Percorsi di umanizzazione

Intervista al filosofo Massimo Diana. [a cura di Paolo Bartolini]

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21 Gennaio 2014 - 10.33


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(a cura) di Paolo Bartolini Da anni Lei si impegna a promuovere, integrando saperi e pratiche attinenti a campi differenti (filosofia, religione, antropologia, psicoanalisi), dei percorsi di umanizzazione rivolti a individui e gruppi che avvertono l’esigenza profonda di una metanoia, di una conversione che orienti la vita verso un senso capace di resistere all’usura del tempo e all’avvicendarsi delle mode. Questo bisogno emergente di orientamento, quanto ha a che fare con l’insostenibilità dell’attuale sistema socio-economico basato sull’idea di crescita infinita e di accumulazione continua di denaro?

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Ha a che fare, a mio avviso, nel senso che l’unico modo serio ed efficace per contrastare la follia insostenibile di un sistema basato sull’idea di crescita infinita e di accumulazione continua di denaro, è quello di testimoniare e vivere in prima persona possibili alternative. Credo sempre meno nel potere e nell’efficacia delle parole, anche delle più belle e altisonanti, troppo spesso vuote chiacchiere se poi si va a vedere chi è e come vive colui che predica così bene.

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I tre volumi di Percorsi di umanizzazione nascono anzitutto per permettere a me stesso una metanoia, una conversione. Prima di parlare ad altri, mi sono sempre detto e continuo a ripetermi: cura te stesso! Avevo bisogno per primo io stesso di fare tesoro di quanto la vita mi aveva insegnato e ho compreso che non c’è esperienza – e quindi non è possibile imparare veramente dalle proprie scelte e dai propri errori – se non si è disposti a ritornare, in qualche modo, sul proprio passato, per ripensarlo e immaginarlo altrimenti, per raccontarlo individuando trame di senso e di significato. Ho così raccontato, nel primo volume, della mia ricerca dell’amore, attingendo all’enorme serbatoio della sapienza dell’umanità: fiabe, miti, testi delle religioni, romanzi, film…

E poi ancora, nel secondo volume, della fatica per sciogliere quei legami che la natura stessa costruisce – penso ad esempio al legame con la madre o al rapporto di soggezione ad un padre/maestro/guru – perché indispensabili alla nostra sopravvivenza, ma che rischiano di diventare puro veleno se non si sciolgono. E infine, nel terzo volume, ho raccontato di come ‘credere’ possa essere una risorsa per affrontare questi due compiti così vitali. L’esigenza di conversione è stata, anzitutto, la mia. Ed è solo l’essermi impegnato in prima persona in questo processo di cammino verso l’Uomo, verso l’umano nella sua pienezza, ciò che mi autorizza a parlare e a scrivere. Ed è soprattutto il valore di una testimonianza ciò che può, con una certa efficacia, contrastare la hybris del modello dell’accumulazione e del consumo.

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Nel suo ultimo libro, “Credere. Percorsi di umanizzazione III” (Moretti e Vitali, 2013), Lei si interroga sulle responsabilità etiche e sociali che il credente maturo è chiamato a riconoscere e far proprie. Il concetto di “secolarità sacra”, ideato da Raimon Panikkar, può sintetizzare questa nuova urgenza? Cosa significa rendere sacro lo spazio-tempo storico della nostra vita?

In questo testo mi sono fatto guidare da una domanda: che cosa significa credere, oggi? Sono partito dal presupposto che credere sia una risorsa per i due compiti di cui ho parlato sopra, e mi sono chiesto: come è possibile credere, oggi, in un modo adulto, aperto, non dogmatico, senza necessariamente riconoscersi in una istituzione, senza sacrificare la propria umanità? Ho sintetizzato tutto questo in un navaratri (nove sutra), nove aforismi, che poi ho commentato e discusso.

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L’idea di fondo, una idea che sta ancora guidando il mio cammino e la mia ricerca, è che sia sempre più indispensabile per il mondo di oggi, trovare una via spirituale – e con questo mi riferisco a convinzioni e soprattutto a pratiche non esclusivamente religiose, ma che molto si avvicinano a ciò che Jung intendeva per processo di individuazione – laica e soprattutto integrata, cioè che sappia ricomporre e tenere insieme ciò che per secoli è stato disgiunto: il maschile con il femminile, il corpo con lo spirito, la sessualità con la preghiera e la meditazione, l’ambito del secolare con quello del sacro, in una prospettiva di apertura e dialogo con tutte le sapienze dell’umanità.

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Avverto forte l’esigenza di superare la ristrettezza della nostra logica aristotelica che si basa sull’aut/aut ed esclude, per andare verso una logica – come quella orientale dell’advaita o della non-dualità – che integra e comprende gli opposti, che tiene insieme e non disgiunge. Un processo che non è, ovviamente, solo un asettico modo di pensare ma che va a toccare nel vivo la nostra stessa esistenza, così divisa e lacerata. La spiritualità che intendo vivere per poi proporre è un cammino di unificazione, dove ciò che siamo tende ad unificarsi con ciò che pensiamo, ciò che pensiamo con ciò che diciamo, ciò che diciamo con ciò che facciamo. Un compito difficile, una vera e propria sospensione sulla croce, ma indispensabile, perché è il legno della croce l’albero della vita – come nel cristianesimo delle origini si diceva.
Ebbene, secolarità sacra è uno degli ambiti di questa ricomposizione: non c’è un altrove; questo mondo è tutto ed è qui che dobbiamo giocarci fino in fondo.

Considerare questa vita come la “valle di lacrime” che dobbiamo attraversare per raggiungere la vera vita che è altrove, è, dopo i cosiddetti ‘maestri del sospetto’, dopo Marx, Freud, Nietzsche, un atto non solo poco saggio e alienante, ma anche, per alcuni aspetti, colpevole. Panikkar invitava a considerare questo tempo/spazio come realtà definitiva e quindi sacra. Si tratta, semmai, di imparare a vedere nel visibile l’Invisibile, a cogliere nelle pieghe della storia e del quotidiano, l’Eterno che qui si manifesta. Senza fuggire e senza nascondersi dietro il comodo alibi della fede in un Dio tappabuchi. Il credente adulto, come scrive un teologo contemporaneo, Dietrich Bonhoeffer, vive etsi Deus non daretur. Proprio il considerare questo spazio/tempo come realtà ultima e definitiva è ciò che lo rende sacro.

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A suo avviso il dialogo interculturale e interreligioso può avere un ruolo politico da giocare in questi anni segnati dagli esiti catastrofici dell’ideologia neoliberista?

Il dialogo è davvero una esigenza sempre più imprescindibile se non vogliamo autodistruggerci. Ma il dialogo interreligioso, ecumenico, presuppone il dialogo intrareligioso, cioè che le grandi istituzioni religiose dell’umanità si rendano disponibili a fare autocritica, ad ascoltare davvero le periferie – per usare un’espressione felice di papa Francesco. Ma quanto ancora siamo lontani da questo e come è difficile finché permane una struttura ancora così clericale e gerarchica, di uomini (maschi) sordi e ciechi perché troppo ingolfati in una miriade di privilegi e di ricchezze.

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Il dialogo interreligioso, poi, deve condurre al dialogo interculturale, che esige un passaggio tutt’altro che facile e cioè la presa di coscienza che ogni cultura è costruita attorno ad un suo specifico mythos, come lo chiamava Panikkar. Da questo punto di vista, non esiste una cultura più vera delle altre, perché ciascuna è costruita attorno ad un proprio mythos, tutti altrettanto veri. La verità di una cultura o di una religione non esclude la verità di un’altra cultura o di un’altra religione. Eccoci di nuovo all’esigenza dell’advaita, di un pensare non-duale.

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Il punto è che solo il dialogo e il confronto aperto con l’altro ci consente di prendere coscienza del mythos su cui la nostra cultura è costruita. Essendoci da sempre immersi facciamo fatica a vederlo. Esattamente come solo nelle relazioni concrete e vissute giungiamo a conoscere veramente noi stessi. E come noi possiamo aiutare l’altro a cogliere il proprio mythos così dobbiamo imparare l’umiltà di un dialogo che ci aiuti a smascherare il nostro. Un dialogo che, come dice sempre Panikkar, deve essere dialogico, e non dialettico, finalizzato cioè solamente a vedere chi ha ragione; un dialogo che si deve basare su un’ermeneutica diatopica, cioè sulla consapevolezza – umile – che non esiste un solo topos, un solo luogo interpretativo, ma che ogni cultura esige che venga letta attraverso il suo proprio topos. Un dialogo, infine, che esige un coinvolgimento amoroso, altrimenti non si capisce nulla. Possiamo anche conoscere a memoria tutta la dottrina di un’altra religione (noema) ma se non condividiamo l’esperienza della fede vissuta di chi quella religione vive e pratica (pisteuma) rischiamo di non comprendere nulla.

L’ideologia neoliberista – nel suo dogmatismo segnato dalla hybris e dall’angoscia – ci ha a lungo andare privato del contatto vitale con quelle sapienze che appartengono alla nostra storia umana, alla nostra preistoria, facendoci perdere l’orientamento e la capacità di dialogo, quell’orientamento che “l’uomo di due milioni di anni che vive dentro di noi” – come diceva Jung – conosce e senza il quale non ci comprendiamo più tra di noi e non comprendiamo più il linguaggio dell’ambiente che ci ospita e di tutti gli altri esseri viventi che, al pari di noi, hanno diritto ad abitarlo.

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Lei propone la decrescita come uno stile di vita che può sostenere e inverare una fede adulta aperta al dialogo e alla convivenza pacifica tra gli esseri umani. Quali le sembrano i punti di forza e i punti di debolezza del messaggio decrescista in questa fase, per noi occidentali, di recessione segnata da una spontanea contrazione dei consumi e da un impoverimento diffuso della popolazione?

Beh, è già una grande novità nell’ambito delle spiritualità e delle religioni poter porre questo tema come centrale! Sempre nel segno di quel superamento delle opposizioni schizofreniche che hanno contraddistinto e spesso ancora contraddistinguono religioni e spiritualità. Ebbene, porsi questi problemi, interrogarsi sul proprio stile di vita, è un vero e proprio compito spirituale, esigenza imprescindibile di una fede adulta.

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Il punto di forza del messaggio decrescista, secondo me, è che non si pone come un modello rigido, ma come un insieme potenzialmente infinito di sperimentazioni, di esperienze, di esperimenti. Esalta e stimola la creatività, nel rispetto delle risorse e del Pianeta come realtà vivente e di tutte le creature che lo abitano. Il punto di debolezza è che mi pare non sia ancora riuscito a trovare un linguaggio incisivo e meno contrappositivo. Lo stesso termine decrescita è tremendamente ambiguo e fuorviante, come se decrescere volesse dire tornare indietro, ad una povertà volontaria e quasi eroica, un impoverimento generalizzato. Ma non è così! La decrescita è anzi il vero nome della crescita ormai possibile, di una crescita umana e in umanità, e dello sviluppo per il futuro. O cresciamo a questo livello – e allora le risorse del Pianeta basteranno per tutti – oppure rischiamo di annientarci con le nostre stesse mani. Non è un caso che Serge Latouche abbia dovuto scrivere un libro intero per contrastare gli equivoci e le ambivalenze legate al movimento che ha contribuito a generare.

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Infine una domanda molto personale: in cosa ripone la sua fiducia quando, intorno a noi e persino dentro di noi, la paura e l’angoscia della morte ergono i bastioni di una nuova e sempre uguale banalità del male?

Personalmente la fiducia la ripongo in quelle che Zoja, in un recente libro, ha chiamato utopie minimaliste. Mi permetto una citazione: «Per collaborare a un miglioramento del mondo bisognerebbe prima di tutto ridurre le contraddizioni con se stessi. Ognuno cercherà in seguito i propri compiti e i propri ideali […]; e saprà istintivamente che scrivere le proprie riflessioni, tenere un diario, annotare i propri sogni, o comunque cercar di conoscere meglio se stessi, nel tempo finirà coll’essere anche per la società un contributo più importante che il partecipare a manifestazioni rumorose». Ebbene, è questo ciò in cui credo.

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Questa è anche la differenza tra i miti e le fiabe: spesso i miti dell’umanità sono tragici e non potrebbe che essere così: essi si riferiscono a eventi e storie collettive e da questo punto di vista c’è poco da stare allegri. Le fiabe, al contrario, sono spesso a lietofine e questo perché, dal punto di vista dell’individuo, è possibile guadagnare una pienezza di vita e di umanizzazione. A questo livello, a livello del singolo, tutto è possibile, le persone possono cambiare e migliorarsi. Ma è molto difficile che la società e le istituzioni cambino.

Per questo motivo ho scelto di fare l’analista filosofo e non il politico, almeno così come abitualmente lo si intende. Credo nelle relazioni personali, nella potenza trasformativa e trasfigurativa delle relazioni e dell’amore. Ho molta diffidenza, invece, verso le istituzioni che spersonalizzano e che hanno loro logiche di autoconservazione così potenti capaci di piegare anche chi vi entra con le migliori intenzioni. Che promuovono i mediocri, e ti costringono, se ne fai parte e se vuoi restarci, alla mediocrità, perché hanno bisogno per autoperpetuarsi di ‘funzionari’ più che di persone libere. Questo è ciò in cui ripongo la fiducia.

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[b]Nota bio-bibliografica[/b]

Filosofo, ABOF (Analisi biografica a orientamento filosofico), Massimo Diana è autore di diversi saggi sulla necessità di un incontro fecondo tra religione, psicologia del profondo e filosofia. Tra questi: Le forme della religiosità. Dinamiche e modelli psicologici della maturità religiosa, Edizioni Dehoniane, Bologna 2006; Contaminazioni necessarie. La cura dell’anima tra religioni, psicoterapie e counselling filosofici, Moretti & Vitali, Bergamo 2008; La saggezza delle fiabe, Edizioni Paoline, 2010; La casa sulla roccia. Preghiere, meditazioni, rituali interreligiosi per la famiglia, Servitium, 2012 (con Marina Vicario); e infine la trilogia con Moretti & Vitali: Figure dell’amore. Percorsi di umanizzazione I (2010), Legàmi. Percorsi di umanizzazione II (2012), Credere. Percorsi di umanizzazione III (2013).

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