azienda in tre distinte società: una per la gestione degli impianti della rete, una che editasse una rete commerciale sovvenzionata solo dalla pubblicità, una che editasse due reti generaliste, sovvenzionate solo dal canone. Si potrebbe andare oltre, proponendo che la Rai si riduca a una sola società che si limiti a gestire impianti, attrezzature e a mettere a disposizione il proprio personale tecnico, mentre i contenuti editoriali non dovrebbe più produrli la Rai, ma sarebbero gli stessi attori della società civile a poter presentare le loro proposte progettuali, da realizzare per mezzo delle risorse della Rai.
  7. Educazione ai media. Ultimo, ma in realtà primo: in tutti i gradi scolastici (ed anche in ambito extrascolastico) promuovere e realizzare l”educazione ai media, che insegni la grammatica e la sintassi dei mezzi di comunicazione che usiamo ogni giorno sin dalla più tenera età, educazione che oggi è assurdamente relegata a pochi salotti universitari, rimanendo sconosciuta altrove

Cari contendenti affaccendati nella contesa elettorale, cӏ ancora qualcuno, a sinistra, o altrove, che comprenda la portata di questi temi e che abbia voglia di farsene carico?

 

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