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In questo periodo, sto lavorando in fabbrica.
Non come operaio, perché oggi nessuno ti assumerebbe. Più modernamente, c”è un signore che conosco che mi ha chiamato, chiedendo se ero disposto a insegnare inglese in una fabbrica per qualche settimana – a partire da subito, come sempre. Il signore che conosco è stato a sua volta contattato, con la solita urgenza, da un”agenzia che non si sa bene cosa faccia, ma è molto moderna. E che si occupa, tra l”altro, di Riqualificazione. Cioè si prende un operaio di quarant”anni, che tutta la vita ha fatto un certo mestiere ma lo sta per perdere
– assieme al mutuo della casa – e lo si riempie di qualche ora di Corsi, cosa che dovrebbe improvvisamente trasformarlo in un protagonista multimediale e competitivo dei nostri tempi.
La fonte dei soldi per tutto il giro è l”Europa, la grande macchina dei Progetti con cui il capitalismo occidentale supera per meticolosa vacuità tutti i piani quinquennali dell”ex-URSS.
L”Europa paga l”azienda, che paga l”agenzia, che paga il signore che conosco, che paga me. Ma probabilmente ho perso qualche passaggio in mezzo, anche perché nessuno ha particolare interesse a raccontare a me come stanno le cose.
La fabbrica è immensa. A occhio e croce, ben più grande della basilica di San Pietro o quelle altre cose contro cui si misurano di solito le grosse costruzioni.
La struttura è fatta a blocchetti, una specie di Lego grigia, tenuta insieme da viti, bulloni e enormi pilastri di ferro arrugginito. In cui troviamo tutti gli elementi dell”epoca che sta morendo: enormi dimensioni, razionalità e molto, molto metallo.
Dentro, però, la fabbrica è vuota, sviscerata dei suoi organi e del suo sangue.
Vuota di macchinari: pilastro dopo pilastro, vedi solo ferro, cemento e vetro, e senti da lontano i passi dei pochi lavoratori rimasti: oggi ci stanno forse 300 persone, ma mi dicono che qualche decennio fa, ce ne stavano ventimila.
Da anni, gli operai aspettano e sospettano. Non capiscono bene a chi appartengono e non sanno cosa si voglia da loro. Una volta al mese, all”incirca, qualcuno scende da loro, per rassicurarli, e parlare delle grandi speranze di un”azienda proiettata verso il Mercato del Futuro.
Poi tutto cala di nuovo nel silenzio, con gli operai che si raccolgono attorno alla macchina del caffè o alla mensa – una mensa senza cuochi, con i cibi in sacchetti di plastica che devi sfondare con la forchetta per aprirli. Mentre si sussurra il sospetto: che i misteriosi padroni vogliano vendere tutto quell”immenso terreno e farne un quartiere di villette a schiera. E” solo un timore, perché non esista alcuna prova di un tale progetto. Però quando l”Italia non produrrà più nulla, c”è da chiedersi chi si comprerà quei villini o passerà le serate nei locali che si stanno aprendo ovunque.
I passi degli operai rimbombano nel grande vuoto, e mentre corro a preparare la lezione, penso come la loro attesa sia quella di tutti noi. Che forse una delle caratteristiche principali di questi particolarissimi tempi è l”assenza di futuro: cioè della base stessa di ogni progetto, individuale o comune.
Senza futuro, non serve né organizzarsi, né prepararsi. Possiamo solo aspettare.
(Continua…)
Fonte: http://kelebek.splinder.com/post/22512552/Miguel+Martinez+va+in+fabbrica.
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