Quale democrazia dopo la democrazia?

«Dovremmo cominciare a chiederci se ha ancora un senso parlare di democrazia nel tempo presente. Comunque non di questa, cioè quella che l’Occidente vorrebbe esportare». [Giulietto Chiesa]

Quale democrazia dopo la democrazia?
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13 Agosto 2014 - 14.53


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di Giulietto Chiesa

Dopo “l’eccidio costituzionale” perpetrato da questo parlamento usurpatore, credo che si debba ricominciare daccapo a riflettere. C’è poco da salvare. Il golpe è stato realizzato. Con costoro non c’è più dialogo possibile. Dovremmo cominciare a chiederci se ha ancora un senso parlare di democrazia nel tempo presente. Comunque non di questa, cioè quella che l’Occidente vorrebbe esportare. Questa è merce avariata, che ha già intossicato il miliardo d’oro e poco più in là. E’ chiaro che tutte le questioni in merito sono riaperte, nessuna esclusa, essendo evidente che le risposte fornite dalla civiltà occidentale non sono valide – neanche per la civiltà occidentale – e non si sono affermate in gran parte del pianeta.

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Dunque la domanda: “Serve ancora la democrazia?”, non è né pleonastica, né fuori luogo. Mi piacerebbe discuterne con il M5S e con quei settori della ex sinistra che sono ancora capaci di ragionare. Quale democrazia? Quali saranno le sue caratteristiche distintive? Come la si costruirà? Quanto tempo ci vorrà per costruirla?

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E, mentre cerchiamo di affrontare queste questioni, non potremo evitare di esaminare le cause di fondo che hanno portato all’estinzione della democrazia liberale. Stanno esplodendo tutti i parametri della società contemporanea. Pensare che si possa tornare alla democrazia in un sistema analogo a quello che sta crollando sotto i nostri sguardi è ipotesi irreale.

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Seguo qui il ragionamento di Edgar Morin:

“Individuo e società esistono reciprocamente”.

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“La democrazia si fonda sul controllo dell’apparato di potere da parte dei controllati”.

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“In questo senso la democrazia è più che un regime politico; è la rigenerazione continua di un anello complesso e retroattivo: i cittadini producono la democrazia che produce i cittadini”.

Morin considera ovvia l’esistenza di un “apparato di potere”. Un postulato, come quello dell’esistenza dei “controllati”. Ha perfettamente ragione. Non esiste organizzazione sociale senza una struttura di potere, La questione è “quale” apparato di potere.

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Si vede subito che nessuno dei tre punti citati da Morin ha resistito all’usura dei nostri tempi. Quasi nulla di tutto ciò è oggi in funzione. L’individuo è stato separato dalla società ed è oggi ad essa contrapposto. Il potere è ostile all’individuo e alla società. I controllati non hanno la possibilità di controllare, in quanto sono stati privati della conoscenza della realtà (vedi Matrix).

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Il fatto è che i punti messi a fuoco da Morin sono caratteri essenziali della civiltà moderna; valori di cui, io credo, dovremo ri-impadronirci dopo averli perduti. Senza questi valori-strumenti nessun’altra democrazia è possibile, poiché essa non potrebbe né consentire l’espressione della diversità e della libertà umana, né attingere al livello della decisione politica, e si condannerebbe, anche nella migliore delle ipotesi, a formare un pulviscolo di punti di “resistenza”, più o meno microscopici, comunque incapaci di fronteggiare uno scontro epocale tra il Potere “catastroforo” (portatore di catastrofe) e la Natura. Rinunciare a questi valori-strumenti significa rifiutare di cogliere la portata della battaglia che ci attende.

Aggiungo qui che l’analisi stessa della crisi ci dice che se ne potrà uscire – attraverso una transizione comunque estremamente difficile – solo con una partecipazione attiva, consapevole, di milioni e milioni. Poiché anche ipotizzando (e non è il caso) che le nostre società siano un giorno guidate da gruppi dirigenti onesti e dediti al bene comune, dovrebbe essere chiaro che essi non potranno prendere in tempo utile nessuna delle tremende decisioni che s’imporranno se, attorno ad essi, non si creerà un vasto consenso popolare. E questa è parte costituente, anche se non unica, della democrazia.

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Si dovrà stare in guardia da ogni tipo di semplificazioni e di banalizzazioni. Invece il dibattito, che infuria mentre la democrazia liberale muore, ne è pieno e produce molta confusione, dove l’idea prevalente è quella di buttare a mare bambino e acqua sporca.

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Dopo avere affermato la sovranità del popolo come principio dominante, occorrerà aggiungere subito che essa “comporta l’autolimitazione di questa sovranità attraverso l’obbedienza alle leggi e il trasferimento di sovranità agli eletti”. Col che si piantano i paletti che devono definire la democrazia rappresentativa.

Io sono favorevole a fissare questi paletti. In una società di massa la democrazia diretta (o, come spesso si sente dire, la democrazia assembleare), senza mediazioni di rappresentanza, è cosa impossibile praticamente e, dunque, teoricamente inammissibile. Non esistono assemblee di milioni. Se esistessero sarebbero autoritarie per la loro stessa composizione, sottoposte alla massificazione-semplificazione-banalizzazione del messaggio. Inoltre abbisognerebbero, per esempio, di un mezzo tecnico per realizzarsi. Questo, a sua volta porrebbe la questione del controllo di un tale mezzo tecnico. Inoltre i milioni di click affermativo-negativi snaturerebbero ogni possibile discussione, ogni possibile mediazione.

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Quanto di più autoritario si possa immaginare. “L’esperienza storica ha dimostrato che la democrazia aritmetica è un’impostura semplicistica della sovranità popolare e in realtà l’anticamera della degenerazione oligarchica e del dispotismo”. Quanto di più irrealistico è pensare a forme di consultazione, inevitabilmente molto simili a dei test attitudinali, in cui le “diversità” di collettività numerose ma minoritarie sarebbero impossibilitate a esprimersi e verrebbero comunque schiacciate.

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Contare il miliardo e trecento milioni di volontà “cinesi”, il miliardo di volontà “indiane” e metterle nella stessa “urna” elettronica con il miliardo scarso dell’Occidente non è materialmente possibile. E, se lo fosse, sarebbe giusto? Si tratta di semplificazioni incolte, a-storiche, sostanzialmente autoritarie, a prescindere dalle buone intenzioni di chi le formula.

Ma procediamo, seguendo ancora Morin, che fornisce un’interpretazione non ideologica della democrazia, liberandola dal loglio e conservando al tempo stesso i buoni semi da cui proviene la stessa democrazia liberale. Qualcuno può pensare che di buoni semi da quella pianta non possano più venirne, ma io penso che abbiamo davanti agli occhi la prova del contrario. Che si chiama Costituzione della Repubblica Italiana. Che, certo, non è soltanto (di gran lunga non lo è) figlia della democrazia liberale, ma è anche questo, e gettarla via sarebbe grande delitto.

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(13 agosto 2014)

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