Trump: un “non voto” di protesta contro il sistema

Gran parte dei tradizionali elettori repubblicani ha votato Trump, mentre milioni di tradizionali elettori democratici non hanno votato per nulla o per candidati alternativi.

Trump: un “non voto” di protesta contro il sistema
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24 Novembre 2016 - 22.17


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di Thomas Fazi 

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Gran parte dei commentatori non pare avere dubbi sul
risultato delle elezioni americane: è il risultato del trionfo del
populismo, della barbarie, della stupidità, del razzismo e della
misoginia sulla solidarietà e sulla razionalità. Ma le cose stanno
veramente così? Cerchiamo di fare un po’ di chiarezza.

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Tutta colpa del razzismo? 


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Secondo i dati stilati dall’United States Election Project,
l’affluenza alle urne è stata del 58,4% (135.180.000 milioni su 231
milioni circa di aventi diritti), più o meno la stessa percentuale del
2012, e quattro punti percentuale in meno rispetto al 2008 (62,2%), cioè
alle due tornate elettorali che hanno assegnato la presidenza ad Obama.


Come è noto, Trump ha vinto le elezioni pur totalizzando –
al 22 novembre, poiché la conta dei voti è ancora in corso – il 46,7%
del voto popolare (61.900.000 di voti circa) contro il 47,9% (63.500.000
di voti circa) della Clinton, che dunque ha preso all’incirca 1,6 milioni di voti in più.
Questo perché l’elezione della carica presidenziale negli USA è
indiretta, cioè il presidente non viene eletto direttamente dai
cittadini con voto popolare ma da 541 “grandi elettori” eletti su base
statale. I cittadini esprimono la propria preferenza per un candidato o
una candidata, ma in realtà non viene eletta la persona singola ma il
gruppo di “grandi elettori” ad essa associato. Quindi può anche
accadere, come già successo in cinque occasioni,
che un presidente sia eletto con una minoranza di voti popolari. Ed è
esattamente ciò che è accaduto anche questa volta, con un margine
tutt’altro che esiguo tra l’altro.


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Stando così le cose, il candidato o la candidata che si
assicurano almeno 270 grandi elettori, cioè la maggioranza assoluta,
sono virtualmente certi di occupare la carica: anche se i grandi
elettori, che si riuniscono per eleggere il presidente il dicembre
successivo al voto popolare (quest’anno il 19 dicembre), non sono
obbligati per legge a votare per il candidato o la candidata ad essi
associati – tanto che in questi giorni è apparso più di un appello in rete
affinché i grandi elettori votino contro Trump – solo una volta nella
storia (nel 1836) è capitato che i grandi elettori abbiano “tradito” il
loro candidato. Ed è altamente improbabile che lo facciano in questo
caso.


Il fatto che la Clinton abbia vinto il voto popolare non
dovrebbe però distogliere l’attenzione dal colossale fallimento della
candidata democratica. Pur totalizzando più voti di Trump, la Clinton ha
comunque preso (al netto dei voti ancora da conteggiare) quasi 2,5
milioni di voti in meno di Obama nel 2012 (65.900.000), e addirittura sei milioni di voti in meno
di Obama nel 2008 (69.500.000). E questo nonostante il fatto che gli
aventi diritto al voto siano aumentati di 18 milioni nello stesso
periodo. Trump, d’altro canto, ha ottenuto solo un milione di voti in
più di quelli presi da Mitt Romney nel 2012 (60.900.000).


Insomma, non ha vinto Trump; ha perso la Clinton.


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Questi numeri smentiscono dunque la retorica dell’America bianca e working class
che si sarebbe fatta sedurre in massa dal messaggio razzista e
nativista di Trump. Molto più semplicemente: la maggior parte dei
tradizionali elettori repubblicani ha votato per Trump (e alcuni hanno addirittura votato per la Clinton), mentre milioni di tradizionali elettori democratici – per non parlare di molti elettori di Bernie Sanders – non hanno votato per nulla o hanno votato per candidati alternativi. In diversi cosiddetti “swing states”, infatti, Trump ha vinto grazie ad un margine risicatissimo di circa 100.000 voti.
Questo vuol dire che alla Clinton sarebbe bastato portare alle urne
anche solo l’1% dei circa 100 milioni di aventi diritto al voto che si
sono astenuti.


Tra i bianchi, Trump ha racimolato solo l’1% dei voti in più rispetto a Romney nel 2012, mentre gli scaglioni di reddito sotto i trentamila e cinquantamila dollari hanno votato in maggioranza per la Clinton, nonostante un aumento di 16 punti percentuale a favore dei repubblicani per lo scaglione più basso. Anche nella cosiddetta “rust belt”
– la regione che un tempo fu culla dell’industria pesante americana e
che oggi registra tassi di disoccupazione e di emarginazione sociale
altissimi – Trump ha raccolto solo circa 300,000 dei voti della (ex) working class bianca (la presunta protagonista di queste elezioni, a detta dei media). La Clinton, d’altro canto, ne ha persi all’incirca 1,5 milioni rispetto ad Obama. Come ha commentato Nate Cohn sul New York Times:
«La Clinton ha subito le sue sconfitte più pesanti nei luoghi dove
Obama era andato meglio tra l’elettorato bianco. Non è una semplice
storia di razzismo».

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Ma c’è di più: sebbene afroamericani, latinos e asiatici
abbiano votato in maggioranza per la Clinton, rispetto al 2012
assistiamo a una crescita dei voti delle ultime due etnie a favore dei
repubblicani dell’8 e 11%, e a un aumento di ben 8 punti percentuale del
voto afroamericano pro-repubblicano, col risultato che Trump ha
raccolto l’8% del voto afroamericano e il 29% del voto dei latinos e
degli asiatici. Un dato sorprendente alla luce della retorica
apertamente razzista – soprattutto anti-messicana – di Trump.
Altrettanto sorprendente il voto femminile, dove la Clinton ha
rastrellato solo un punto percentuale in più rispetto ad Obama nel 2012:
a dispetto, anche in questo caso, delle numerose uscite sessiste del
candidato repubblicano.


La domanda, dunque, non è tanto perché Trump abbia vinto, ma
come abbia fatto la Clinton a perdere rispetto ad un candidato così
impresentabile.

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Un “non voto” di protesta 


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Contrariamente all’opinione dominante – secondo cui la
vittoria di Trump sarebbe da attribuirsi ad una recrudescenza del
razzismo, del nativismo e del nazionalismo negli USA – diversi analisti
hanno invece interpretato la vittoria di Trump come espressione di un
voto di protesta contro le élite, l’establishment e la “vecchia
politica”. In realtà, come abbiamo visto, sarebbe più corretto parlare
di un “non voto” di protesta, poiché è stato l’astensionismo degli
elettori (soprattutto democratici) a consegnare la vittoria a Trump. Il
risultato, comunque, non cambia: fatto sta che milioni di elettori hanno
ritenuto che la Clinton fosse semplicemente ineleggibile. La cosa non
dovrebbe sorprendere. Diversi mesi prima delle elezioni, Michael Moore –
uno dei pochi ad aver previsto l’elezione di Trump – scriveva:


Accettiamo la realtà dei fatti: il nostro problema
principale non è Trump, è Hillary. È incredibilmente impopolare: quasi
il 70% degli elettori pensa che sia disonesta e inaffidabile.
Rappresentante della vecchia politica, che non crede a niente se non
alle cose utili a farsi eleggere… Nessun democratico, e di certo nessun
indipendente, si sveglierà l’8 novembre e vorrà precipitarsi a votare
per Hillary, come invece hanno fatto il giorno dell’elezione di Obama o
quando Bernie ha corso per le primarie.


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E così è stato. Come ha commentato Luigi Zingales sul Sole 24 Ore:


Il Partito Democratico ha sbagliato anche perché ha
scelto un candidato sordo alla sofferenza dell’americano medio, un
candidato che non “sentiva la bruciatura” (“feel the Bern”), come
recitava lo slogan inventato con un gioco di parole da Sanders (Bern è
il suo diminutivo e “burn” è il termine inglese per bruciatura).
Dall’alto dei $139 milioni guadagnati negli ultimi 7 anni, dall’alto del
favoloso banchetto di nozze della figlia, pagato – secondo WikiLeaks –
dalla Fondazione Clinton, dall’alto dei meeting con i sovrani più
repressivi del mondo, che riversavano soldi nella Fondazione Clinton
nella speranza di avere dei favori, Hillary Clinton non poteva
identificarsi con la pena di quei colletti blu, che lei stessa aveva
definito «deplorevoli». E loro non potevano identificarsi con lei.
Hillary Clinton era il peggior candidato che il Partito Democratico
potesse scegliere in un anno come questo. E questo era chiaro a chiunque
non vivesse solo tra i salotti di New York e i golf di Palm Beach,
leggendo il New York Times e ascoltando CNN, ribattezzata il Clinton
News Network. Il Partito Democratico è rimasto vittima della bolla
mediatica che ha creato e in cui vive. Così facendo non solo si è
autocandidato alla sconfitta, ma ha condannato il mondo intero ad almeno
quattro anni di presidenza Trump.


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Come si è domandato Glen Greenwald:
«Come si faceva a pensare che una candidata che è la personificazione
dell’establishment del potere globalizzato, che letteralmente affoga
personalmente e politicamente nel denaro di Wall Street, potesse avere
un qualche “appeal” elettorale?». E questo senza considerare il voto
della Clinton a favore dell’invasione dell’Iraq, la sua decisione di
invadere la Libia, fino a quella di lasciare senza soccorso
l’ambasciatore americano a Bengasi, il cui cadavere finì trascinato per
le strade della città libica. All’indomani delle elezioni, Robert Reich,
ex ministro nell’amministrazione di Clinton marito, scriveva:


Quello che è successo in America non deve essere visto
come trionfo dell’odio sulla decenza. Va piuttosto inteso come un
ripudio della struttura di potere americana. Al centro di tale struttura
vi sono i leader politici di entrambi i partiti, con i loro operatori
politici e raccoglitori di fondi; i principali mass media, concentrati a
New York e a Washington; le principali corporation del paese, insieme
ai loro dirigenti, lobbisti e associazioni di categoria; le più grandi
banche di Wall Street, insieme ai trader e ai gestori di hedge fund e di
fondi di private equity; ed i ricchi che investono in politica. La
sconfitta di Clinton è ancora più notevole se consideriamo che la sua
campagna è stata molto più presente in televisione e in radio di quella
di Trump. Inoltre, essa non godeva solo del sostegno del Partito
Democratico al completo, ma anche di molti repubblicani di spicco,
inclusa la maggior maggiore parte dei rappresentanti politicamente
attivi di Wall Street e delle più grandi corporation americane, e
persino dell’ex presidente repubblicano George H.W. Bush.


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Proprio per questo molti hanno rimproverato a Bernie Sanders
la «la fallimentare scelta di sponsorizzare come “il minore dei mali”
la donna che gli aveva letteralmente “scippato” – con l’appoggio della
macchina di partito, dei media e delle élite di sistema – la candidatura
democratica all’elezione presidenziale, impedendo a classi medie
impoverite, lavoratori bianchi e migranti, studenti, donne, giovani,
ambientalisti, ecc. di unirsi attorno a un programma e a un leader
politico comuni», come scrive Carlo Formenti:


Solo invitando a votare per i candidati di minoranza o ad
astenersi, avrebbe potuto capitalizzare le energie e le reti
organizzative che si erano aggregate nel corso della campagna, in vista
della costruzione di una terza forza alternativa ai due maggiori
partiti, ormai del tutto intercambiabili e allineati agli interessi del
blocco sociale che domina l’America (e dunque il mondo). Arrendendosi
all’apparato ha indebolito questo patrimonio, senza riuscire peraltro a
impedire la vittoria di Trump, al quale ha letteralmente regalato il
monopolio della rabbia antisistema di un popolo impoverito e frustrato
dalla crisi.


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Tutta colpa del neoliberismo? Quasi 


La rabbia contro l’establishment economico-politico – non
solo in America – affonda le sue radici in un processo trentennale di
trasferimento di ricchezza dal basso verso l’alto. Come ha commentato a caldo Naomi Klein:


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Daranno la colpa a James Comey e all’FBI, alla
soppressione del voto degli elettori neri e al razzismo. Daranno la
colpa a Bernie Sanders, alla misoginia, ai terzi partiti, ai candidati
indipendenti. Daranno la colpa ai grandi media per aver offerto a Trump
una piattaforma, ai social per avergli fatto da megafono e a WikiLeaks
per aver fatto il lavoro sporco. Ma questo ignora la causa principale
dell’incubo ad occhi aperti in cui troviamo oggi: il neoliberismo…C’è
un punto che dobbiamo capire: molte persone stanno soffrendo. Con le
politiche neoliberiste improntante alla deregulation, alla
privatizzazione, all’austerità e a favorire il commercio transnazionale,
i livelli di vita di molte persone sono drammaticamente peggiorati. La
gente ha perso il lavoro. Ha perso la pensione. Ha perso gran parte
delle reti di sicurezza che un tempo rendevano queste perdite meno
spaventose. E il futuro dei loro figli si preannuncia ancora peggiore
del loro precario presente.


Come ha scritto Steen Jakobsen
– capo economista di Saxo Bank e un altro dei pochi ad aver previsto
con sicurezza la sconfitta della Clinton ben otto mesi prima delle
elezioni – l’ascesa di Trump (così come la Brexit, la Le Pen, ecc.) si
spiega con la rottura del “contratto sociale” nelle società occidentali,
sarebbe a dire quell’effettivo o ipotetico accordo tra governanti e
governati che definisce diritti e doveri di ognuno. Dal punto di vista
economico non si tratta certo di una sorpresa: come mostra Jakobsen, il
rapporto delle retribuzioni sul PIL negli Stati Uniti ha raggiunto i
livelli più bassi di sempre.

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Nel frattempo, i profitti societari sono saliti ai massimi storici.



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Tra l’altro, come ha rilevato Robert Reich,
negli ultimi 24 anni i democratici hanno occupato la Casa Bianca per
ben 16 anni, durante i quali sia Bill Clinton che Obama hanno
entusiasticamente favorito rendite e profitti a spese di salari e
occupazione, deregolamentando il settore finanziario e promuovendo
accordi di libero commercio che hanno spazzato via milioni di posti di
lavoro negli USA. Come se non bastasse,
è stato proprio Bill Clinton, con lo smantellamento del sistema del Glass-Steagall Act,
che regolava le attività finanziarie dai tempi del New Deal, ad aver
posto le condizioni per la bolla che poi è deflagrata con la crisi
finanziaria del 2008, e per la “grande recessione” che ne è seguita.


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Il risultato, ha mostrato Vito Lops,
è che oggi, nonostante otto anni di amministrazione Obama (e quindi di
un democratico tendenzialmente preferito dall’elettorato povero rispetto
a un repubblicano) il numero di cittadini americani costretti a
ricorrere ai food stamps (buoni alimentari) è aumentato del 60% rispetto al 2008, arrivando oltre quota 45 milioni.
Tanto che un cittadino su sette è costretto a far ricorso al programma
di sostegno alimentare. Questo, nota Lops, si spiega anche con il fatto
che il tasso di disoccupazione reale negli USA è molto lontano dal 4,9%
che riportano le statistiche ufficiali. Se si conteggiassero gli oltre 90 milioni di cittadini fuori dalla forza lavoro e che sono fuori dal radar del calcolo del tasso di disoccupazione, questo sarebbe oggi al 23%. Una conseguenza
anche delle politiche monetarie adottate in seguito alla crisi, i cui
benefici sono andati perlopiù all’1%, e soprattutto allo 0,01%, più
ricco della popolazione (lo stesso vale per l’Europa).


In definitiva, la spiegazione della vittoria di Trump non va
ricercata nel razzismo connaturato degli elettori bianchi o
nell’idiozia degli elettori in generale, ma in quello che Federico
Rampini, in un sorprendente mea culpa, ha definito “il tradimento delle élite”:


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Il tradimento delle élite è avvenuto quando abbiamo
creduto al mantra della globalizzazione, abbiamo teorizzato e
propagandato i benefici delle frontiere aperte: e questi per la maggior
parte non si sono realizzati. Quando abbiamo continuato a recitare
un’astratta retorica europeista mentre per milioni di persone l’euro e
l’austerity erano sinonimi di un grande fallimento…Il tradimento delle
élite si è consumato quando abbiamo difeso a oltranza ogni forma di
immigrazione, senza vedere l’enorme minaccia che stava maturando dentro
il mondo islamico, un’ostilità implacabile ai nostri sistemi di valori…Il pensiero politically correct, dominante fra i tecnocrati, le élite e
tanta parte della sinistra di governo, ha continuato a recitare la sua
devozione a tutto ciò che è sovranazionale. Tutto ciò che unisce al di
là delle frontiere è stato considerato positivo per definizione:
trattati di libero scambio, organizzazioni multilaterali…Alle paure di
un’opinione pubblica angosciata dalla stagnazione economica e dal
terrorismo, l’establishment globalista e ottimista ha risposto recitando
a oltranza la stessa fiaba a lieto fine: «E dopo avere abbattuto le
frontiere vissero per sempre felici e contenti»…Se ormai ci credono in
pochi, la colpa non è di Putin. Più in generale, per molti decenni
abbiamo raccontato che in questo mondo sempre più connesso lo
Stato-nazione è superato; e quindi, implicitamente, lo stesso esercizio
della sovranità popolare che aveva fondato la democrazia su basi
nazionali viene condizionato e limitato da forze superiori. Salvo
scoprire che queste “forze superiori” non sono né oggettive né naturali;
producono risultati che avvantaggiano pochi, sempre gli stessi. Come
stupirsi, allora, se una parte di noi perde fiducia nella democrazia
stessa?


Già, come stupirsi?

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