Il Brasile fa proprio il sogno di Bolívar

Verso la costituzione di un blocco sudamericano per affrancarsi dalla tutela statunitense. [Renaud Lambert]

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20 Luglio 2013 - 18.29


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di Renaud Lambert

In linea di principio sono agli antipodi. Joao Paulo Rodrigues milita nel Movimento dei senzaterra brasiliano (Mst) fin dall’infanzia. Rubens Barbosa, ambasciatore del suo paese a Londra e poi a Washington fra il 1994 e il 2004, mette i suoi contatti al servizio delle imprese. Il primo ci riceve in un piccolo appartamento discreto, in un quartiere residenziale di São Paulo. Niente targhe, niente bandiere rosse, solo un anonimo campanello. Il secondo ha scelto di aprire il suo studio sul viale Brigadeiro Faria Lima, molto chic, il cielo affollato di elicotteri che portano da un grattacielo all’altro uomini d’affari con i minuti contati. Quando lo incontriamo, il dirigente del Mst ha appena finito una sessione di formazione per i militanti. L’ex diplomatico, invece, è «riuscito a ritagliarsi qualche momento» fra una richiesta e l’altra dei suoi clienti i quali, a noi testimoni indiscreti, paiono ansiosi di conoscere – un po’ prima degli altri? – le modalità di una gara d’appalto governativa.

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Non c’è dubbio, i due uomini hanno ben poco in comune. Eppure succede che le loro proposte si assomiglino. Quando richiama il progetto politico della sua organizzazione, ovvero il «rovesciamento del neoliberismo a vantaggio di un sistema economico più solidale», Rodrigues individua un’urgenza: l’integrazione regionale. Dal canto proprio l’ambasciatore Barbosa sogna che il suo paese «trasformi la propria geografia in realtà politica». E l’America latina, per lui, rappresenta «il cortile di casa del Brasile, lo spazio naturale per l’espansione delle sue imprese (1)».

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Giocherellando con una scatolina che rappresenta una muta di cani da tiro sormontata dallo slogan «quando non sei al primo posto il panorama è monotono», anche l’ex ambasciatore indica una priorità: «Difendere i nostri interessi», dice, e rafforzare il processo di integrazione regionale.

Sedizione padronale contro il libero-scambio

Dal sogno di unità del Libertador Simón Bolívar (1783-1830), diverse iniziative hanno tentato di promuovere la cooperazione fra i paesi latino-americani, e la loro integrazione in un insieme più ampio, dai contorni variabili a seconda degli obiettivi: lotte per l’indipendenza nel XIX secolo, industrializzazione della regione dopo la Seconda guerra mondiale, allineamento neoliberista nel corso degli anni ’90 …

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Benché oggi li unisca quest’ambizione, Rodrigues e Barbosa negherebbero l’esistenza di una qualsivoglia alleanza politica. E non mentirebbero. «Oggi il Brasile promuove la specificità del processo di integrazione – spiega Armando Boito Júnior, docente di Scienze politiche all’Università statale di Campinas (Unicamp). Si tratta di un progetto messo in atto da forze politiche antagoniste, con interessi contrastanti. Ma, per adesso, le agende degli uni e degli altri si mostrano compatibili, o addirittura convergenti.» A cominciare dal rifiuto di gravitare nell’orbita statunitense. Eppure, nel corso degli anni ‘90, l’idea sembrava convincere l’élite. Il presidente Fernando Henrique Cardoso (1994-2002) non risparmia al proprio paese alcuno sforzo per tentare di realizzare il sogno di Washington: quello di un’immensa zona di libero scambio delle Americhe, dall’Alaska alla Terra del fuoco (Alca, secondo l’acronimo spagnolo e portoghese). Ma la sua frenesia liberista urta la frangia industriale della borghesia. Con le sue politiche di apertura del mercato brasiliano, il paese viene sommerso dalle importazioni, provocando il fallimento o il riacquisto di centinaia di imprese. Un processo di denazionalizzazione abbastanza audace da far agitare perfino la rivista [i]Veja[/i], assai liberista (2). Che conclude: «Di rado la storia del capitalismo ha visto un trasferimento di controllo così intenso, in un periodo così breve (3).»

Mentre il settore finanziario prospera, la potente Federazione degli industriali dello stato di São Paulo (Fiesp) si irrigidisce. Nel 2002, pubblica uno studio sull’impatto dell’Alca sull’economia brasiliana. L’analisi conferma «ciò che molti imprenditori temevano»: un accordo di libero scambio continentale produrrebbe «più rischi che vantaggi per l’economia brasiliana (4)». Alle elezioni presidenziali di quell’anno, gli industriali appoggiano un ex operaio metalmeccanico, Luiz Inácio Lula da Silva, il quale non appena si insedia al Palazzo di Planalto si applica a silurare i negoziati con Washington. Nel 2005, nelle manifestazioni che celebrano l’insabbiamento dell’Alca, la Fiesp mantiene un profilo discreto. Ma ha giocato la sua parte. Lontano dalle frontiere brasiliane, l’opzione liberoscambista cerca una seconda via. In particolare nel quadro dell’Alleanza per il Pacifico, firmata nel giugno 2012 da Cile, Perú, Colombia e Messico, e dietro la quale Valter Pomar, dirigente dell’Articolazione di sinistra, una tendenza all’interno del Partito dei lavoratori (Pt), vede la mano di Washington: «Senz’ombra di dubbio.» Tutti i paesi coinvolti hanno già firmato accordi di libero scambio con gli Stati uniti. Ma nei saloni di Brasilia e alla borsa di São Paulo, la crisi detta «del 2008» ha contribuito a placare la febbre neoliberista.

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Ormai bisogna rivolgersi al cerchio più intimo dell’ex presidente Cardoso, sempre molto influente, o bussare alla porta di una grande banca come la Hsbc per sentire un poeta (di mercato) che loda, con l’occhio sognante, il riavvicinamento fra Messico e Washington: «Gli Stati uniti sono un po’ come il sole, e il Messico come un pianeta che gira intorno all’astro centrale.» Un’orbita che nel 2009 è costata alla popolazione messicana 6,7 punti di prodotto interno lordo (Pil) – un dato osservato e compreso anche all’interno della formazione di Cardoso, il Partito della socialdemocrazia brasiliana (Psdb).

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«Ci sono altri modi di immaginare l’integrazione regionale, afferma Rodrigues. Come quello sostenuto dal Mst nel quadro dell’Alba» – l’Alleanza bolivariana per i popoli della nostra America, promossa dal Venezuela, alla quale il Brasile non ha ancora aderito. Un’integrazione basata sulla solidarietà anziché sulla concorrenza, e orientata verso l’obiettivo di un «socialismo del XXI secolo». «Ma – ammette Rodrigues – in Brasile questa visione rimane assai minoritaria. Malgrado i lamenti di un piccolo gruppo di illuminati di estrema sinistra i quali sostengono che, senza i “tradimenti” del Pt, il socialismo arriverebbe domani, qui la lotta per una trasformazione sociale radicale ha una base sociale relativamente ristretta». Il giorno prima gli studenti cileni hanno raccolto seicentomila persone nelle strade di Santiago: «L’ultima volta che ci siamo riusciti qui in Brasile, è stato per il Carnevale!»

La stessa questione da Brasilia a Berlino

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Da qui la necessità, per il Mst, di identificare i ponti politici fra il suo progetto e il modello di integrazione egemonico nel paese, approfittando delle contraddizioni che attraversano quest’ultimo. «Sono tante – sorride Rodrigues, prima di elencare le componenti di un fronte eterogeneo. Il governo e i suoi alleati, alcuni settori industriali, imprese multinazionali, alti funzionari e ampi strati della classe lavoratrice, soprattutto nelle grandi centrali sindacali.» Insomma, una versione moderna del consenso «fordista», al servizio di un progetto geopolitico regionale.

Primo ingrediente di questo cocktail: la ricerca dell’autonomia. Ex segretario generale del ministero degli affari esteri, poi ministro degli affari strategici con il presidente Lula da Silva(2003-2010), Samuel Pinheiro Guimarães è uno dei più noti intellettuali brasiliani. Questo spiega forse perché, nel 2009, gli abbiano affidato la redazione del «Piano Brasile 2022» che fissa gli obiettivi strategici del paese da oggi al bicentenario dell’indipendenza. Vicino ai 75 anni, il diplomatico non usa più il linguaggio paludato. «Secondo lei che interesse hanno la Francia o la Germania nell’integrazione con un paese come Malta?», chiede. «Nessuno! Se non per il fatto che Malta è un paese sovrano e dispone di un voto nelle istituzioni internazionali.»

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Mentre nel mondo si stanno definendo grandi blocchi, «il Brasile deve, a sua volta, fare come gli altri», e creare la «propria» regione. Non l’America «latina», dal momento che Messico e America centrale «votano con Washington»; ma quella del Sud, che deve diventare «l’asse centrale della nostra strategia di rifiuto di ogni sottomissione agli interessi degli Stati uniti».

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L’antimperialismo delle frazioni più progressiste degli alti funzionari pubblici brasiliani è simile a quello di Pomar. Indipendentemente dalle convinzioni politiche dei suoi promotori, una dinamica che parta da questa retorica ostile agli Stati uniti potrebbe, secondo lui, fare da punto d’appoggio per la trasformazione sociale: «Tutti i processi di costruzione di un campo socialista in America latina si sono scontrati con due ostacoli: il potere della borghesia interna e quello della Casa bianca. Certo, l’integrazione propugnata dal Brasile non elimina l’ingerenza straniera, ma ne riduce l’impatto, permettendo così a dinamiche nazionali di seguire il loro corso in modo più autonomo.»

Le decise prese di posizione dell’Unione delle nazioni dell’America del Sud (Unasur) – nata nel 2008 – hanno per certo contribuito a raffreddare le ambizioni dei golpisti boliviani ed ecuadoriani nel 2008 e nel 2010 (5). E quando l’opposizione venezuelana e Washington hanno messo in dubbio l’elezione di Nicolás Maduro, l’organizzazione ha sostenuto il delfino di Hugo Chávez. «In passato simili situazioni venivano regolate dall’Organizzazione degli Stati americani [Osa]. In altre parole: dalla Casa bianca», sottolinea Pinheiro Guimarães. Forse un po’ irritato, il segretario di Stato John Kerry ha recentemente suggerito che l’America latina è in effetti un «cortile di casa», ma degli Stati uniti (6). Secondo la strategia di Pomar, fra le due picchiate dell’aquila imperialista, rimane da affrontare solo il secondo ostacolo: la borghesia interna. Ma, egli ammette volentieri, senza dubbio questa battaglia dovrà essere rinviata a più tardi. Privilegiati dalla ricchezza del sottosuolo, e ormai in grado di recuperare il controllo delle proprie risorse naturali, i vari paesi della regione faticano a diversificare le rispettive economie e a rafforzare l’apparato produttivo. Così, Maduro lamentava durante la recente campagna elettorale: «Il nostro paese non ha una vera borghesia nazionale.»

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Caratterizzati da un atteggiamento redditiere, «i settori che si dedicano all’attività economica sono estremamente dipendenti dal capitale statunitense». Maduro ha dunque lanciato un «appello» a tutte le forze capaci di aiutare il paese a «gettare le basi di un’economia produttiva (7)». Rivolgendosi al «settore privato nazionalista», egli certamente sperava che la sua bottiglia lanciata nel mare approdasse sulle coste del Brasile: gli industriali, là, sono ritenuti più «progressisti». In effetti, lungi dall’affievolirsi con l’arrivo al potere di Lula da Silva, l’alleanza fra il Pt, le grandi centrali sindacali e il padronato industriale si è perpetuata mediante un’attualizzazione della tradizione «sviluppista» dello Stato brasiliano. In un contesto internazionale caratterizzato dall’incapacità dei dirigenti politici di individuare risposte alla crisi diverse da un’accentuazione delle riforme liberiste, l’entrata in scena di un programma che mira allo sviluppo del mercato interno attraverso la piena occupazione, l’aumento dei salari, i programmi sociali e un rilancio della produzione (a scapito della speculazione) rappresenta probabilmente una delle opzioni più rivoluzionarie che il pianeta conosca, al giorno d’oggi …

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Antimperialismo e buoni affari

Pur senza dichiararsene del tutto soddisfatti, diversi militanti di sinistra ne prendono atto: «Continuo a credere che si debba lottare per arrivare al socialismo – ci spiega Artur Henrique, ex presidente della Centrale unica dei lavoratori (Cut) e artefice dell’alleanza «neosviluppista». Ma non sono fra quelli che ritengono che il socialismo arriverà domenica prossima dopo i vespri. No: voglio cambiare le cose, ma sono cosciente del contesto nel quale lavoro. Sul piano regionale, quel che cerchiamo di fare è abbandonare il neoliberismo, ma senza credere di essere in grado di sconfiggere il capitalismo. Piuttosto, cerchiamo di promuoverne una versione regionale, non nazionale. Cioè, una versione che tenga conto dei bisogni degli altri paesi dell’America del Sud.»

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Caracas ha bisogno di una metropolitana? Potrà contare sulla società brasiliana Odebrecht e su vantaggiosi finanziamenti da Brasilia. Il Venezuela ha una penuria di prodotti alimentari? Gli industriali brasiliani glieli forniranno: per esempio già garantiscono al loro vicino del nord la quasi totalità dei polli che mangia. Il commercio fra i due paesi si è moltiplicato per otto dall’arrivo al potere di Chávez nel 1998. «Per noi l’America del Sud è il mercato più importante del mondo», ci spiega Carlos Cavalcanti della Fiesp, e le sue corde vocali salgono di un’ottava per sottolineare la natura superlativa del suo proposito. Là siamo ancora competitivi rispetto ai prodotti cinesi, ed è una regione verso la quale esportiamo una gran parte dei nostri prodotti manifatturieri.» Questi ultimi rappresentano l’83% delle esportazioni verso l’America latina e il 5% di quelle verso la Cina.

Inoltre, in un contesto di rallentamento generale dell’economia, la spedizione di merci verso i paesi vicini è balzata da 7,5 miliardi di dollari nel 2002 a oltre 35 miliardi di dollari nel 2010. Passandosi una mano fra i capelli, Cavalcanti osserva soddisfatto: «I paesi della regione adottano politiche di aumento del reddito delle loro popolazioni. Per noi, si tratta di mercati in crescita». Nessuno ha mai detto che antimperialismo e buoni affari siano incompatibili: in un documento del 2012, la Fiesp descriveva il processo di integrazione sudamericano come una «rottura» in una storia di «cinque secoli» caratterizzati dalla «sottomissione a dei nostri interessi nazionali alle potenze mondiali dominanti» (8). Ma è nel campo delle infrastrutture che le esigenze dello sviluppo industriale della regione, quelle del rafforzamento della sua autonomia geopolitica e quelle dell’espansione del capitale brasiliano si intrecciano con armonia.

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Il 30 ottobre 2012, l’Unasur definiva le risorse naturali come «un asse dinamico nella strategia di integrazione e nell’unità dei [suoi] paesi». Poco prima, questa stessa logica aveva giustificato la «prosecuzione dei lavori dell’Iirsa» (9). Iirsa? L’Iniziativa per l’integrazione dell’infrastruttura regionale sudamericana, una serie di grandi assi stradali, ferroviari e fluviali che attraverseranno il continente da est a ovest e a nord a sud. Sognato nel 2000 da Cardoso come tappa nel cammino verso il grande mercato «libero» delle Americhe, il progetto non aveva convinto Chávez. Nel 2006, a una riunione dei capi di Stato della regione, il defunto presidente venezuelano ne aveva denunciato la «logica neocoloniale». Ma, dalle radici neoliberiste dell’Iirsa alle promesse dell’Unasur, «le cose sono cambiate», assicura in coro la gran parte dei nostri interlocutori.

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Non si tratta più di creare «un’unica economia» sudamericana, ma di lavorare allo «sviluppo interno» e alla «sostenibilità ambientale», insomma concepire le infrastrutture «come uno strumento di inclusione sociale», promette María Emma Mejía, segretaria (colombiana) dell’Unasur fra maggio 2011 e maggio 2012 (10). La regione ha un enorme bisogno di infrastrutture. Per tentare di rispondere alle critiche degli ecologisti, il vicepresidente boliviano Alvaro García Linera spiega che lo sfruttamento delle risorse naturali permetterà l’industrializzazione del paese. Ma la debolezza della strumentazione tecnologica del paese minaccia di smentirlo. Come il Perú, il Venezuela deve dotarsi di nuove reti portuali e stradali. In Brasile la produzione di cereali è cresciuta quasi del 220% fra il 1992 e il 2012, ma le reti stradali e ferroviarie sono rimaste le stesse. Risultato: lo scorso aprile la strada Br 3643, verso la ferrovia che serve il porto di Santos, ha visto un ingorgo di camion con una coda lunga oltre cento chilometri, con un ritardo di sessanta giorni nell’esportazione della produzione.

«Il nostro agribusiness trarrebbe giovamento da uno sbocco sul Pacifico – osserva l’ambasciatore Barbosa, ricordando che il paese non ne dispone di uno naturale. Dopo tutto, la Cina è oggi il nostro primo partner commerciale.» Senza contare che le imprese brasiliane mirano anche all’acquisizione di terre oltre frontiera. Ideata in un contesto di idolatria liberista, l’Iirsa affidava una gran parte del finanziamento dei lavori ai mercati e alla Banca interamericana di sviluppo (Bid). Uno scacco, come ammette tranquillamente il miliardario argentino Eduardo Eurnekian: «Non ho mai pensato nemmeno per un secondo che gli imprenditori possano farsi carico dei collegamenti fra i paesi», spiega. A questo stadio, la responsabilità di portare a termini i lavori incombe «sugli Stati, non sul settore privato» (11). Quando la solidarietà regionale facilita le delocalizzazioni Messaggio ricevuto.

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Ormai l’integrazione fisica della regione può contare su una miriade di finanziamenti nazionali. Brasilia dispone della banca di sviluppo più ricca del mondo: la Banca di sviluppo economico e sociale (Bndes). Nel 2010 essa ha prestato oltre 100 miliardi di dollari, contro i 15 miliardi della Bid e i 40 miliardi della Banca mondiale. Dettaglio: i suoi statuti l’autorizzano a finanziare solo imprese brasiliane. Una manna per Odebrecht, Camargo Corrêa, ecc., questi «campioni nazionali» che il paese cerca di promuovere. Negli uffici di queste multinazionali delle costruzioni, senza dubbio si è applaudito all’adozione da parte dell’Unasur, nel novembre 2011, della prima Agenda prioritaria per gli investimenti (Api). Questa prevede la costruzione di 1.500 chilometri di gasdotti, 3.490 chilometri di vie fluviali, 5.142 chilometri di strade e 9.739 chilometri di ferrovie. Per un investimento totale di oltre 21 miliardi di dollari per i progetti prioritari, 116 miliardi di dollari per l’insieme. Nei paesi vicini, l’entusiasmo è meno forte. Il 22 aprile 2013, nel primo incontro dell’organizzazione degli «Stati danneggiati dalle multinazionali», Bolivia, Cuba, Ecuador, Nicaragua, Repubblica dominicana, St Vincent e le Grenadines, e Venezuela, hanno denunciato il potere economico di «alcune imprese» che minaccerebbero la sovranità di «alcuni Stati». Una formulazione vaga, ma gli sguardi sono andati tutti nella stessa direzione.

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Per l’intellettuale uruguayano Raúl Zibechi, l’integrazione promossa da Brasilia potrebbe riassumersi in un passaggio di consegne: un capitale venuto dal «Nord» avrebbe ceduto il posto a un altro, del «Sud». «Gli inglesi costruirono le prime linee ferroviarie per esportare minerali e gli Stati uniti hanno auspicato la strada Cochabamba-Santa Cruz nel quadro della “marcia verso l’Ovest”. Adesso, è il Brasile a promuovere i propri corridoi di integrazione (12). » Pinheiro Guimarães la vede in un altro modo. Secondo lui il problema è prima di tutto geografico: nell’America del Sud, il Brasile rappresenta la metà del territorio, della popolazione e della ricchezza prodotta ogni anno. Nel 2011, il Pil del paese è stato cinque volte quello dell’Argentina, il secondo paese più prospero della regione. E cento volte quello della Bolivia. «Inoltre, alcune capitali dell’America del Sud hanno introdotto l’imposta sul reddito solo da pochissimo tempo. Da sole, non dispongono delle risorse necessarie per innescare lo sviluppo.» Occorre dunque «aiutarle».

Sfruttamento o solidarietà?

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Le opzioni sembrano coesistere, tanto sul piano regionale che all’interno di un potere brasiliano che ha l’ambizione di «riconciliare» sindacati e padronato. Fino a quando? Lo scorso primo aprile, Pinheiro Guimarães illustrava la solidarietà regionale con un esempio: «Durante il governo Lula è successo qualcosa di straordinario: un finanziamento brasiliano ha permesso di avviare la costruzione di una linea di trasmissione elettrica fra l’impianto idroelettrico paraguayano di Itaipu et Asunción (13)» mettendo così fine i blackout di cui soffriva la capitale vicina. Due giorni dopo, il padronato di São Paulo traeva da questo fatto un’altra conclusione: «Le industrie nazionali intensive in manodopera, come il tessile o l’abbigliamento, migliorerebbero la propria competitività rispetto ai concorrenti asiatici sul mercato interno brasiliano se delocalizzassero una parte delle linee di produzione nel vicino Paraguay» dove «il costo della manodopera è più basso di circa il 35% (14)».

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Note:

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(1) Corrispondenza con il presidente Fernando Henrique Cardoso, 21 gennaio 2000 (archivi di Barbosa).

(2) Leggere Carla Luciana Silva, «“Veja”, il magazine brasiliano che conta», Le Monde diplomatique/il manifesto, dicembre 2012.

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(3) Citato da Geisa Maria Rocha in «Neo-dependency in Brazil», New Left Review, n° 16, Londra, luglio-agosto 2002.

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(4) «Estudo da Fiesp mostra que Alca é mais risco que oportunidade», Valor Econômico, São Paolo, 26 luglio 2002.

(5) Leggere Hernando Calvo Ospina, «Manuale per destabilizzare la Bolivia», Le Monde diplomatique/il manifesto, giugno 2010, e Maurice Lemoine, «Etat d’exception en Equateur», La valise diplomatique, 1° ottobre 2010, www.monde-diplomatique.fr

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(6) «US protests against Bolivia’s decision to expel USAID», BBC News, Londra, 1 maggio 2013.

(7) «Maduro no volante», Folha de S. Paulo, 7 aprile 2013.

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(8) «8 eixos de integração da infraestrutura da América do Sul», Fiesp, São Paulo, 24 aprile 2012.

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(9) Piano di lavoro 2012 del Consiglio sudamericano di infrastruttura e pianificazione dell’Unasur (Cosiplan).

(10) «8 eixos de integração da infraestrutura da América do Sul», op. cit.

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(11) «Integração depende de governos, afirma bilionário», Valor Econômico, 19, 20 e 21 aprile 2013.

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(12) Raúl Zibechi, Brasil potencia, Desde Abajo, Bogotá, 2012.

(13) Intervista con Valéria Nader e Gabriel Brito, 1° aprile 2013,

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www.correiocidadania.com.br

(14) «Fiesp mostra vantagens de se levar indústrias ao Paraguai», Valor Econômico, 3 aprile 2013. (Traduzione di M.C.)

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