Brexit o non Brexit? Non è questo il problema

'Il governo di Theresa May non avrebbe subito contestazioni se avesse proceduto come da norma, rendendo trasparenti i negoziati con l''UE. Ma non è stato così. '

Brexit o non Brexit? Non è questo il problema
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8 Novembre 2016 - 06.28


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Dopo l”articolo sul tema di Giulietto Chiesa pubblicato da Sputnik e
ripreso ieri da Megachip, riceviamo e pubblichiamo volentieri un diverso
punto di vista, nell”intento di incoraggiare un dibattito aperto fra e
con i lettori.

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di Leni Remedios

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BIRMINGHAM (Regno Unito)

Chiarisco subito, a scanso di
equivoci, che il presente articolo è lungi dall’essere una spiegazione delle ragioni
del sì e del no riguardo al referendum britannico su Brexit. Il voto risale a
cinque mesi fa, va accettato per quello che è.

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Nessuno contesta il risultato
del referendum, quindi.

Bypassiamo pure il fatto che
sia stato vinto per una maggioranza risicatissima, sulla base di una campagna
spudoratamente xenofoba – pochi europei residenti qui mi smentiranno su questo
– e fraudolenta (mi riferisco alla frode sui soldi destinati al Sistema
Sanitario Nazionale invece che all’UE in caso di Brexit: Farage e soci, il giorno
dopo il referendum, ammisero di “essersi sbagliati”).

Bypassiamo pure il fatto che,
in una democrazia rappresentativa, 
cambiamenti significativi che implicano la riforma di diritti
fondamentali necessitino di una larga maggioranza della popolazione. Bypassiamo
tutto. Facciamo come se Brexit fosse passata con il consenso di più del 60%
degli aventi diritto al voto. 

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Il governo di Theresa May non
avrebbe subito contestazioni se avesse proceduto come da norma: accolto il
risultato del referendum avrebbe dovuto sottoporre il proprio piano al
Parlamento, ci sarebbe stato un dibattito trasparente ed aperto al pubblico sui
negoziati con l’UE e tutto sarebbe andato liscio. Così come la legge prescrive
in fatto di referendum consultivi. Ma non è stato così.

Il doppio intento della
scrivente sta: nel fornire un ulteriore spiegazione al pubblico italiano su
quel che sta accadendo nel Regno Unito, visto e 
considerato che i fatti che accadranno qui nei prossimi mesi, assieme
alle conseguenze delle presidenziali americane, avranno forti ripercussioni
sulla vita di tutti noi, direttamente o indirettamente; fornire una chiave di
lettura diversa sulla vicenda Brexit, puntando i riflettori sul “salvare il
salvabile”, ovvero su quel che rimane dei diritti civili e delle costituzioni. 

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Scrivo questo adesso alla
luce della recente sentenza dell’Alta Corte di Giustizia britannica, per cui dovrà
essere il Parlamento a decidere quando evocare l’articolo 50 del Trattato di
Lisbona che predispone all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea; inoltre
sempre il Parlamento dovrà supervisionare i lavori del governo su termini e
condizioni dell’uscita.  In altre parole,
prenderà parte attiva ai negoziati con l’Unione.

Il governo May ha giá
dichiarato di fare ricorso il mese prossimo. La stampa mainstream britannica ha
quasi unanimamente gridato allo scandalo, definendo i giudici dell’Alta Corte
“traditori del popolo”, mentre la BBC – di solito così prona verso qualsiasi
cosa il governo dica – sta dando i primi segni di incertezza e d’imbarazzo.

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Mi rendo conto come
dall’esterno sia difficile cogliere la complessità del momento politico oggi in
Gran Bretagna. Sembrerebbe semplice, una questione di sì e di no, referendum
vinto o perso, normale prassi democratica, punto e fine.

Riassumo brevemente i fatti
oggettivi in sequenza, se volete prendetela come una tesi scientifica che va
suffragata: il Referendum su Brexit era
un Referendum consultivo, ovvero non vincolante in termini di legge e che in
quanto tale necessita del vaglio ulteriore del Parlamento.
È stato vinto
per una maggioranza risicatissima. Un governo non eletto intende ora perpetrare
i negoziati con Bruxelles sull’uscita dall’Unione all’oscuro degli elettori e senza
interpellare il Parlamento, né sulla data effettiva in cui evocare l’articolo
50 del Trattato di Lisbona né su termini e condizioni da proporre all’Unione.

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Questi sono i fatti.

Poi potremmo discutere
all’infinito sulle ragioni alquanto diverse che hanno spinto all’epoca verso il
rispettivo voto. Ci basti soffermarci sul seguente elemento: in entrambi i casi
ci sono motivazioni sia progressiste che conservatrici. L’Europa dei tories di
Cameron – il mantenimento dello status quo ultra neo-liberista e guerrafondaio
in linea col blocco NATO – non è evidentemente la stessa idea dei labour di
Corbyn, ovvero di un miglioramento dei diritti di cittadini che vivono,
lavorano e si spostano in seno ad un’Europa che non muove guerre, e nemmeno
degli indipendentisti dello Scottish National Party. Persino dietro le ragioni
dei Leavers ci sono argomenti sia di destra ultra xenofoba (Farage, Gove,
Johnson e l’ultima versione di Theresa May che supera tutti) che di sinistra
anti-sistema, che vede nella sclerotizzata Bruxelles – a ragione – un coacervo
di maggiordomi agli ordini degli USA prevaricante la sovranità nazionale. 

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Molti miei colleghi ed amici
personali in Italia hanno letto la vittoria del referendum su Brexit seguendo
l’ultima chiave di lettura, ovvero come una vittoria di un popolo illuminato
che ha capito benissimo i trucchetti di Madam Bruxelles e non ci sta al gioco. Stando
a questa linea interpretativa, la sentenza dell’Alta Corte di Giustizia
britannica viene vista come un’interferenza giudiziaria che vuole scavalcare il
giudizio popolare.

Rispetto tale punto di vista.
Ma, come ho già scritto altrove, per come la vedo io da residente nel Regno
Unito non è affatto così o, più precisamente, lo è solo in una minimissima
percentuale.

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Probabilmente vorrei che fosse così. Ma…“wishful
thinking” dicono gli inglesi. “Vorresti. Magari”.

Tuttavia, come ho già scritto
all’inizio, non è affatto questo il punto.

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Qui intendo fornire alcune
coordinate che non penso altri media si siano impegnati granché a dare. Parlare
di Costituzione, di norme, di procedure democratiche non va di moda oggi. È
noioso. Bisogna fare sensazione. Bisogna parlare di Farage e May che sputano
bile e promettono vendetta. Dei cittadini britannici incazzati.

In risposta ai Brexiteers
progressisti di sinistra entusiasti del voto anti-sistema, mi sento di aggiungere,
ahimè, che come aggravante, in seguito all’esito del referendum, il governo May
si appresta ad un giro di vite su austerity, tagli al welfare, privatizzazione
e forse svendita totale del sistema sanitario, nonché ad una politica estera
aggressiva. Chi pensava che Brexit potesse fornire uno scossone agli equilibri
geopolitici in atto che intersecano Unione Europea al blocco NATO ha ragione
solo in parte, forse qualcosa ha fatto e farà: tuttavia la guerra alla Russia
la Gran Bretagna la vuole fare, le armi ai sauditi continuerà a venderle, il programma
di testate nucleari Trident continuano a sponsorizzarlo anche con mezzi non
proprio ortodossi. Di più: la pesante svalutazione della sterlina, avanti di
questo passo, fornirà ulteriori motivi per una guerra: una bella guerra ci sta
sempre bene per portare il bilancio in pareggio, no? Le elites, insomma, Brexit
o no, se la caveranno sempre, per dritto o per rovescio. Ce lo ricordiamo che
quando lo zio Obama veniva a Londra a supplicare l’elettorato di votare per
Remain, degli speculatori americani nel frattempo scommettevano sulla
svalutazione della sterlina in caso di Brexit? Per quanto riguarda la City pare
che se la caverà con delle regole speciali, su misura, come riportano alcuni
giornali. JP Morgan e Goldman Sachs non soffriranno più di tanto per spostare
70.000 lavoratori/pedine in altre città europee.

A farne le spese saremo come
sempre noi, comuni cittadini.

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Personalmente non mi piace né
l’Unione Europea di Juncker né il Brexit xenofobo di Theresa May. Trovo
entrambi deprecabili per ragioni diverse. Ecco perché il vero punto, ora come
ora, non è Brexit o non Brexit, ma è salvare il salvabile: i nostri diritti. 

Interferenza giudiziaria vs deriva autoritaria

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Theresa May non ha mai nascosto
di voler fare tutto da sè, escludendo il parlamento dai negoziati ed
auto-investendosi portavoce del popolo britannico. La linea dura di Miss May è
risaputa, nessuna sorpresa. Ma è risaputa solo nei modi. Nella sostanza nessuno
ha mai capito, sino ad oggi, che cosa diavolo voglia dire con il suo mantra
“Brexit is Brexit” e con la sua propensione per una “Hard Brexit”. Né gli
europei residenti qui – che un giorno si sentono rassicurati sui propri diritti
di residenza ed il giorno dopo se li vedono minacciati – né i titolari di
piccole, medie e grandi imprese che fanno import-export, né tantomeno i
cittadini britannici, che dopo la sbornia post-Brexit si sono visti
paradossalmente altalenare la valuta, fino a 
farla avvicinare paurosamente al valore dell’euro: quell’europeismo che
volevano scongiurare lo hanno avuto indietro nell’ambito finanziario. Almeno
prima erano davvero isolazionisti nella valuta. Come se non bastasse, si annuncia
ora che il calo della sterlina rispetto a dollaro ed euro farà alzare
spasmodicamente i prezzi nei prossimi mesi, soprattutto dopo Natale. In questo
scenario, i residenti nel Regno Unito, sia indigeni che stranieri, hanno tutto
il diritto di essere informati correttamene su quel che sarà delle proprie vite
nel futuro incipiente.

 Tutti si aspettavano un chiarimento subito
dopo la vittoria del referendum. È per questo che Theresa May, in teoria, ha
ricevuto il mandato dopo le dimissioni di Cameron: per unire il paese e
guidarlo verso una chiara fuoriuscita dall’Unione, così come espresso nel
risultato del referendum. Eppure, cinque mesi dopo, la totale mancanza di
chiarezza, le continue contraddizioni e la tendenza autoritaria della Premier hanno
provocato irritazione e disappunto non solo fra i cittadini ma anche e
soprattutto fra i parlamentari, in maniera trasversale. Mentre scrivo, un parlamentare
Tory ha dato le dimissioni definendosi disgustato da come Theresa May abbia
gestito la cosa in maniera totalmente antidemocratica. È solo l’inizio: assieme
a lui alzano la voce altri suoi colleghi, mentre dal canto suo Jeremy Corbyn
alza la testa e minaccia di bloccare Brexit e di andare ad elezioni anticipate
se non ci sarà un accordo dibattuto col parlamento sul libero mercato con
l’Unione e la libera circolazione delle persone. 

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Chi è Gina Miller?

La promotrice del ricorso all’Alta
Corte di Giustizia è Gina Miller, nota investitrice della City di Londra ed
appoggiata sia da settori industriali che dal crowdfunding popolare. Si può
argomentare  sulla parzialità della
persona in questione verso la City – così come si può argomentare sulla
parzialità dei remainers e brexiteers all’epoca – ma non è stata lei ad
emettere la sentenza, per quanto abbia depositato il caso. Qualsiasi sia stato
l’individuo a farlo – si chiami Gina Miller o Jeremy Corbyn – l’Alta Corte di
Giustizia, l’organo che ha deliberato, è un organo predisposto a salvaguardare le
procedure democratiche in accordo al corpus costituzionale britannico. Secondo
il suo stesso regolamento, l’Alta Corte di Giustizia delibera a prescindere
dalle politiche perseguite dai governi del momento, nell’esclusivo scopo della
tutela costituzionale. È bene tener
presente, al proposito, che non è stata l’Alta Corte di Giustizia a decretare,
a posteriori, che il referendum in questione era consultivo: il referendum era
in questa veste per legge sin dall’inizio, da quando cioè è stato introdotto in
Parlamento accompagnato dal documento-guida 7212 (ancora più precisamente,
nella sezione 5).

Non è un caso che adesso
molti accusino il governo di non essere stato chiaro fin dall’inizio con
l’elettorato su questo punto, creando false aspettattive. Un monito che suona, bisogna dire, come un mea culpa: dov’erano
gli accusatori durante la campagna elettorale? Perché non c’avete pensato voi
ad essere precisi? Troppo coinvolti ad
appoggiare o contrastare una campagna referendaria che da “Brexit sì Brexit no”
si è tramutata subito in “stranieri  sì
stranieri no”. Entrambe le fazioni progressiste sono cadute nella trappola
propagandistica e si sono dimenticati delle informazioni fondamentali da
fornire ai cittadini. Tra le altre cose il testo finale del Bill presentato in
Parlamento sottolinea

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 La Gran Bretagna non ha una Costituzione racchiusa in un
documento unico, come quella italiana. Tuttavia ha un corpus di norme
costituzionali che affondano le radici nel secolo XVII ed il cui scopo è quello
di preservare la sovranità del parlamento contro qualsiasi rischio di deriva
autoritaria e/o populista.

Theresa May insiste sul punto
di voler preservare la sovranità popolare. Ebbene, la Costituzione spiega che
la sovranitá popolare si esprime attraverso il parlamento, che il popolo
rappresenta, nel bene e nel male.

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Se così non fosse si
creerebbe un pericoloso precedente:
qualsiasi primo ministro, d’ora in poi, potrebbe agitare un referendum consultivo
su questioni fondamentali del paese brandendo la bandiera della volontá
popolare ed escludendo lo scrutinio parlamentare sui risultati. In altre parole
si aprirebbero le porte a demagogie e populismi, che in questo caso vanno
a  braccetto con la deriva esplicitamente
xenofobo/razzista del governo e tristemente in linea con i partiti oltranzisti
di destra di tutta Europa. Il Prof A.C. Grayling del New College of the
Humanities
parla di Oclocrazia,
ovvero di decisioni prese avventatamente alla mercé degli umori del popolo.

Il punto cruciale è che qui
non si mette in discussione l’opinione espressa dalla maggioranza, per quanto
risicata, dei cittadini britannici, bensì che, secondo le norme costituzionali
britanniche, gli esiti di un referendum consultivo vanno vigilati dal
Parlamento. A questo servono le democrazie rappresentative. Il compito non va
delegato interamente ad un Premier ed il popolo non va tenuto all’oscuro dai
processi in atto. Se il ricorso di Theresa May passasse il prossimo mese,
dovremmo aspettarci in futuro un uso simile dei referendum su altri temi,
magari anche più gravi. Senza contare che governi di altri paesi, magari
guidati da coalizioni di estrema destra, potrebbero prendere esempio da Miss
May.

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Fonti consultabili:

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