di Pino Cabras.
I No Pax ieri hanno squillato le trombe. La nuova iniziativa della Commissione europea sulla “protezione della democrazia e del processo elettorale” parla il linguaggio levigato delle burocrazie orwelliane del XXI secolo, ma l’odore è quello di un vecchio manuale di sorveglianza politica. L’UE dice di voler usare il suo Scudo per la Democrazia per difendere lo spazio pubblico da “manipolazioni”, “interferenze” e “campagne ostili”, ma lo strumento concreto che costruisce è un sistema di amministrazione del pensiero che separa l’informazione “affidabile” da quella sotto sospetto, come se la democrazia fosse una serra da custodire con pesticidi e controllori. È l’anticamera di un mondo in cui il dissenso sarà tollerato solo se filologico e ornamentale, mai se sostanziale. Il problema non è tanto l’intenzione dichiarata, quanto semmai il dispositivo che la sorregge. Quando un potere politico decide chi è disinformatore e chi è “resiliente”, chi è manipolato e chi è virtuoso, quando le definizioni sono ampie e gommose e si legano a un tema incandescente come la guerra in Ucraina, inevitabilmente si apre lo spazio per l’abuso.
L’UE non introduce censura per decreto: introduce 𝘂𝗻 𝗮𝗽𝗽𝗮𝗿𝗮𝘁𝗼 𝗰𝗵𝗲 ‘𝗽𝗿𝗲𝗽𝗮𝗿𝗮’ 𝗹𝗮 𝗰𝗲𝗻𝘀𝘂𝗿𝗮, 𝗰𝗵𝗲 𝗹𝗮 𝗻𝗼𝗿𝗺𝗮𝗹𝗶𝘇𝘇𝗮, che la rende un fatto amministrativo invece che politico. È la logica del “noi proteggeremo la vostra democrazia da voi stessi”, che ogni sistema di potere ama ripetere quando comincia a dubitare della propria legittimità. Il secondo pilastro, ancora più insidioso, è quello del 𝗳𝗶𝗻𝗮𝗻𝘇𝗶𝗮𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗱𝗶𝗿𝗲𝘁𝘁𝗼 𝗮𝗶 𝗺𝗲𝗱𝗶𝗮 e alle organizzazioni della cosiddetta società civile. Già oggi, in Italia e in Europa, intere testate sopravvivono quasi esclusivamente grazie a fondi pubblici, a programmi europei, a bandi che premiano chi sposa una certa visione del mondo: europeista, atlantista, “valoriale”, conformata ai codici della nuova ortodossia. È 𝘂𝗻 𝗺𝗼𝗱𝗲𝗹𝗹𝗼 𝗰𝗵𝗲 𝗻𝗼𝗻 𝗰𝗲𝗻𝘀𝘂𝗿𝗮 𝗰𝗼𝗻 𝗶𝗹 𝗺𝗮𝗻𝗴𝗮𝗻𝗲𝗹𝗹𝗼, 𝗺𝗮 𝗰𝗼𝗻 𝗹𝗮 𝘀𝗼𝘃𝘃𝗲𝗻𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲. Il giornale che vive di fondi europei non ha bisogno di essere zittito: si zittisce da solo. Il giornalismo che dovrebbe controllare il potere diventa un suo dipartimento esterno. Questo meccanismo, inserito dentro il nuovo pacchetto sulla “resilienza democratica”, rischia di trasformare la stampa in una cinghia di trasmissione delle narrazioni ufficiali, con un effetto di “corruzione legalizzata” che mina alla radice il pluralismo.
𝗜𝗻 𝗨𝗰𝗿𝗮𝗶𝗻𝗮 𝘀𝗼𝗻𝗼 𝗯𝗮𝘀𝘁𝗮𝘁𝗶 𝗽𝗼𝗰𝗵𝗶 𝗮𝗻𝗻𝗶 𝗱𝗶 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗮 𝗰𝘂𝗿𝗮 𝗽𝗲𝗿 𝗰𝗼𝗻𝘀𝗲𝗴𝗻𝗮𝗿𝗲 𝗱𝗲𝗰𝗶𝗻𝗲 𝗱𝗶 𝗺𝗶𝗹𝗶𝗼𝗻𝗶 𝗱𝗶 𝗽𝗲𝗿𝘀𝗼𝗻𝗲 𝗮𝗹 𝗱𝗶𝘀𝗮𝘀𝘁𝗿𝗼. La scala è ora continentale, e molte lingue redazionali sono già rodate da anni di sudditanza. Il punto, qui, non è ideologico: è costituzionale. L’𝗮𝗿𝘁𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼 𝟮𝟭 della Carta italiana protegge la libertà di manifestazione del pensiero senza limiti preventivi e senza che esista un’autorità che stabilisca quali opinioni siano “affidabili” o quali fonti meritino cittadinanza nello spazio pubblico. L’𝗮𝗿𝘁𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼 𝟰𝟵 tutela la partecipazione politica, che ha senso solo in un contesto di informazione non filtrata dal potere, mentre l’𝗮𝗿𝘁𝗶𝗰𝗼𝗹𝗼 𝟵𝟴 richiede alla pubblica amministrazione imparzialità e non adesione a narrative precostruite.
𝗤𝘂𝗮𝗻𝗱𝗼 𝗶𝗹 𝗽𝗼𝘁𝗲𝗿𝗲 𝗽𝗼𝗹𝗶𝘁𝗶𝗰𝗼–𝗮𝗺𝗺𝗶𝗻𝗶𝘀𝘁𝗿𝗮𝘁𝗶𝘃𝗼 𝗱𝗲𝗳𝗶𝗻𝗶𝘀𝗰𝗲 𝗹’𝗼𝗿𝘁𝗼𝗱𝗼𝘀𝘀𝗶𝗮 𝗲 𝗮𝗹 𝘁𝗲𝗺𝗽𝗼 𝘀𝘁𝗲𝘀𝘀𝗼 𝗳𝗶𝗻𝗮𝗻𝘇𝗶𝗮 𝗴𝗹𝗶 𝗮𝘁𝘁𝗼𝗿𝗶 𝗱𝗲𝗽𝘂𝘁𝗮𝘁𝗶 𝗮 𝗱𝗶𝗳𝗳𝗼𝗻𝗱𝗲𝗿𝗹𝗮, si crea un corto circuito che la Costituzione non contempla e che avrebbe fatto rabbrividire i padri costituenti.
Tutto questo avviene mentre l’Europa si avvita in una spirale di 𝗿𝗶𝗮𝗿𝗺𝗼 𝗰𝗼𝗹𝗼𝘀𝘀𝗮𝗹𝗲, e prepara le opinioni pubbliche all’idea che il nemico sia ovunque: nelle piazze, nelle periferie del web, nelle parole che non si allineano. La chiamano sicurezza, solo che somiglia sempre di più a un nuovo 𝗺𝗮𝗰𝗰𝗮𝗿𝘁𝗶𝘀𝗺𝗼 d’ordinanza, alimentato da figure che hanno fatto della russofobia una professione, da Pina Picierno a Carlo Calenda, che non a caso adesso ci vengono proposti in tutte le salse dagli algoritmi social, laddove in piazza riescono a portare appena pochissimi sfigati, come ieri a Torino quei sedicenti “liberali” che volevano tappare la bocca agli studiosi di Gobetti e Gramsci.
𝗟𝗮 𝗿𝗲𝘁𝗼𝗿𝗶𝗰𝗮 𝗲̀ 𝘀𝗲𝗺𝗽𝗿𝗲 𝗹𝗮 𝘀𝘁𝗲𝘀𝘀𝗮: 𝗼𝗴𝗻𝗶 𝗱𝗶𝘀𝘀𝗲𝗻𝘀𝗼 𝗲̀ 𝘀𝗼𝘀𝗽𝗲𝘁𝘁𝗼, ogni dubbio è un assist al Cremlino, ogni analisi che non coincide con quella della NATO è “interferenza straniera”. È un clima politico costruito su una patologica semplificazione del reale, indispensabile per preparare l’opinione pubblica alla grande riconversione economica e industriale che richiede l’economia di guerra europea. La misura della Commissione non va letta in isolamento. È un tassello di una più ampia architettura ideologica che punta a blindare il continente dentro una narrazione univoca, con la scusa dell’emergenza permanente. E non è nemmeno necessario sforzarsi per immaginare scenari distopici: basta osservare la traiettoria degli ultimi anni. Ogni crisi — pandemica, energetica, geopolitica — ha prodotto un arretramento degli spazi democratici, una crescita del decisionismo tecnocratico, una riduzione del pluralismo. La novità è che adesso si vuole dare a tutto ciò una 𝗯𝗮𝘀𝗲 𝗻𝗼𝗿𝗺𝗮𝘁𝗶𝘃𝗮 𝗽𝗲𝗿𝗺𝗮𝗻𝗲𝗻𝘁𝗲, costruita intorno a un concetto di “democrazia difesa dall’alto” che, per difendersi, finisce per assomigliare ai sistemi che dice di combattere.
Rendiamoci conto del rischio: una democrazia in cui la verità è decisa per protocollo, in cui i media dipendono dal finanziatore pubblico, in cui il dissenso viene incasellato come “interferenza”, è una democrazia solo nel lessico, non più nella sostanza.
E i nostri diritti costituzionali, purtroppo per Ursula e Pina, richiedono sostanza. I loro 𝗮𝘀𝗰𝗮𝗿𝗶 e 𝗴𝗲𝗿𝗮𝗿𝗰𝗵𝗶 ora abbaiano più del solito, non fanno che 𝗽𝗼𝗹𝗮𝗿𝗶𝘇𝘇𝗮𝗿𝗲 ogni spazio di discussione per far poi raccogliere ai loro danti causa i frutti della militarizzazione del dibattito.
Anche alle persone lontane dal mio pensiero, anche ai membri dei partiti totalmente inseriti nel paradigma europeista e atlantista, mi sento di rivolgere un appello: 𝗻𝗼𝗻 𝘀𝗼𝘁𝘁𝗼𝘃𝗮𝗹𝘂𝘁𝗮𝘁𝗲 𝗹’𝗶𝗻𝘁𝗲𝗻𝘁𝗼 𝗹𝗶𝗯𝗲𝗿𝘁𝗶𝗰𝗶𝗱𝗮 𝗱𝗶 𝗺𝗼𝗹𝘁𝗶 𝗱𝗶 𝗾𝘂𝗲𝗹𝗹𝗶 𝗰𝗵𝗲 𝗺𝗶𝗹𝗶𝘁𝗮𝗻𝗼 𝗻𝗲𝗹𝗹𝗲 𝘃𝗼𝘀𝘁𝗿𝗲 𝗳𝗶𝗹𝗮!
Avete vicini pericolosi che porteranno voi, i vostri partiti e interi paesi al totale disastro bellico passando per la definitiva manomissione dei media e delle elezioni. Serve il senno del prima, non quello del poi. Fermate la corsa del treno della guerra.
