‘di Paolo Bartolini
In questi giorni il dibattito sulle unioni civili e le questioni di bio-etica danno da pensare. In particolare le intense reazioni di rifiuto rispetto alla pratica del cosiddetto “utero in affittoâ€, mi pare offrano qualche spunto di riflessione al di là del merito. In una società dove tecnologia ed economia capitalistica vanno a braccetto (il motore è la seconda, ma senza la prima potrebbe far poco) l”etica pubblica e la morale dei singoli si può ormai esercitare su pochissimi temi.
Questo è il primo problema, e non da poco: l’estensione – sacrosanta a mio avviso – dei diritti civili si configurerebbe come l’unico spazio praticabile per abbozzare una politica “progressistaâ€. Se l’economia di mercato e le logiche dell’accumulazione quantitativa sono ormai considerate impossibili da contrastare, fino al punto di sembrarci “naturali†e dunque immodificabili, sul versante delle libertà individuali assistiamo a proposte che scuotono l’opinione pubblica al di là di un prevedibile calcolo elettorale. Tutto ciò implica che, mentre da un lato si tenta di restituire dignità alle persone, dall’altro non si costruisce alcun tessuto sociale ed economico che consenta alle coppie di vivere finalmente una vita sensata, sfuggendo all’ingranaggio del consumo, della competizione, della distruzione dell’ambiente e dei diritti del lavoro.
Questa premessa ci permette di tornare al recente dibattito su quella che definiamo una gravidanza per interposta persona. Nel lamentarci delle sorti di un mondo che va sempre meno verso i diritti di tutti e sempre più verso il capriccio di pochi, tocchiamo qui un punto di grande importanza: quello dei limiti. Diversamente dall”uso allegro e irriflesso che si fa del termine Natura, possiamo dire che gli uomini appartengono da sempre, e da subito (ovvero fin dalla nascita), a dei collettivi natura-cultura che coevolvono insieme ai loro ambiente specifici.
La cultura schiude il possibile che, tuttavia, gli uomini possono esercitare solo a partire da vincoli storici e biologici. La plasticità cerebrale di homo sapiens, la sua eccedenza pulsionale che oltrepassa il determinismo degli istinti e lo sviluppo di tecnologie poderose che accelerano l’evoluzione della specie mediante la diffusione di veri e propri ibridi (organismi-macchine), producono un modo di essere al mondo che ci condanna, diciamo così, a reperire un senso nella nostra vita. Questa ricerca di senso, che ovviamente riguarda anche l’idea di felicità che coltiviamo, denota sempre una tensione di fondo tra collettività e individuo, comunità e singolo.
La modernità , piaccia o meno, ha liberato – almeno in linea di principio – i singoli individui da un’adesione scontata alle tradizioni di appartenenza. In Occidente è ciascun individuo (come recita la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani) a dover riconoscere il proprio desiderio e a prendere decisioni rilevanti sul proprio tragitto esistenziale. Ciò non significa che esista un individuo irrelato, portatore di diritti ma autosufficiente e slegato dalla cultura del proprio tempo. E’ quindi fondamentale prestare attenzione a ciò che avviene al crocevia tra scelte individuali e processi storici di media e lunga durata (processi collettivi).
A questo riguardo è stato detto, in un libro recente del filosofo Roberto Mancini (“Ripensare la sostenibilità “, Franco Angeli, 2015), che se giudicare le persone è sempre sbagliato e controproducente, giudicare l”economia e i sistemi sociali è un dovere. Non dobbiamo quindi pensare che il giudizio etico/morale vada cancellato dalla nostra vita, in nome chissà di quale laica tolleranza. Unico effetto di questa logica è abbandonare l’umanità al gioco meccanico dello scambio economico e dell’efficienza tecnologica. Alla razionalità del calcolo, che degenera facilmente in ragione totalitaria, opponiamo l’esigenza di un dialogo sincero che sappia inserire, senza giudicarlo con il metro del moralismo, il soggetto nella propria epoca. Quest’ultima, invece, va criticata e giudicata, rivendicando il primato di una macroetica della dignità umana al di sopra delle pretese ideologiche di autonomia dell’economia e dell’innovazione tecnologica.
Alla luce di quanto detto, per uscire dalle contraddizioni tra libertà individuali e norme collettive e per guardare a un processo emancipativo che non sacrifichi la coesione del tutto lasciando però spazio alla potenza di agire che abita il molteplice, credo sia opportuno andare in cerca di interrogativi appropriati alla delicatezza del tema sollevato. La domanda giusta non mi pare sia “fino a dove deve arrivare, in assoluto, la libertà del singolo?†bensì “quali libertà individuali risultano compatibili con una società che non sia più retta dalla logica del profitto, dal culto del nuovo a tutti i costi, dalla febbre di sovrastimoli e di consumo?â€. E’ per queste libertà che bisogna combattere fin d”ora, convinti che in una società realmente “sostenibile†(su piano antropologico, lavorativo e ambientale), una società finalmente sottratta alla valorizzazione coatta del capitale, il gioco del desiderio saprà infrangere la prigione soffocante del godimento obbligatorio.
Voglio chiedermi allora, con un esercizio mentale che trascolora nell’esperimento filosofico, come agirebbero la propria libertà (anche affettiva e sessuale) soggetti finalmente portatori di diritti sociali ed economici, consapevoli del proprio legame con gli altri e con il mondo dei non-umani. Perché forse l’errore più grande è quello di parlare di “limiti della libertà personale†senza poter contare sulla “materia prima†del discorso, ovvero su persone che siano già sufficientemente libere e critiche da poter affrontare il dilemma della scelta in tutto il suo dramma esistenziale (Kierkegaard).
In estrema sintesi, e tentando una conclusione necessariamente provvisoria: nell’odierno Occidente dove l’unica Legge è il denaro e le passioni sono condizionate in modo compulsivo dall’immaginario consumistico, è difficile pensare che certe questioni – come quella eclatante della maternità surrogata – possano essere affrontata seriamente e serenamente.
Bisognerebbe, prima di avventurarsi in territori delicatissimi del vivere umano associato, avere il coraggio di costruire le condizioni sociali, economiche e politiche più adatte a superare la pervasività della logica mercantile in ogni campo dell’esistenza. Per questo abbiamo bisogno di tutte/i, senza la minima distinzione di sesso e genere, affinché la “differenza†che vogliamo difendere non si riduca a una triste coazione a ripetere (quella dei comportamenti appropriativi e di consumo), ma si esprima piuttosto in azioni concrete volte a trasformare in profondità i rapporti di potere/dominio che attraversano ogni piega della società , dalle fabbriche alle scuole, dal parlamento alle piazze, dalle istituzioni sovranazionali a quelle territoriali, dalle banche ai risparmiatori, dalle imprese al sindacato, dalle relazioni di coppia ai percorsi di genitorialità consapevole.
(3 marzo 2016)Infografica: © Man Ray, Venere restaurata, 1936/1971.
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