C'è un sacco di lavoro

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23 Ottobre 2012 - 20.02


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di Romano Calvo.

Cap. 1 РPerch̩ il lavoro ̬ un problema?

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a) Perché in Europa il lavoro si sta riducendo quantitativamente (dati Eurostat).
b) Perché il lavoro è, e rimane per la stragrande maggioranza della popolazione, l”unico modo per procurarsi denaro e con esso “tutte quelle cose che sono necessarie a condurre una vita veramente umana, come il vitto, il vestito, l”abitazione, il diritto a scegliersi lo stato di vita e a fondare una famiglia, all”educazione, al lavoro, alla necessaria informazione” (Gaudium et Spes, cap. 26).
c) Perché il lavoro, in questa concreta determinazione storica e sociale, è riconosciuto e valorizzato solo in quanto “lavoro produttivocioè in quanto accresce il valore della merce e quindi il valore del capitale investito. Questa oggettiva mercificazione del lavoro ha sviluppato parecchie contraddizioni:

 

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– la sfera delle attività dedicate alla riproduzione sociale (preparazione dei pasti, lavoro domestico, cura degli anziani, educazione dei figli) nonostante la sua fondamentale importanza, è stata prima misconosciuta (arti minori in carico alle donne) e poi trasformata in lavoro salariato con il contemporaneo reclutamento delle donne al lavoro produttivo;

– la valorizzazione del capitale negli ultimi decenni – anche grazie alla maggiore produttività – è avvenuta facendo sempre meno ricorso al “lavoro produttivo”, specie in occidente;

– la connotazione di lavoro solo in quanto “lavoro produttivo” ha consentito la sua legittimazione ideologica a prescindere da quali fossero i prodotti del lavoro; e quindi sfruttamento del lavoro minorile, produzione di armamenti, distruzione dell”ambiente, degradazione e mercificazione umana. sono diventati danni collaterali tollerabili in nome del valore del lavoro.

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d) Perché il lavoro, nonostante i caratteri alienanti che racchiude, rimane lo spazio privilegiato in cui “l”uomo realizza se stesso come uomo” (Giovanni Paolo II, Laborem Exercens) ed in cui egli fa esperienza di socialità: “(.)nel compierlo gli uomini si scoprono fratelli” (Paolo VI, Populorum Progressio).

E” sulla base di queste ambivalenze nel significato del lavoro che si continuano a legittimare scelte politiche e sociali che sono peggiori del male che si vorrebbe curare.

 

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Qualche dettaglio in più: il lavoro si riduce, anche senza la crisi

Va dapprima dettagliata, con dati di Eurostat (l”Ufficio Statistico dell”Unione Europea) l”evoluzione decennale in Europa della popolazione attiva (cioè gli occupati più le persone in cerca di lavoro tra 15 e 64 anni). La tendenza è che in 10 anni in Europa è cresciuto di 16 milioni il numero di persone che lavorano o vorrebbero lavorare (in Italia sono 1,2 milioni in più).

Altrettanto interessante l”evoluzione decennale in Europa degli occupati, cioè di coloro che secondo Eurostat hanno svolto almeno un”ora di lavoro nella settimana precedente.

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Dai 204,3 milioni del 2002 si è passati ai 217,1 milioni del 2011, cioè 12,8 milioni di posti di lavoro in più, non sufficienti a coprire il fabbisogno sopra evidenziato di 16 milioni di popolazione attiva aggiuntiva.

Il picco decennale dell”occupazione si è verificato nel 2008, per poi scendere nel 2011 su valori prossimi a quelli del 2007.

Quindi, in Europa dal 2008 al 2011 sono stati persi 4,1 milioni di posti di lavoro, in Italia mezzo milione.

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Nello stesso periodo in Europa la popolazione attiva è crescita di 2,2 milioni (mentre in Italia è rimasta stabile, per il semplice fatto che molte persone sono rifluite nelle “non forze di lavoro”).

Sul lato della disoccupazione la tabella va evidenziato come dai 20,1 milioni di disoccupati del 2002 si è arrivati a 23,2 milioni nel 2011, passando per i 16,8 milioni del 2008. Dallo scoppio della crisi del 2008, inEuropa i disoccupati sono aumentati di 6,4 milioni.

In Italia la tendenza è analoga: dai 2.058mila del 2002 siamo arrivati nel 2011 a 2.108mila, passando però dai 1.692mila del 2008: cioè in tre anni i disoccupati sono aumentati di 416mila unità.

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I dati dimostrano che anche senza la crisi, il ciclo di crescita europeo era a malapena in grado di dare lavoro ad una popolazione attiva stabile cioè non crescente. Cosa che invece non è accaduta, alla faccia del calo demografico e dell”invecchiamento del Continente.

Il modello di sviluppo su cui l”Europa è seduta, anche senza la crisi, non è in grado di dare lavoro a tutti.

Quei 16,8 milioni di disoccupati del 2008 (cioè il 7,5% della popolazione attiva) vanno interpretati non come un incidente di passaggio, ma come il meglio che il nostro sistema sia in grado di realizzare. Il meglio che una ripresa del ciclo di accumulazione e crescita possa sperare di raggiungere.

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Il 7%-8% di disoccupazione deve pertanto essere considerato alla stregua di ciò che gli economisti definivano “tasso frizionale”, cioè non evitabile. In questo sistema.

Purtroppo sappiamo che una realistica prospettiva, specie dopo la crisi del 2008, costringe a prevedere scenari ancora peggiori di questo (siamo a 23,2 milioni del 2011, cioè il 9,6% di disoccupati nell”Europa dei 27).

 

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Qualche dettaglio in più: le contraddizioni del lavoro produttivo

Da un punto di vista ideale, il lavoro è l”attività che singolarizza l”essere umano e lo pone a fondamento positivo della polis. In teoria il lavoro è atto libero ed inventivo dell”individuo, in una parola antica: l”opus. In teoria il lavoro non è una condanna, ma è l”uomo stesso nel suo modo specifico di farsi uomo.

Ma tale libertà creativa non è illimitata in quanto è condizionata dai bisogni materiali e dai fattori di produzione già consolidati. Queste sono le condizioni limitative di ogni fase della storia dell”uomo. Quindi il significato del lavoro non può essere letto se non all”interno delle specifiche formazioni economiche, politiche e sociali in cui storicamente esso si svolge.

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Il contributo di Marx è stato di inserire il significato del lavoro all”interno di questa specifica formazione economica e sociale (il capitalismo). Il lavoro propriamente detto è il “lavoro produttivo”, cioè il lavoro che accresce il valore della merce. Le merci, da pure e semplici cose prodotte dal lavoro umano, assurgono al ruolo di rapporto sociale e, nello stesso modo, anche i rapporti sociali fra gli uomini assumono l”aspetto di rapporto tra merci. L”opposizione latente all”interno della natura stessa della merce, tra valore d”uso e valore di scambio, si dispiega con la produzione capitalistica, il cui fine ultimo non è il valore d”uso, ma l”appropriazione e l”accumulazione di ricchezza astratta in forma monetaria. In questa formazione economico-sociale è il detentore di capitali (ed i suoi funzionari) a disporre del potere sociale di comandare la forza-lavoro e di appropriarsi dei suoi prodotti.

Il fatto che sopravvivano forme di prestazione lavorativa pre-moderne o che si sviluppi il lavoro nella pubblica amministrazione o che beni immateriali non formalmente riconducibili a merce vengano sussunti anch”essi nella sfera del “lavoro produttivo”, non modifica il paradigma di fondo, quello per cui il lavoro viene riconosciuto e valorizzato solo in quanto incrementa il capitale, direttamente o indirettamente. Siamo in attesa di prove che dimostrino il contrario.

Negli ultimi decenni e più ancora con gli effetti di questa crisi, nelle società occidentali si manifestano i seguenti fenomeni che hanno diretta rilevanza sul lavoro:

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  • marginalizzazione della produzione e del lavoro in agricoltura;
  • forte riduzione del lavoro retribuito dedicato alle produzioni manifatturiere;
  • ampliamento del lavoro retribuito dedicato ai servizi con particolare riferimento alla società dello spettacolo (advertising) ed al lavoro di cura (socio-sanitario);
  • controllo dei principali settori industriali da parte di corporations transnazionali prive di responsabilità verso i territori e con la possibilità di delocalizzare verso paesi a minor costo del lavoro;
  • persistenza e crescita di un esercito di riserva di disoccupati, inoccupati, sotto-occupati, anche in corrispondenza di forti ondate migratorie;
  • esternalizzazioni dalla grande impresa fordista ad una miriade di piccolissimi produttori, tanto più sfruttatori del lavoro altrui quanto più essi stessi sfruttati dalla logica capitalistica;
  • esplosione di forme contrattuali diverse da quelle tipiche del lavoro dipendente e da quelle tipiche dei mestieri e professioni tradizionali, in cui l”onere della flessibilità viene scaricata interamente sulle spalle del prestatore d”opera senza poter disporre di strumenti di contrattazione e protezione sociale;
  • riduzione del potere d”acquisto da parte dei lavoratori salariati e di tutti i ceti che traggono dal lavoro il loro unico sostentamento, nel contesto di una generale redistribuzione dei redditi dai ceti medio bassi ad una ristretta élite di super salariati e/o rentier;
  • trasformazione di buona parte delle attività di cura, di educazione e di riproduzione vitale in lavoro salariato;
  • tentativi di fuga dalla mercificazione (transition town, ritorno all”agricoltura, consumo consapevole, commercio equo e solidale, acquisti a kilometri zero, ecc.) che, se applicati su larga scala, potrebbero ulteriormente ridurre il “lavoro produttivo”.

Paradossalmente, il lavoro “produttivo” cioè quello che accresce il valore della merce, in nome del quale intere generazioni si sono sottomesse al comando di pochi detentori di capitale, spendendo la maggior parte del proprio tempo di vita in cambio di una retribuzione sufficiente appena ad acquistare i mezzi per riprodurre la propria capacità lavorativa, e bestemmiando da mattina a sera per l”alienazione che subivano. quel lavoro produttivo – da almeno due decenni in occidente – si contrae quantitativamente (in rapporto alla popolazione che di quelle retribuzioni abbisogna) e perde di valore (monetario e simbolico).

Su questa contraddizione meriterebbe soffermarsi, perché andrà compreso com”è che in questo lato geografico del mondo negli scorsi decenni a fronte di un vertiginoso aumento della ricchezza monetaria complessiva, non vi sia stato un pari aumento del “lavoro produttivo”, né in senso quantitativo né in senso monetario (anzi dopo il 2008 vi è stato addirittura un suo decremento). La risposta sta nella divisione internazionale del lavoro, nella globalizzazione e soprattutto nella finanziarizzazione (temi sui quali rimandiamo ad altri contributi).

Ciò che stupisce è il fatto che in questi due decenni la risposta generale sia stata di chiedere “più lavoro” senza mai specificare se più lavoro significasse più “lavoro produttivo” (nell”accezione di Marx) o più ricompense monetarie (denaro per consumare di più?) o cos”altro (il paradiso perduto?). E senza peraltro riuscire ad ottenere risultati apprezzabili.

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Soprattutto senza chiedersi se nella dinamica del sistema economico, finanziario e geopolitico, vi sia un qualche interesse a creare più “lavoro produttivo” qui in occidente, quali siano le condizioni per ridistribuirne il surplus monetario e quale equilibrio ecologico possa garantire un eventuale ulteriore crescita del lavoro produttivo.

Ed allora occorre ripensare il significato del lavoro perché ciò che viene definito lavoro – ed il valore che ad esso viene riconosciuto (anche monetario) – è frutto di convenzioni sociali e si presta ad un uso ideologico e di manipolazione.

Il common sense ci ricorda che non tutto ciò che è contenuto nella parola “lavoro” è anche un valore. Lo dimostrano l”esistenza di lavori dannosi per l”ambiente, per la polis o per il lavoratore stesso. Lo dimostra il fatto che molti non vedono l”ora di andare in pensione per poter finalmente fare le cose che piacciono e che servono. Ma lo dimostra anche il fatto che legalmente viene perseguito chi svolge il “lavoro” di spacciatore di droga, di imprenditore della prostituzione, di cassiere per la mafia, ecc. All”interno della regola aurea capitalistica (quella per cui viene premiato chi sfrutta il lavoro altrui per accrescere il proprio capitale), la Legge ha posto degli argini per dire che vi sono modi di sfruttare il lavoro altrui che, pur accrescendo il capitale, non sono consentiti.

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Il lavoro porta dentro di sé le stesse contraddizioni che sono interne alla logica capitalistica che, come abbiamo appena detto, trova una prima limitazione proprio nei sistemi giuridici, sulla cui scarsa efficacia merita tuttavia riflettere per capire la forza della logica capitalistica.

Una seconda limitazione questa logica la trova in se stessa: se vi è la possibilità di accrescere il capitale facendo sempre meno ricorso al “lavoro produttivo”, significa che se ne può fare a meno o perlomeno circoscriverlo al minimo indispensabile. Già Guy Debord ne La società dello spettacolo evidenziava come a fronte dell”enorme crescita della produttività del lavoro, il capitale è costretto a stipendiare milioni di persone per tenere in piedi il meccanismo del consenso. E quindi per ogni posto di lavoro che si perde nell”economia produttiva se ne crea un altro nella società dello spettacolo. E per un certo periodo l”equilibrio regge. Purché vi sia un surplus finanziario disponibile per lo spettacolo e purché lo spettacolo diventi esso stesso occasione per accrescere il capitale o perlomeno non una sua pura distruzione. E purché il lavoro creato dallo spettacolo riesca a sopperire la distruzione di lavoro produttivo (cosa che da qualche anno non accade più).

Una terza limitazione della logica capitalistica consiste nel suo disequilibrio territoriale. Il gioco sta in piedi fino a quando una parte di mondo, quella che ha dato inizio al meccanismo dell”accumulazione capitalistica, riesce ad appropriarsi del plusvalore dei capitali governandone la valorizzazione ed accettando che siano altri i paesi in cui si produce cibo e beni manifatturieri per tutti (cioè che il lavoro produttivo si sviluppi altrove). Pare però che nuovi soggetti geopolitici si siano affacciati sulla scena mondiale e non siano più disposti a fare da granaio e fabbrica per il resto del mondo senza poter partecipare al plusvalore del proprio lavoro. E gli effetti si vedono nei BRIC dove aumenta il lavoro produttivo ma aumenta anche l”insofferenza verso il monopolio di Wall Street e della City nella gestione dei capitali.

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Cap. 2 Le soluzioni che ci vengono prospettate

Di fronte a questo scenario la reazione più ovvia e generalizzata è quella della simmetria: se A si è trasformato in B, facciamo in modo che B ritorni ad essere A.

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  1. L”ordinamento giuridico è una limitazione alla logica del capitale distruttrice di lavoro? Allora rafforziamolo.
  2. Il mercato non riesce a creare posti di lavoro? Allora li crei lo Stato facendosi datore di lavoro.
  3. La sussunzione delle attività di riproduzione sociale nel lavoro produttivo crea posti di lavoro? Allora trasformiamone ogni spazio residuo in lavoro salariato.
  4. Il lavoro produttivo è distruttivo dell”ambiente? Allora facciamo la green economy.
  5. Il lavoro produttivo si riduce strutturalmente a fronte della crescita dei capitali? Allora ridistribuiamo i capitali anche a chi non lavora.
  6. La società dello spettacolo è la sola in grado di creare posti di lavoro? Allora aumentiamone gli spazi.
  7. Lo sviluppo del lavoro produttivo nei BRIC ha ridotto i posti di lavoro in Occidente? Allora innalziamo le barriere doganali.

. e così via, di simmetria in simmetria.

E” però evidente che si tratterebbe di facili salti all”indietro, mentre ciò che abbiamo davanti è una crisi sistemica che richiede un salto di paradigma.

Alcune avvertenze:

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  1. Rafforzare l”ordinamento giuridico è la fatica di Sisifo percorsa in tutti i paesi dell”occidente in questi decenni, col risultato di aumentare gli apparati repressivi, la burocrazia e la medicalizzazione della vita sociale, senza riuscire a porre freni alla logica capitalistica.
  2. Creare lavoro mediante le assunzioni statali è cosa già fatta e già vista. Lo Stato come datore di lavoro (ed erogatore di finanziamenti) trova legittimazione ideologica nell”ottica del keynesismo ma di fatto svolge l”unica funzione che la logica capitalistica sia disposta a cedere allo Stato: lasciargli uno spazio clientelare utile a sorreggere il consenso verso una politica che altrimenti dovrebbe svelare il suo carattere di pura finzione.
  3. La riduzione a lavoro produttivo di ogni sfera della riproduzione sociale ha portato a danni sociali irreparabili e tutte le tendenze in atto fanno pensare invece al suo esatto contrario, cioè al tentativo di sottrarre alla mercificazione tali fondamentali dimensioni della vita umana e semmai ad una loro valorizzazione persino da parte del genere maschile.
  4. La ristrutturazione ecologica dell”economia è cosa assai seria, perché se è vero che può creare 8-10 milioni di posti di lavoro nei prossimi 10 anni in Europa, è anche vero che l”essere inserita nella logica capitalistica la condanna a preferire le soluzioni più profittevoli, che non sono necessariamente quelle più utili per l”ambiente.
  5. La ridistribuzione del surplus dei capitali è tanto giusta quanto ingenua nella sua formulazione. Occorrerà verificare se le poche centinaia di membri del superclan finanziario mondiale, siano d”accordo a rinunciare ad una parte consistente dei propri profitti e patrimoni. Come ha ultimamente spiegato Luciano Gallino, la lotta di classe esiste, ma non è quella degli operai contro i borghesi, bensì quella del superclan finanziario contro il resto della popolazione. E” vero noi siamo molti, ma loro sono molto potenti. Le risorse graziosamente distribuite ai ceti medi negli anni d”oro del compromesso keynesiano, sono state prontamente recuperate, appena è cessato il pericolo sovietico.
  6. Potenziare il sistema professionale dedicato alla persuasione occulta è già una tendenza in atto, senza bisogno che la si faciliti dal basso. C”è tuttavia da chiedersi se e come possa ancora svilupparsi una cultura intrisa di valori umani all”interno di una gabbia mediatica in grado di colonizzare ogni recondito spazio della mente. E soprattutto chiedersi se all”interno di questa media-crazia possano ancora svilupparsi i germi del cambiamento.
  7. Che vi debba essere un riequilibrio industriale e finanziario tra i BRIC e l”Occidente è fuori di dubbio. Ma è assai più probabile che avvengano in direzione opposta a quanto auspicato dagli occidentali. E cioè che i BRIC chiedano di limitare il dumping finanziario che l”occidente gli ha scatenato contro, continuando nella loro lunga marcia di creazione di lavoro produttivo.

Lo scenario imminente e più probabile è quello del neo keynesismo: (Piero Pagliani).

Una prima provvisoria conclusione: chiedere “più lavoro” in questo contesto, assume significati fortemente ambigui, tali da apparentare sia chi spera in una ripresa del ciclo capitalistico e sia chi invece mette in discussione l”attuale divisione internazionale del lavoro, la società dello spettacolo, la finanziarizzazione, la globalizzazione e soprattutto la sostenibilità ambientale di questo modello di sviluppo capitalistico.

Chi legge queste pagine non ha il potere di rovesciare tali tendenze. Sarebbe già importante poterle comprendere e magari anticipare, per potersi difendere o darsi una qualche alternativa. Considerando che tale logica è già per conto suo soggetta a numerose contraddizioni, offrendo forse spazi per l”insinuarsi di nuove logiche.

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Quindi, anziché sprecare tempo a urlare “più lavoro” o “più dignità al lavoro”, è più utile operare da subito, a partire da se stessi, per aprire spazi all”esercizio della libertà creativa e concrete possibilità di accesso alle risorse necessarie per vivere.

Insinuandosi, per quanto possibile nelle contraddizioni della logica capitalistica.

Favorendo l”affermarsi di un”altra idea di lavoro (che è anche una idea di convivenza):

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mettere ogni persona nelle condizioni di contribuire al benessere della polis, valorizzando la sua libertà creativa e consentendogli in tal modo di acquisire i mezzi necessari al proprio benessere.

Non andremo ad urlare “più lavoro”, perché siamo troppo consapevoli di che cosa sta accadendo a livello globale e non siamo così stupidi da vagheggiare gli anni del compromesso keynesiano.

Occorre innanzitutto riappropriarsi del valore fondante del lavoro che non è tanto nella sua capacità di incrementare il capitale quanto nell”essere strumento espressivo della creatività umana e forma sociale necessaria per accedere alle risorse vitali.

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Questo è il significato etico-politico del lavoro nella prospettiva della decrescita felice.

Il problema è costruire condizioni tali per cui, all”interno di questa terribile transizione si possano trovare, per tutti, spazi sufficienti per affermare quest”altra idea di lavoro.  E” questa la sfida che abbiamo davanti a noi.

 

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Cap. 3 – Quali spazi per affermare un”altra idea di lavoro?

Fermo restando che occorre saper stare dentro alle contraddizioni scatenate dalla crisi sistemica globale, un”altra idea di lavoro può affermarsi dal basso, qui ed ora. E probabilmente si sta già affermando. Si tratta di darle ossigeno.

1.

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Occorre abbandonare la distinzione tra lavoro salariato e lavoro autonomo, (professionale e/o imprenditoriale), riconoscendo che tutte sono state sussunte dalla logica del “lavoro produttivo” e che tutte in qualche modo necessitano di protezione condizionata ai valori in gioco.

La vera distinzione è tra attività socialmente utili ed attività socialmente non utili (o peggio dannose) e tra lavoro monetizzato e lavoro non monetizzato:

a) il lavoro monetizzato è qualsiasi prestazione lavorativa svolta in cambio di denaro. Il lavoro non monetizzato sono le attività lavorative svolte fuori dal contesto di mercato, quindi non retribuite in denaro.

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b) le attività socialmente utili sono quelle che apportano benefici alla polis le altre sono quelle che danneggiano la polis.

Il problema è dunque di riuscire a scoraggiare (dal basso) tutte le attività non socialmente utili (se non addirittura dannose come la speculazione edilizia, il trading finanziario, la produzione di armi, la deforestazione, l”inquinamento, la pubblicità.) e nello stesso tempo di valorizzare quelle socialmente utili, sia quelle monetizzate che non monetizzate. La particolarità di queste ultime è tuttavia proprio quella di sfuggire alle logiche della valorizzazione capitalistica e quindi non sarebbe un grande passo in avanti proporne una loro monetizzazione (come è avvenuto con la trasformazione del lavoro domestico in lavoro salariato). Si tratta semmai di conferire loro un valore sociale diversamente spendibile ai fini del proprio benessere personale (banca del tempo?).

Sappiamo bene che la distinzione tra ciò che è utile o meno, rimanda allo Stato etico, ma è necessario ricordare che in questa transizione in ogni caso non siamo noi a fissare le regole. Noi possiamo soltanto tentare di porre collettivamente degli ostacoli, basati sul common sense e sui comportamenti dal basso. I passi in avanti nella questione ambientale sono lì a dimostrarlo. La legge, se ci sarà, verrà dopo, probabilmente come baco nel sistema.

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2.

Il cambiamento di paradigma può avvenire se il sistema è nutrito da due risorse: il denaro necessario agli scambi e le regole con le quali si possano svolgere gli scambi:

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a) sulla possibilità di introdurre moneta anche al di fuori dai circuiti bancari ufficiali, si è parlato in più occasioni. Si tratta di metterla in pratica. Cosa che sta già avvenendo.

b) il problema vero sono le regole e l”autorità in grado di farle rispettare. E” difficile pensare ad un quadro di regole senza uno Stato in grado di farle rispettare. Eppure la storia dimostra che spesso nell”etica economica e civica, l”uovo e la gallina nascono insieme, con una priorità ai comportamenti spontanei, basati sulla regola naturale della reciprocità. E su questo occorre fare leva. Magari partendo dalle autonomie locali o dalle auto-regolamentazioni di settore già esistenti (vedi certificazione energetica). Un domani, quando saremo al potere, forse potremo fare di più.

3.

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Nella crisi è comunque necessario fare affidamento su una istanza di solidarietà allargata, ciò che in altri tempi si chiamava il welfare state, per consentire una redistribuzione di risorse (monetarie e servizi) verso chi non ce la fa. La famiglia specie in Italia ha svolto autonomamente questa funzione sussidiaria allo Stato. Non si può delegare questa funzione solo alla famiglia come non si può spostare tutto il lavoro di cura al lavoro salariato, magari rimborsato dal SSN. Si tratta di rafforzare – dal basso – i meccanismi della solidarietà sociale, sia di vicinato che a livello allargato. Ciò anche mediante una riequilibrio del sistema fiscale e della spesa sociale; chiarendo che il patto sociale che unisce la comunità, è che nessuno può essere lasciato indietro ma nello stesso tempo tutti sono chiamati a contribuire alla solidarietà. E cioè l”assistenza sociale è affare di ognuno e deve riguardare la fiscalità generale.

Poi si tratta di dare più valore al lavoro nascosto e non retribuito di chi fa solidarietà, anche al di fuori del contesto familiare. L”idea del servizio civile nazionale obbligatorio per tutti i giovani andava in questo senso. Ma ce ne possono essere anche altre.

A livello previdenziale occorre rinsaldare i legami generazionali garantendo che chi oggi paga i contributi avrà con certezza una remunerazione, non necessariamente monetaria ma sicuramente in beni e servizi, nell”età non più produttiva. E che tale equilibrio sia equo nel confronto tra diverse generazioni. E che tali risorse siano sottratte al trading finanziario come allo scambio di favori clientelari.

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4.

Rimane sempre aperta la questione del “lavoro produttivo”, del suo sfruttamento a fini capitalistici e quindi delle forme di tutela e resistenza. Per dirla con uno psicanalista lacaniano, Giacomo Contri, “amanti e capitalisti hanno in comune il fatto di avere come primo il primo diritto (ndr: quello della natura, basato sulla reciprocità), in cui la rilevanza se la definiscono da sé. Ma mentre il capitalista vive “anche” del secondo diritto (ndr: quello fissato nelle norme giuridiche) il lavoratore vive “solo” del secondo diritto, ed è questo a farlo servo entro la libertà astratta del diritto. Infatti la sua libertà di lavoratore non è iniziatrice ma solo produttrice; diversamente dagli amanti tra i cui due posti c”è intercambiabilità, proprietà caratteristica del primo diritto. La servitù della gleba non è stata abolita fin quando permane la fissazione al posto. E il sindacato si è trovato nella storica e contraddittoria posizione di contribuire alla fissazione, benché allo scopo di difendere il lavoratore (è il modello del compromesso psicopatologico)“.

Non c”è dubbio che il superamento di tale fissazione al posto e quindi la liberazione di grandi energie creative, potrebbe avvenire se ogni lavoratore potesse sperimentare altri modi per stare al mondo, senza dover subire il ricatto economico e monetario. In questo senso, con tutte le precauzioni che la storia insegna, occorre lottare per garantire le risorse monetarie per un temporaneo sostegno al reddito, a tutti coloro che si trovano senza lavoro, anche per scelta, e che attivamente si impegnano per inventarne un altro, più consono alle proprie attitudini e competenze.

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5.

Obiettivo raggiungibile a breve è la riduzione dei tempi di vita dedicati al lavoro produttivo per espandere i tempi dedicati al lavoro creativo. La riduzione degli orari di lavoro non può essere imposta per legge né calata dall”alto, tenendo conto che i contesti del privato in cui sarebbe applicabile non superano il 25% della forza lavoro e che gli esiti non sarebbero necessariamente quelli auspicati.

Questa trasformazione è implicita nell”affermazione dei cambiamenti indotti da quanto detto sopra, cioè dalle scelte consapevoli di milioni di persone; che possono essere facilitate da politiche pubbliche e da lotte sindacali orientate a questa nuova idea di lavoro.

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Tratto da:

 

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