'L''epoca dell''inconshow'

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24 Gennaio 2013 - 22.57


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Intervista allo psicoanalista Franco Lolli a cura di Paolo Bartolini.

La recente uscita del suo libro “L”epoca dell”inconshow. Dimensione clinica e scenario sociale del fenomeno borderline” (Mimesis, 2012) riporta l”attenzione della critica sociale contemporanea sul nesso che lega la civiltà del consumo e del denaro al disagio psichico degli individui che le appartengono. Il fenomeno borderline cosa ci rivela in merito? Il soggetto borderline testimonia la crisi irreversibile del capitalismo globale o, piuttosto, prefigura nuovi e inquietanti adattamenti al Sistema?

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La psicopatologia di tipo borderline è, a mio avviso, quella che, più di altre forme sintomatiche della contemporaneità, rivela il tratto peculiare della società attuale: una società essa stessa borderline che rimbalza costantemente tra l”affermazione retorica (sempre più anacronistica e sganciata dal contesto culturale a cui intende riferirsi) della necessità di regole, limiti e riferimenti stabili e la sua puntuale smentita attraverso l”incentivazione di comportamenti individuali e attitudini collettive caratterizzate dall”esasperazione del narcisismo, del cinismo e della spinta al godimento solitario.

 

 

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Il soggetto borderline illustra la mutazione antropologica che ha investito l”Occidente, in termini di trasformazione dei legami sociali e del modo di abitare il mondo. Che si tratti del risultato dello svelamento definitivo della specificità perversa del capitalismo (segnandone, in tal senso, il suo irreversibile declino) o, al contrario, della comparsa di un nuovo modo di stare al mondo che la patologia – come sempre – parossisticamente evidenzia, è ancora difficile da comprendere. La mia idea, tuttavia, è che la sintomatologia borderline sia intimamente connessa al discorso del capitalista, che si configuri come la sua più fedele rappresentazione e che, pertanto, non sia pensabile al di fuori di esso.

 

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Nel suo libro fa largo uso delle categorie psicoanalitiche ideate da Lacan. In particolare si sofferma spesso sulla distinzione, non facile ma indispensabile, tra “desiderio” e “godimento”. Potrebbe spiegarci la differenza tra questi due concetti in relazione ai nostri tempi e al cosiddetto “discorso del capitalista”?

Desiderio e godimento rappresentano due concetti fondamentali, il cui sviluppo teorico ha maggiormente qualificato l”apporto di Jacques Lacan al movimento psicoanalitico. Partiamo dal concetto di desiderio, intimamente connesso a quello di mancanza. Non c”è desiderio senza perdita, non c”è desiderio senza originaria azione di sottrazione che la struttura (il Linguaggio, la Cultura, la Civiltà) impone all”individuo. In questo senso, esso è anelito al ricongiungimento con qualcosa di andato perduto, effetto di una nostalgia che spinge al ritrovamento di quanto – miticamente – venuto a mancare. Logicamente, pertanto, il desiderio è il frutto di un limite, di una interdizione, di un”operazione di castrazione che, se da un lato, si definisce per il suo lato privativo, dall”altro, stimola il soggetto alla ricerca, all”azione, ad una nuova soddisfazione. Ciò che è andato perduto, occorre specificare, è andato perduto a seguito dell”intervento dell”Altro: ad esempio, a seguito dell”Altro dell”educazione che agisce sul neonato imponendo, nel momento dello svezzamento (mi riferisco a questo fase evolutiva solo per dare alla questione trattata un risvolto empirico) il distacco dal seno, oggetto di piena soddisfazione per il bambino. Ebbene, sarà proprio a causa di questo originario allontanamento forzato dell”oggetto causato dall”Altro che il soggetto cercherà nel campo dell”Altro ciò che gli è stato sottratto e che suppone possa restaurare la sensazione di pienezza perduta. Da qui, il carattere relazionale del desiderio, il suo ammettere l”Altro come interlocutore necessario (in quanto agente della primitiva operazione di sottrazione), il suo rivolgersi all”Altro come partner indispensabile per il raggiungimento della soddisfazione attesa. Il desiderio, dirà Lacan nella sua rielaborazione dell”insegnamento di Hegel, è desiderio dell”Altro: desiderio del desiderio dell”Altro e desiderio di ciò che l”Altro desidera. L”Altro, cioè, è sempre sullo sfondo nella logica del desiderio, sempre in filigrana, all”orizzonte. In opposizione al tratto dialettico del desiderio, il concetto di godimento esprime la tendenza del soggetto ad indugiare in uno stato autistiforme di appagamento solitario, al rifiuto di entrare nella faticosa rete dello scambio con l”Altro, a perseverare nella condizione ”indisturbata” (è così che si esprime Freud) del bozzolo indifferenziato nel quale l”umano viene al mondo. Mentre il concetto di desiderio è logicamente connesso a quello di mancanza e perdita, il concetto di godimento ha come suo correlato quello di pienezza, di eccesso, di sovrappiù: è a questo proposito che Lacan introdurrà nel lessico psicoanalitico il termine di plus-de-jouir (di chiara provenienza marxista) proprio per esprimere questa spinta all”accumulo che caratterizza l”azione del godimento. In questa sua tendenza fondamentale, il godimento va contro il principio di piacere: esso non mira alla piacevole riduzione dello stato di tensione e di eccitazione psichica, ma al suo mantenimento al livello più alto possibile. E” questo il motivo per cui Lacan inscrive il concetto di godimento all”interno di quello di pulsione di morte: entrambi esprimono la peculiarità tutta umana di porre l”esperienza di insoddisfazione (intesa freudianamente come impossibilità di scaricare l”eccitazione) come meta libidica insostituibile, come appagamento paradossale e irrinunciabile. Il capitalismo – per venire allo specifico della sua domanda – è fondato su una logica di sviluppo che richiama strutturalmente quella del godimento: esso proclama la necessità di una crescita infinita, che ripudi il segno – (della perdita). L”economia consumistica che lo sostiene degrada il desiderio a bisogno, la passione a pulsione di possesso: gli oggetti che propone sul Mercato sono feticci che consentono all”acquirente di nascondere le stigmate della mancanza e che gli offrono l”inebriante (quanto illusoria) sensazione di completezza.    

 

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L”esame del meccanismo difensivo del rifiuto/diniego – la Verleugnung freudiana – riveste nel suo ultimo lavoro un ruolo particolarmente importante. Questa difesa psicologica può aiutarci a capire come sia possibile che moltissime persone continuino a perseguire stili di vita improntati alla logica del consumo, pur sapendo che l”umanità sta attraversando una crisi di immensa portata sul piano economico-finanziario, su quello ecologico e su molti altri (democratico, geopolitico, delle risorse idriche ed energetiche, ecc.). Può spiegarci come agisce questo meccanismo e, soprattutto, in che modo riesce a far convivere nella stessa persona contraddizioni così stridenti?

Freud introduce il concetto di Verleugnung per definire il tipo di meccanismo di difesa in azione all”interno della struttura perversa. Si tratta di un modo particolare di rapportarsi alla realtà che consiste nel ripudiare un aspetto vissuto come insopportabile e, contemporaneamente, nello sviluppare una credenza che lo sconfessi. Mi spiego: il perverso – dice Freud – incontra nella realtà un dato inassumibile (nel caso del feticista, ad esempio, la castrazione materna) e, poiché tale percezione è fonte di un”angoscia insostenibile, sviluppa la credenza opposta (si convince, cioè, dell”esistenza di ciò di cui, per un attimo, ha percepito l”assenza), ”fa come se” ciò che ha visto non l”avesse effettivamente visto. E” opportuno notare che, a differenza dello psicotico, il perverso non crea una neorealtà che si sostituisce a quella originaria (finendo, così, con il vivere nella certezza assoluta del delirio o delle allucinazioni) ma fa convivere, l”una a fianco dell”altra, due convinzioni in aperta contraddizione tra loro. Detto in altri termini, il perverso feticista – per tornare all”esempio precedente – non crede che la donna abbia un pene (il che lo porterebbe a sconfinare nel campo delle allucinazioni) ma ”fa come se” la realtà della castrazione femminile fosse inoperante, resa inattiva dalla costruzione al suo lato di una nuova in cui un qualunque oggetto (più spesso, la scarpa) prende il posto di quello mancante. Dunque, la specificità della struttura perversa è la convivenza di due verità contrastanti: delle due, quella vissuta come spiacevole viene rigettata, disconosciuta, sconfessata. Ecco perché il perverso ha sempre una questione in sospeso con la verità: egli vive nell”oscillazione perpetua tra due realtà senza che questo determini (come accadrebbe ad un qualsiasi soggetto nevrotico) la produzione di un conflitto o di un senso di colpa. L”una parte, si potrebbe aggiungere, ignora l”altra, in quella Ichspaltung (scissione dell”Io) che Freud aveva descritto come esito estremo della logica perversa. E” mia opinione che la contemporaneità possa essere letta e compresa attraverso la lente di ingrandimento che il funzionamento perverso evidenzia. Il cittadino occidentale vive nella consapevolezza della menzogna del mondo che abita ma ”fa come se” tale consapevolezza non implicasse conseguenze irreversibili. Egli si trastulla in una coscienza altra (che il sistema consumistico gli confeziona per abbonarlo e fidelizzarlo alla pratica ”necessaria” dell”acquisto) disconoscendo il fatto che il treno su cui pensa di viaggiare comodamente sta correndo a tutta velocità contro un muro.

 

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Ne “L”epoca dell”inconshow” dedica alcune pagine molto acute alla televisione e ai modelli collaudati che le consentono di raggiungere e plasmare l”immaginario di milioni di persone. Mentre Internet avanza e conquista le nuove generazioni, Lei ritiene che la TV detenga ancora un potere sufficiente per orientare le vite dei cittadini e influenzare i ragazzi nella costruzione della propria personalità?

Di questo non sono sicuro. Credo che, a differenza di quanto ci è dato di osservare sul mezzo televisivo, l”uso del Web apra a possibilità (ancora, del resto, non ben conosciute) di partecipazione attiva, di coinvolgimento in nuove relazioni, di assunzione di responsabilità civili, e così via. Internet è uno strumento senza dubbio più democratico e dialettico: l”idea di interattività che è alla base della sua creazione svincola il suo utilizzatore dalla posizione di indottrinamento passivo a cui la televisione costringe gli spettatori. Ritengo, però, che sia ancora significativa l”influenza “pedagogica” della programmazione televisiva alla quale, soprattutto i più piccoli, sono esposti senza il riparo di una capacità critica. Se penso, ad esempio, ad alcune serie di cartoons o di fictions nelle quali viene rappresentata una forma di legame sociale caratterizzato dallo svilimento sistematico della figura dell”adulto (e della sua autorità), dall”affermazione della potenza narcististica e autoreferenziale del protagonista, da una sorta di sua indifferenza al destino dell”Altro, dall”assenza del senso di colpa e da una spregiudicatezza esasperata, mi viene da interrogarmi sul tipo di identificazione che il bambino telesedotto potrà sviluppare su modelli così definiti: Gli effetti di una simile esposizione sono di difficile individuazione. Così come sono ancora poco chiare le conseguenze dell”uso prolungato di videogames nei quali il ricorso alla violenza è non solo autorizzato, ma, addirittura, premiato. Occorrerà attendere qualche anno in più per stabilire se le realtà rappresentate da questi media si limitino ad essere il semplice riflesso di quanto già strutturato nel sociale contemporaneo o, piuttosto, favoriscano un tipo di evoluzione dello spirito del tempo che hanno saputo intercettare in anticipo.

La funzione paterna, a cui dobbiamo l”esistenza di una Legge che è anche accompagnamento simbolico verso la vita adulta, può trovare un nuovo modo per manifestarsi alle soglie del XXI secolo? In altre parole: che strada bisogna intraprendere, a Suo avviso, per rivitalizzare il potere simbolico e vivificante del Limite nell”epoca della dismisura?

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Lei mi pone una domanda che tocca la questione fondamentale della contemporaneità. Ci troviamo a vivere una contingenza storica nella quale il riferimento alla auctoritas si è infranto sotto i colpi inesorabili della scienza: non vi è attualmente altra forma di autorità possibile che non sia quella del discorso scientifico. L”evaporazione della figura paterna – vittima collaterale della ”morte di Dio” – è il fenomeno con il quale le società occidentalizzate fanno inesorabilmente i conti. Fare a meno del Nome del Padre: è così che, con un certo margine di approssimazione può riassumersi l”ideologia psicoanalitica che, dalla fine degli anni ”30 in poi, ha proiettato sulla figura del padre il lento ma inarrestabile lavoro di erosione dell”autorità tradizionale, processo il cui avvio, convenzionalmente fatto risalire all”epoca dell”aspro confronto tra Galilei e Bellarmino, segnò l”inizio dell”epoca moderna, del progressivo riconoscimento della libertà di interpretazione contro gli obblighi della tradizione, dell”incontestabilità del metodo sperimentale contro la supremazia dei Testi Sacri, del diritto del popolo di opporsi – e, addirittura, di giustiziare – il potere costituito. Interpretazioni a dir poco ingenue del messaggio freudiano – capaci, tuttavia, di colonizzare per lungo tempo e in profondità il campo psicoanalitico – hanno, in effetti, ”agevolato” il processo di smantellamento dell”autorità paterna accelerandone lo sviluppo ed estendendone gli effetti sul piano delle relazioni familiari. Liberarsi dei vincoli restrittivi che la sua azione impone, emanciparsi dalla sua influenza limitativa per sostenere, di contro, la prerogativa del soggetto alla piena soddisfazione e, al contempo, l”obbligo dell”Altro a far sì che l”incontro con ogni tipo di ”trauma” sia evitato: questo è quanto l”affermazione di una certa psicoanalisi ha apportato – poco conta se consapevolmente o meno – al discorso educativo e sociale. La caduta del sembiante è stato l”effetto dello svelamento del carattere fittizio dell”autorità paterna e della infondatezza di un principio su cui, per secoli, le società più diverse si erano fondate. A tale caduta, forse, la psicoanalisi ha dato il colpo decisivo: “la psicoanalisi prova che del Nome del Padre si può fare a meno”, così affermava Lacan il 13 aprile 1976. E” un fatto: la postmodernità sembra essersi sbarazzata di una concezione del vivere tradizionalmente legata alla funzione paterna. Sacrificio, attesa, rinvio, rinuncia sono concetti obsoleti, anacronistici, antiquati, non più dotati del senso che avevano nella ormai superata prospettiva che valorizzava e premiava lo sforzo del singolo nel trascendere il piano dell”immediata soddisfazione. Ma, ci avverte Lacan, si può fare a meno del Nome del Padre solo “a condizione di servirsene.” Servirsi di qualcosa di cui ci si trova a dover fare a meno rappresenta, a tutti gli effetti, una formula paradossale che rende possibile la coesistenza di due verità contraddittorie: da un lato, riconosce il tramonto della forma di legame sociale che Sigmund Freud aveva descritto nel suo testo Disagio della civiltà, fondato sul valore dell”istanza interdittrice assicurata dal Padre, dall”altro ribadisce la necessità strutturale del limite, fulcro logico irrinunciabile dell”azione del Nome del Padre che la Civiltà futura, per essere tale, dovrà, sebbene in forme inedite, recuperare. Servirsi del Nome del Padre pur potendone fare a meno indica precisamente la problematica a cui la contemporaneità convoca lo psicoanalista. Si tratta di tenere in funzione un principio che, però, non ha più una sua giustificazione storica, che appare completamente sradicato dal tessuto socioculturale al quale intende applicarsi. La questione è aperta: può la funzione di un organo sopravvivere alla lenta agonia dell”apparato? Può, in altri termini, la funzione paterna realizzarsi in un contesto storico che tende a rendere inattivo il Nome del Padre, sconfessando ogni forma di limitazione e di regolazione? L”aforisma di Lacan che, sul finire della sua lunga attività di insegnamento, problematizza il concetto centrale del suo discorso (ribadendone la brillantezza che, paradossalmente, la sua inevitabile eclissi non può oscurare) intercetta il vero tema dell”attualità e orienta ogni possibile riflessione sulle modalità attraverso le quali la società del postcapitalismo potrà e saprà emanciparsi dal suo stesso declino.  



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Franco Lolli è psicoterapeuta, psicoanalista, vicepresidente Jonas (Centro di ricerca psicoanalitica per i nuovi sintomi), docente presso l”IRPA (Istituto di Ricerca di Psicoanalisi Applicata), direttore scientifico dello CSeRIM (Centro Studi e Ricerca sull”Insufficienza Mentale), e supervisore clinico presso numerose strutture pubbliche e private, vive e lavora nelle Marche.


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