La Fabbrica di San Pietro

Forse noi siamo il risultato di una nuova fluidità mentale adattativa come pensa Steven Mithen, eppure non abbiamo fatto altro negli ultimi secoli che sviluppare cappelle (e cappellate). [P. Fagan]

La Fabbrica di San Pietro
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18 Gennaio 2019 - 13.30


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di Pierluigi Fagan
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La mappa che vedete è della Basilica di San Pietro, modello di cattedrale. La Basilica venne costruita lungo il tempo e continuamente ritoccata, arredata e corredata.

L’archeologo Steven Mithen nel suo “Prehistory of mind”, tenta di ricostruire l’evoluzione della mente umana ovvero i suoi due milioni e mezzo di anni. Prendendo a metafora proprio la cattedrale come concetto in generale, Mithen ipotizza un movimento evolutivo che, partendo da una mente limitata e generalista quale quella delle altre scimmie antropomorfe, si è poi evoluta per cappelle, ovvero per specifiche specializzazioni intellettive. Il grande balzo in avanti rappresentato dalla nostra sotto-specie sapiens-sapiens, si sarebbe registrato quando – secondo lui, attraverso l’emergenza linguistica sofisticata –, si sono meglio collegate le cappelle alla navata centrale dell’intelligenza generale, rendendo l’intero apparato pienamente fluido.

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Questa ri-architettura funzionale, si è accompagnata alla nota progressione dei volumi cerebrali che dai 600 cc. del primo Homo (habilis, circa 2,5 milioni di af), è arrivata con noi a gli attuali 1300-1400 cc. Così come piccole cappelle di campagna medioevali, nel tempo, a furia di aprire annessi laterali, son poi diventate vere e proprie cattedrali. Solo che per Mithen, questo raccordo tra il principale ed il laterale, è avvenuto solo da un certo punto in poi. L’ipotesi media due impostazioni storiche delle scienze cognitive e della psicologia evolutiva, quella appunto generalista e quella modulare. Ma si potrebbe salire di grado concettuale ed arrivare alla dicotomia generale-particolare, croce e delizia del pensiero umano dal concetto di dialettica in Platone alla estenuante diatriba su gli universali della Scolastica medioevale.

Marx ebbe, a suo tempo e con le limitate conoscenze del tempo, una intuizione. Secondo una ancora elementare ma ben precisa idea di antropologia generale, Marx pensava noi si fosse un animale generalista, fondamentalmente a-specializzato. In effetti, la comparazione fisiologica tra noi e qualsivoglia animale, mostra l’incredibile rapporto tra un evidente e clamoroso successo adattivo e la mancanza di pelo, corazza, rostri, artigli, corna, zanne, muscoli potenti, canini affilati a sciabola, ali, pinne, ed ogni altro supporto biologico se non la mente.

Queste mente, in ambito di cultura occidentale dominante cioè anglosassone, è periodicamente pensata come collezione di moduli specializzati, da Fodor a Chomsky, da quando poi ci siamo messi a specchiarci nei computer non se ne esce. Questa continua ode alla specializzazione riflette la forma sociale che si basa sulla divisione del lavoro. A.Smith, che era un filosofo morale e non un povero economista (quindi era un generalista non uno specializzato), notava già nel 1776 che la specializzazione porta grandi vantaggi all’impresa collettiva ma aliena l’individuo da sé, tant’è che consigliava di tassare fortemente i più ricchi per pagare scuole in cui i poveri alienati produttivi potessero andare a ritemprarsi con un po’ di visione generale delle cose. Anche perché non erano solo lavoratori ma anche cittadini ed alienati non avrebbero potuto partecipare all’evoluzione generale della società politica. Platone, padre dei modulari, delle élite e dell’episteme opposto alla doxa, faceva discutere la questione dell’arte politica a Socrate e Protagora nell’omonimo dialogo, concludendone che la democrazia è la dittatura degli ignoranti.

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Lungo la linea che va da Rousseau a Fichte, da Schelling ad Hegel, da Feuerbach a Marx, si cavalcò questo concetto di separazione del sé da se stesso in vari altri modi.
Trasferendoci in applicazione di queste idee all’ambito della conoscenza umana, si nota come gli ultimi decenni o forse secoli, hanno unilateralmente sviluppato anfratti in nicchie di cappelle secondarie aperte da primarie. Ognuno sa sempre più precisamente qualcosa di un coriandolo specifico, nessuno sa più nulla in generale. Ciò fa perdere anche un sacco di tempo poiché, visto che la mente umana che conosce è sempre quella, in ogni disciplina si possono incontrare teorie che benché nominate diversamente e diversamente rifinite, provengono da alcuni meccanismi logici che sono sempre gli stessi. Internalisti ed esternalisti, gradualisti e saltazionisti, unisti e molteplicisti, fissità e divenire, oggettivisti e soggettivisti, fideisti e dubitabondi, dogmatici ed aperturisti, olisti e riduzionisti si declinano qui e lì, in varie versioni, replicando una commedia dell’arte cognitiva in una serie di pièce che vanno avanti da secoli in una sorta di dialettica degli opposti che deve pur avere una sua utilità visto che ci appassiona tanto.

La navata principale della cattedrale è però, ultimamente, poco frequentata. In effetti, è almeno dai due grandi greci Platone ed Aristotele o meglio dal’impostazione delle loro scuole l’Accademia ed il Liceo, che nessuno prova più a pensare più la cosa tutt’assieme. Certo, per loro era relativamente facile dato lo scarso approfondimento delle singole visioni specializzate. Platone riduceva il sapere empirico alla geometria e sovra ordinava con la metafisica, Aristotele scrisse pare il sessanta-per-cento di opere sulla biologia e si dette un po’ più da fare ad indagare il reale ma poi anche lui (pare, non è certo) ricondusse tutto in alto al motore immobile.

Dopo, per mille anni, la cosa tutt’assieme venne data in braccio a Dio e ci si fidò della sua Provvidenza. Da quando la Provvidenza dette cattiva prova (1350) iniziò un lento movimento che portò – via piccola parentesi di certo Rinascimento fiorentino – alla società ordinata economicamente, cioè dal mercato, cioè dalla mano invisibile che è una provvidenza che amalgama il principio di auto-organizzazione col teismo. L’ultimo che ci provò a pensare la cosa tutt’assieme fu Hegel ma la sua versione di Enciclopedia della scienze filosofiche, fu un tentativo sfortunato per varie ragioni che qui non possiamo indagare.

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Niente, mi piaceva sottolineare questo fatto. Forse noi siamo il risultato di una nuova fluidità mentale adattativa come pensa Mithen, eppure non abbiamo fatto altro negli ultimi secoli che sviluppare cappelle (e cappellate). Sembrerebbe l’ora che qualcuno -oltre ai massoni- tornasse a ripensare navate, rotte, cibernauti tutt’assieme, altrimenti vedo l’adattamento all’era complessa molto improbabile.

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