Platone, un moderno antidemocratico

Il sistema democratico, erroneamente oggi accettato in quanto perfetto, già più di due secoli fa mostrava le sue falle e ne anticipava il declino moderno. [Andrea Chinappi]

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13 Marzo 2014 - 08.24


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di Andrea Chinappi

Siamo nell’ Atene del IV secolo. La democrazia periclea è ormai da tempo finita; il regime oligarchico dei Trenta Tiranni si è spento con la pace di Eleusi del 403; la democrazia ateniese viene ristabilita; Socrate, il Maestro, condannato dagli ateniesi, muore assumendo veleno. E’ in questo orizzonte storico-politico che Platone matura il trattato politico divenuto celebre che prende il nome di Repubblica e ed è in seguito a questi avvenimenti che sviluppa la teoria antidemocratica e la dottrina dell’anima e delle Idee.

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Per meglio comprendere la teoria politica di Platone bisogna prima sottolineare che nell’Atene del V-IV secolo a.c. la prassi democratica era comunemente accettata a priori come miglior forma di governo, legittimata inoltre dalla teoria filosofica del sofista Protagora. Quest’ultimo infatti creò il mito secondo il quale Zeus, in seguitò al ratto del fuoco da parte di Prometeo che donò all’uomo la competenza artigianale (demiourgikè techne), abbia donato agli individui la tecnica politica (politikè techne) per permettere loro di associarsi secondo le regole del rispetto (aidòs) e della giustizia (dike).

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In questa maniera Protagora giustificò sul piano “metafisico” la necessità della democrazia e l’uguaglianza incontestabile dei desideri e delle soggettività dei cittadini, dediti perennemente al bene della comunità. Contro questo manifesto democratico si staglia la critica platonica all’ordine politico vigente, spostando la riflessione dal piano politico e in qualche modo “superficiale” al piano antropologico e morale,concentrandosi sull’analisi della struttura dell’anima umana.

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Secondo il filosofo idealista l’anima umana è scomponibile in tre parti, ognuna delle quali partecipa a formare la psiche dell’individuo e ognuna delle quali corrisponde ad una classe sociale ben definita: l’anima razionale (logistikon) che corrisponde alla classe dei governanti-filosofi caratterizzati dalla saggezza, l’anima irascibile (thymoeides) che appartiene ai guerrieri dominati dal coraggio e infine l’anima appetitiva (epithymetikon) dei commercianti e artigiani i quali eccellono in temperanza.

Soltanto il filosofo, di cui l’anima razionale assoggetta le altre due parti, è capace di guardare alla conoscenza e interessarsi esclusivamente al Bene comune; ma essendo la maggior parte dei cittadini dominati dalla parte irrazionale implica che questi siano individui volti a soddisfare gli interessi e i bisogni privati, alimentati da una pretesa di autoaffermazione nei confronti dell’altro, facendo così precipitare la polis nell’ingiustizia.

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Il filosofo-governante, non essendo schiavo delle proprie passioni, riesce ad universalizzare le proprie decisioni e cosi facendo, può agire nell’interesse collettivo. Secondo Platone, dunque, la democrazia trasgredisce le due norme principali del buon governo: la disuguaglianza psichica dell’uomo e la relativa quantità di conoscenza (anche chiamato [i]principio di competenza[/i]).

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Alla pretesa di universalità e alla rivendicazione a priori della libertà e dell’uguaglianza di tutti gli individui Platone costruisce una genealogia delle forme di governo dimostrando come la democrazia sia destinata ad autonegarsi e a sfociare inesorabilmente nella tirannide.

Il paradosso della democrazia consiste in breve nella trasformazione del cittadino in individuo isonomico (isonomia, uguaglianza), nel quale non esiste più una gerarchia all’interno della sua anima: il desiderio di conoscenza, ovvero il desiderio della parte razionale dell’anima, finisce di collocarsi sullo stesso piano degli altri desideri, e l’estrema libertà e l’eccessiva licenza di conseguire questi bisogni distolgono l’individuo dal Bene comune.

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Essendo così ogni cittadino in competizione con l’altro, la folla decide infine di affidarsi ad un difensore o demagogo, donandogli “democraticamente” il potere. Quest’ultimo, non facendo parte della categoria dei filosofi ed essendo dominato anch’egli da impulsi irrazionali e individuali, trasforma il suo potere in tirannia, eliminando così le libertà della democrazia.

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Ed ecco svelato il paradosso: la democrazia decide democraticamente di auto-annullarsi:

«È naturale quindi – continuai – che la tirannide non si formi da altra costituzione che la democrazia; cioè, a mio avviso, dalla somma libertà viene la schiavitù maggiore e più feroce». (Repubblica, 564 a)

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L’attualità della riflessione platonica sta nell’aver riconosciuto nell’uguaglianza tra gli individui non un punto di partenza ma uno scopo e nell’aver individuato nell’eccessiva liberalità un male, sia morale che politico.

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“Homo homini lupus” recitava Hobbes, identificando l’animo umano come naturalmente volto alla realizzazione di sé e alla sopraffazione dell’altro; “la natura ha fatto l’uomo felice e buono ma la società lo deprava e lo rende miserabile” rispondeva Rousseau, correggendolo un secolo dopo.

Platone ha anticipato entrambi i filosofi: da una parte ha dimostrato come l’uomo in balia degli impulsi cerchi si sopraffare l’altro pur di garantire la propria sopravvivenza, dall’altra ha immerso questa condizione umana nella società, evidenziando quanto le dinamiche sociali ed economiche abbiano fatto sviluppare nell’uomo una mole di bisogni superflui e non elementari.

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Volendo adattare il discorso platonico al mondo contemporaneo, ed in modo specifico alle nuove democrazie occidentali, è evidente quanto, seppure in maniera diversa, l’analisi psichica e antropologica del filosofo dell’antichità rispecchi quella del cittadino post-moderno:

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«Vive spendendo per i piaceri necessari non più di quanto spenda, in denaro, tempo e fatiche, per quelli non necessari. […] Egli non accetta ragionamenti ispirati a verità e non li ammette nella sua anima; qualora gli si dica che vi sono piaceri derivanti da nobili ed onesti appetiti ed altri propri di appetiti riprovevoli e che bisogna coltivare ed onorare i primi, frenare e soggiogare gli altri, a tutti questi discorsi egli nega il suo assenso ed afferma che i piaceri sono tutti simili e devono essere tenuti in ugual conto […]. vive alla giornata, soddisfacendo quell’appetito che urge al momento; ora si ubriaca e si diletta al suono del flauto, ora beve acqua e segue una cura dimagrante, ora compie esercizi ginnici, ora sta in ozio, incurante di tutto; ora sembra interessarsi di filosofia. Spesso partecipa alla vita politica e, saltando su, parla ed agisce a casaccio; e se mai intende emulare i guerrieri, si dedica con trasporto ad attività belliche; se vuole emulare gli uomini d’affari, diventa affarista. Nessun ordine e nessuna necessità presiedono alla sua vita; la chiama dolce vita, libera e beata, e se la gode, sempre. […] Non è forse l’insaziabile desiderio di ciò che la democrazia definisce un bene [la libertà] a mandarla in rovina? In uno stato democratico tu sentirai proclamare che questo è il bene più nobile che lo Stato possiede e che perciò soltanto in una democrazia potrebbe vivere degnamente chi sia libero per natura. […] L’insaziabile desiderio di questo bene e la noncuranza degli altri valori non mettono forse in crisi anche questa costituzione [democratica] e non preparano l’avvento inevitabile della tirannide?». (Repubblica, VIII, 561e-562d)

La smisurata libertà di costumi, la democrazia come diritto e non come dovere, il soddisfacimento necessario di bisogni non necessari, il disordine, il fattore economico come motore della politica, l’individualismo e la sete di successo erano i caratteri che individuava Platone nell’Atene del IV secolo.

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Condannato da diversi filosofi e studiosi moderni , come il britannico Karl Popper,di essere stato il capostipite di una tradizione filosofica totalitaria, bisogna riconoscere al filosofo greco, acuto studioso dell’uomo-cittadino, il merito per esempio di aver ispirato la fortunatissima intuizione sociologica di Marx e di aver anticipato l’importanza del fattore economico nello sviluppo storico della civiltà, teoria poi riproposta dal filosofo tedesco sotto il nome di “Materialismo Storico”.

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Il sistema democratico, il sistema comunemente ed erroneamente oggi accettato in quanto perfetto, già più di due secoli fa mostrava le sue falle e ne anticipava il declino moderno; l’estrema libertà politica e morale inevitabilmente sono destinate a corrompere le loro stesse nature e trasformarsi in paradossi viventi: una dittatura eletta da uomini resi schiavi dalla loro libertà.

(12 marzo 2014) [url”Torna alla Home page”]http://megachip.globalist.it/[/url]
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