di Alessandro Gilioli
Avrete notato, credo, i segnali con cui le istituzioni europee e la Troika stanno reagendo al dopo-elezioni italiano. Forse vale la pena di soffermarsi sul tema, perché per il futuro di questo Paese la questione è un po’ più rilevante dell’autobus di Fico o della spartizione dei questori parlamentari.
Pierre Moscovici (commissario Ue all’economia) ha detto che a Bruxelles sono «estremamente calmi, prudenti e rispettosi del ritmo democratico italiano» ma «è importante che l’Italia resti quel grande Paese che è in Europa e impegnato nell’Eurozona, rispettando pienamente le regole».
Jean-Claude Junker da una settimana tace, dopo essersi tuttavia lasciato sfuggire una frase sibillina e minacciosa: «L’Italia è l’Italia. È una vecchia democrazia e altri decisori troveranno una soluzione per quella che non è ancora una crisi».
La Bce ha messo in guardia da qualsiasi ipotesi di mitigare la legge Fornero: anzi, chiede un’ulteriore stretta sulla reversibilità e per gli autonomi.
Lagarde (Fmi) ha proposto un fondo anti crisi, che in teoria dovrebbe aiutare i paesi Ue più fragili, quelli in cui la ripresa balbetta come il nostro.
Si è rifatto vivo perfino Monti – anche se dubito fosse mancato molto in giro.
Non credo che tutti questi cosiddetti “poteri forti” siano una paurosa Spectre onnipotente, ma qualcosa (parecchio) contano; e qualsiasi governo si stabilisca in Italia dovrà farci i conti.
È vero però anche l’opposto: per la prima volta Bruxelles, Francoforte, Berlino e il Fmi dovranno fare i conti non con Paesi marginali come Grecia e Portogallo, ma con una delle prime tre economie dell’Eurozona, nonché con uno dei Paesi fondatori dell’Unione.
Con Tsipras sappiamo com’è andata: un braccio di ferro lungo alcuni mesi, poi Atene ha dovuto adeguarsi. La Grecia era (è) poca cosa, economicamente, piegarla non è stata difficile. E tutti gli altri l’hanno lasciata sola.
Con il Portogallo non c’è stato neppure bisogno di un braccio di ferro: un governo di sinistra ma meno radicale di quello greco ha cercato fin dall’inizio un compromesso – proprio dopo aver visto cos’era successo in Grecia – trovando mediazioni che finora sembrano funzionare.
Adesso però c’è l’Italia, che appunto conta molto di più, anche se noi ne abbiamo poca contezza per la storica carenza di autostima che ci caratterizza.
A urne ancora calde, gli osservatori più vicini a Bruxelles hanno sperato in una partecipazione del Pd a un governo Cinque Stelle o anche a un governo di destra (Fi-Lega). Il motivo è semplice: in quei salotti e in quei centri studi si pensa che la presenza del Pd darebbe maggiore stabilità all’esecutivo, ma soprattutto attenuerebbe le richieste italiane e i conflitti con Roma.
L’idea è insomma “tsiprasizzare” Di Maio o Salvini: rendere cioè il futuro governo più pragmatico, realistico, flessibile.
Allo stato delle cose, lo scenario in questione non sembra tuttavia di facile praticabilità.
Per quanto riguarda una possibile alleanza Pd-M5S (magari con dentro anche Leu), Renzi controlla quasi fisicamente un numero di senatori piddini sufficiente da renderla quasi impossibile.
Un po’ più ipotizzabile è forse una maggioranza che invece tenga dentro tutti escludendo solo M5S, Fratelli d’Italia e Leu. Sarebbe numericamente stabile, ma politicamente fragile: la Lega dovrebbe giustificare con i suoi elettori l’accordo con l’odiato Pd, il Pd dovrebbe spiegare ai suoi un’alleanza innaturale come quella con la Lega, mai osata neppure negli accordi larghi delle scorse legislature.
È tuttavia possibile che Mattarella ci provi, nei prossimi giorni. Provi cioè a fare uscire il Pd dal suo attuale isolamento, a coinvolgerlo in una qualche maggioranza, anche perché questa sarebbe appunto la soluzione più gradita alle cancellerie europee, alla Bce, alla Troika, a Berlino.
Un intervento del Quirinale ha sempre il suo peso, nel Pd c’è già qualcuno che lo aspetta come un assist, insomma vedremo.
Resta comunque – e non solo in Italia – la questione di fondo. Cioè un’Europa che si mette di traverso ai criticabili ma legittimi desiderata delle democrazie, dei cittadini che votano.
Si è visto – e con quale violenza – in Grecia.
Si potrebbe vedere anche adesso in Italia: dove la maggioranza dei cittadini ha votato forze che chiedono una mitigazione (almeno) della legge Fornero e qualche forma molto ampia di reddito per la valanga di esseri umani ai quali è preclusa la possibilità di un’occupazione decente e continuativa.
Questo implica una redistribuzione molto radicale della spesa pubblica e, secondo alcuni, anche un suo aumento a debito, secondo teorie economiche che possono non piacere ma non sono improvvisate, anzi hanno almeno un secolo di storia.
Entrambe le cose – redistribuzione e aumento della spesa pubblica – hanno trovato finora nelle istituzioni europee un muro. Questo muro è quello che ha provocato per reazione i contro-muri: sovranismi, neonazionalismi, antieuropeismi.
Ecco, ho l’impressione che con il “caso-Italia” l’Europa si troverà un po’ costretta a decidere cosa fare da grande. Cioè se mettere in discussione quel muro o destinarsi all’estinzione, all’implosione.
Ah, a proposito: per l’Europa tra un anno si vota.
Mi auguro che si capisca fin d’ora che quel voto – tra un anno – per la prima volta può risultare più importante di quello per le elezioni nazionali che l’ha appena preceduto.
(29 marzo 2018)
Link articolo: Italia ed Europa, 2018-2019