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di Leni Remedios.
LONDRA (Regno Unito) – Una cartolina sulla porta del frigo, appoggiata sopra un mobile, appuntata sulla bacheca di sughero. La luce del tramonto abbraccia i profili taglienti. ‘Saluti da Londra’. Ma non è il London Bridge quello che si staglia sull’orizzonte, n l’austera figura di Westminster lambita dal Tamigi. Non è nemmeno il Big Ben che accompagna i sogni dei bambini freschi della versione Disney di Peter Pan.
‘A tomb in the sky’. La cartolina dall’Inferno ci consegna, nelle buche delle lettere dell’immaginario di ognuno, una tomba nel cielo: la carcassa vuota e fumante di Grenfell Tower. Una macchia incancellabile nello skyline londinese, il perturbante della coscienza politica britannica e oltre: sullo sfondo, al di là della tomba di 23 piani, un paese già bruciato nell’anima da sette anni di austerity e di speculazioni affaristiche, sfiancato da attacchi terroristici in serie che hanno lasciato solo domande e tanta rabbia. Un paese però che nonostante tutto non si arrende e ha fame di cambiamento. A guardar bene, sul fondo della cartolina c’è scritto: ‘We won’t give up’.
Il prima, il durante e la gestione del dopo disastro sono tutti rivelatori del momento politico e sociale che il paese sta attraversando. Un momento cruciale. Un punto di non ritorno.
Quando il disastro di Grenfell accadde, il 14 giugno, a mano a mano che le informazioni arrivavano, capii subito che non si trattava di un tragico incidente. I social media riportarono presto come alcuni residenti, nel passato, avessero ricevuto minacce per il mero fatto di aver segnalato la mancanza di misure di sicurezza adeguate. Poi si venne a sapere del rivestimento, causa della straordinaria velocità di propagazione dell’incendio. Rivestire la struttura con pannelli non infiammabili sarebbe costato 2 sterline in più al metro quadro. Non che i soldi non fossero stati stanziati. L’operazione di ‘rigenerazione urbana’ – così come la chiamavano localmente – ha coinvolto una galassia di ditte appaltatrici, che hanno intascato migliaia di sterline, non le briciole. Ma per le quali, probabilmente, l’importante era fornire un’estetica decente ad un condominio comunale che si ergeva nel cuore del distretto più ‘in’ di Londra, in una delle città più ricche del mondo.
L’importante era accontentare l’occhio delicato degli abbienti, non fornire un ambiente protetto a chi nel condominio ci viveva. L’importante era ‘rivestire la povertà, fare in modo non che le cose vadano meglio, ma che sembrino andare meglio’ parole amare ma vere, che tocca sentire da un comico, Jonathan Pie.
Il termometro del clima sociale dice che in Gran Bretagna non si beve più la favola dell’austerity come necessità. L’austerity è una scelta, non una necessità. Una scelta veicolata da interessi precisi ed anche da idee precise, da etiche condivise da determinati gruppi. Che magari non provocano direttamente tragedie come questa, ma permettono il crearsi delle condizioni adatte perché tragedie simili accadano, soprattutto se intrecciate a cinismo, speculazioni e corruzioni belle e buone.
Come ha osservato il documentarista Ishmail Blagrove, residente in Kensington Chelsea e coordinatore del movimento Justice 4 Grenfell: ‘Non si tratta di un incendio domestico: si tratta bens di un catalogo di fallimenti sistemici. Non un caso di negligenza, ma un omicidio colposo aziendale’.
Grenfell Tower è il pugno nell’occhio visibile a chiunque: sbatte sotto gli occhi di tutti – anche coloro che non vogliono vedere – quello che immediatamente visibile non è.
S, era un disastro annunciato, con i pannelli infiammabili a coprirne la struttura esterna, con tutte le più elementari misure di sicurezza assenti. Ma è stato Grenfell come poteva essere qualsiasi altra cosa. Nello sfondo che attornia la torre della cartolina, lacerato dai tagli ai servizi, i disastri annunciati sono ovunque e potrebbero attivarsi in un qualsiasi momento. In un ospedale male attrezzato, in un quartiere senza adeguate forze di polizia, in una scuola sovraffollata. Senza contare che condomini simili si contano a dozzine nel paese, con le stesse misure di sicurezza inadeguate e in taluni casi con gli stessi rivestimenti infiammabili.
E senza contare i disastri silenziosi, quelli che si insinuano nel tessuto sociale, costanti nel tempo come gocce di arsenico da una flebo. Il cinismo e l’affarismo che stan dietro la tragedia di Grenfell sono lo stesso cinismo e lo stesso affarismo che stan dietro ai tagli alla sanità pubblica, alle forze di polizia, ai pompieri, ai benefits per i disabili. È la stessa mano fredda che ha firmato la notifica di ‘adatto al lavoro’ a centinaia di persone morte poche settimane dopo (vedi QUI). Quel che non fa il fuoco in poche ore lo fanno i tagli allo stato sociale in anni.
Ma torniamo al variopinto mosaico sociale rappresentato da Grenfell Tower, quello che i ricchi residenti di Kensington non vogliono vedere.
Una comunità simbolo di una società contemporanea in rapida crescita, in costante evoluzione. Soggetti, individui, persone che non possono e non vogliono più farsi ingabbiare dalle comode etichette che qualcuno – dai politici ai commentatori ai media mainstream – appiccica loro, vuoi per pigrizia mentale, ignoranza o intenzionale malafede: non si tratta di un ‘sottoproletariato urbano’ lontano da noi, nemmeno di un mix etnico-razziale-religioso esplosivo di soggetti che si guardano in cagnesco, magari privi di istruzione. Questo è quel che ci vuole dipingere una certa narrazione mediatica, attingendo adun immaginario collettivo fermo a 10, forse anche 30 o 40 anni fa che tanto comodo fa a chi scrive lo script dell’agenda politica attuale.
La torre radunava i componenti di una comunità interclassista ed interculturale che comprende tutto l’intervallo degli strati sociali e in taluni casi dei drammi globali.
Individui che per diversa storia, retroterra, aspirazioni si sono trovati a condividere lo stesso tetto, nello stesso angolo di mondo: Grenfell è il rifugiato siriano, è la fotografa britannica di origine gambese che espone alla Biennale di Venezia, è la giovane coppia di architetti italiani, cervelli in fuga ‘da un paese che manda via i giovani’ (parole del padre di Gloria Trevisan).
Era famiglie iraniane con bambini.
Grenfell Tower è tutti noi. Le élites che guidano Londra e il pianeta hanno fatto del loro meglio negli ultimi anni per seminare divisione, pregiudizio, sospetto reciproco all’interno di comunità come queste e non solo. Ma con loro grande sorpresa, l’incendio di Grenfell non solo ha fatto ‘calare la maschera’ sulle loro malefatte, come ha commentato la parlamentare laburista Emma Dent Coad. Non ha portato alla luce solo l’avidità ed il cinismo di questa classe politica. Ha anche portato alla luce una comunità coesa, unita non solo nella solidarietà dell’urgenza, ma anche nella reazione compatta all’immediata risposta politica: questo le élites che guidano Londra e il mondo non se l’aspettavano o fingevano di non essersene accorti. Ora lo sanno, lo sanno bene.
La visita di Theresa May al sito, fischiata dai residenti che non ha voluto incontrare, dice tutto. Un’accoglienza molto differente da quella riservata al leader dell’opposizione laburista Jeremy Corbyn. Loro – che sono anche elettori – non dimenticano. Oltre alle omissioni già citate, non dimenticano per esempio che proprio l’anno scorso un emendamento presentato in parlamento dal Labour per garantire condizioni di abitabilità sicure alle abitazioni, fu rigettato da 72 parlamentari tory, tutti possessori di immobili, fra i quali l’ex premier David Cameron (vedi QUI). È chiaro che d’ora in poi qualsiasi legislazione in merito sarà scrutinata per bene dall’elettorato.
Qualcuno ha criticato i tentativi di portare il dibattito post-Grenfell sul piano politico, osservando che non si può politicizzare una tragedia. Ma laddove la responsabilità sono direttamente politiche, perché la risposta dovrebbe essere da meno?
Un paese segnato dalla macelleria sociale degli ultimi anni e dagli attacchi terroristici degli ultimi mesi mostra di avere una fetta piutttosto consistente di popolazione ‘immune alla narrazione dei mass media’, come di nuovo Blagrove osserva.
Questo è il cuore pulsante che ancora batte e continuerà a battere fra le macerie nere di Grenfell Tower.
Per questo si può dire che ‘la tomba nel cielo’ segna nel territorio un momento al tempo stesso deprimente ed elettrizzante nello scenario politico-sociale britannico, che potrebbe fare da esempio su scala più vasta, globale.
La comunità dei sopravvissuti di Grenfell Towers e di tutti coloro che vivono nel quartiere di Kensington-Chelsea esprime in soldoni una fetta sempre più crescente della popolazione britannica che non solo ha le tasche piene dell’austerity, ma ha fame di cambiamento e – cosa importantissima, che nessun commentatore politico dovrebbe sottovalutare – si sente finalmente politicamente rappresentata.
Questo è ciò che fa la netta differenza rispetto a soli due anni fa. Senza una rappresentanza politica vera quel sentimento potrebbe facilmente degenerare in riots, in rivolte popolari violente facilmente infiltrabili o in qualche modo manipolabili e così liquidate in poco tempo. Se incanalato in modo giusto, invece, il rischio di ‘civil unrest’ richiamato dal parlamentare David Lammy, ovvero il rischio di sommosse civili, può seguire un percorso di giustizia costruttivo.
Si è andati molto vicini alla prima ipotesi. Ma la comunità locale ha mostrato una straordinaria dignità e compostezza e ha perseguito la seconda strada: per esempio esercitando continue pressioni verso un’inchiesta giudiziaria piuttosto che un’inchiesta governativa, dove giudicante e giudicato sono lo stesso soggetto. O portando a casa importanti risultati, come le dimissioni del leader conservatore del Consiglio comunale, Nicholas Paget-Brown.
Questa è l’unica via per andare avanti, come osserva l’ottimo giornalista del Guardian George Monbiot.
Inoltre ci sono stati incontri in parlamento dove volontari hanno illustrato le condizioni deplorevoli dei sopravvissuti. Qui vale la pena illustrare un episodio clamoroso, interessante anche dal punto di vista mediatico, oltre che per la sostanza: una volontaria, operatrice dell’NHS (il sistema sanitario nazionale) – è stata ripresa da un telefonino cellulare mentre denunciava le condizioni in cui sono trattati i sopravvissuti e i sequestri delle donazioni da parte della Croce Rossa. Il video naturalmente non è mai andato in onda nei media mainstream. Sui social network è stato visto in tutto il mondo da più di 6 milioni di persone. Internet – quella Internet che Theresa May vuole ancora più controllata, per non dire censurata – ha fatto e sta facendo ancora la parte del leone, dopo averla fatta durante la campagna elettorale.
È chiaro intanto che il governo sta facendo di tutto per spingere verso il conflitto manipolando l’esasperazione e le divisioni sociali. In questo rientra anche la gestione del ‘ricollocamento’ delle famiglie dei sopravvissuti, a cui prima è stata promessa una sistemazione in loco, poi a miglia di distanza a Birmingham, poi in un residence di lusso in via di ristrutturazione nello stesso quartiere, scatenando l’ira dei ricchi del posto, più preoccupati dalla svalutazione degli immobili che interessati ad offrire solidarietà ai sopravvissuti (‘sarebbe come aprire una lattina di vermi nel mercato edilizio’, vedi QUI).
Infine sono stati offerti immobili in condizioni a dir poco inadatte, si parla addirittura di edifici in via di demolizione, come denunciato da Emma Dent Coad.
Ma questo non è stato granché riportato dai mass media. Perché – ora come prima – la narrazione deve essere divisoria, mettere gli uni contro gli altri, dipingere i sopravvissuti come ‘ingrati’, mentre il governo si bea di aver fornito una soluzione nei tempi previsti, si tira fuori e cerca di chiudere il prima possibile questa imbarazzante vicenda, come dimostrato anche dal balletto delle cifre sui morti.
Il già citato David Lammy ha esplicitato pubblicamente quello che sono in molti a pensare: il numero vero dei morti è stato insabbiato per evitare un’insurrezione popolare. La polizia di Londra aveva dapprima annunciato che ci sarebbero voluti mesi per avere un quadro definitivo. Per poi smentirsi due giorni fa, fornendo per la prima volta dati precisi: nella torre vivevano 350 persone, 250 sono riuscite a fuggire, almeno 80 i morti accertati. Ma i residenti locali avevano subito fatto i conti da soli.
Erano quasi 600 ad abitare il palazzone, tenendo presente i risaputi inquilini in subaffitto al nero di cui parla persino la polizia. Dove sono finiti quindi tutti gli altri ‘desaparecidos’? Svaniti nel vento di Kensington?
Intanto non svaniranno presto, nella memoria di chi resta, i nomi ed i volti di Khadija Saye, di Gloria Trevisan e Marco Gottardi, di Mohammad Alhajal, Deborah Lamprell e di molti altri. Risuoneranno presto nell’autunno caldo che aspetta la Gran Bretagna.