Torino come Detroit. Ma non va detto

Passato e presente della "one company town" italiana e il tabù del default. [Lo Spiffero]

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20 Luglio 2013 - 17.16


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da Lo Spiffero

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Detroit chiama Torino. La capitale americana dell’auto dichiara bancarotta, travolta non tanto dal disavanzo di bilancio, ma dal mostruoso indebitamento consolidato: 20 miliardi verso 100mila creditori. L’annuncio del fallimento è stato dato dal commissario straordinario Kevyn Orr, nominato pochi mesi fa dallo stato del Michigan con il compito di salvare in extremis la città da una situazione finanziaria catastrofica. Ma dopo alcuni tentativi di ristrutturazione finanziaria, da un lato persuadendo i creditori a pazientare, dall’altro intavolando con i sindacati una trattativa sul taglio degli stipendi e delle pensioni del pubblico impiego, giovedì scorso ha gettato la spugna. E il governatore Rick Snyder, repubblicano, ha accettato la richiesta di Orr di ammettere Detroit all’articolo 9 della legge fallimentare americana. Secondo Snyder, questa sarebbe l’unica soluzione a un problema che si trascina da 60 anni. La città avrebbe un debito sotto forma di bond municipali, valutato tra i 17 e i 20 miliardi di dollari, molto probabilmente intorno ai 18 miliardi. E il solo deficit di bilancio ha raggiunto la cifra spaventosa di 380 milioni (290 milioni di euro). Il tutto, per una città di poco più di 700 mila abitanti.

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A questo punto, il commissario avrà la possibilità di dismettere gli asset della città per soddisfare i creditori. Ma tutta l’America sta a guardare, perché per quanto la notizia non sia giunta inattesa, nessuno conosce esattamente cosa accadrà d’ora in avanti. Anche perché molte altre grandi città degli Usa si trovano in condizioni di simile disastro. Non è un caso che il presidente Barack Obama abbia dichiarato di seguire la situazione da vicino. In verità, il default arriva inatteso per il momento in cui è avvenuto. Detroit sembrava riprendersi, grazie ai buoni risultati di Ford, Gm e Chrysler, che qui vi hanno sede, così come lo stesso mercato immobiliare stava dando segnali di risalita. E, tuttavia, parliamo di una città che negli anni Cinquanta contava oltre 2 milioni di abitanti, mentre oggi ne ha circa 714 mila. E dal 2000, la popolazione è scesa del 26%. Secondo qualcuno, lo spopolamento ha radici in quel 1967, quando nell’estate scoppiarono rivolte della minoranza afro-americana contro la polizia e ciò spinse nel tempo i bianchi a preferire mete più tranquille per trascorrere la propria esistenza. Con il risultato che in città restò soprattutto la minoranza di colore, meno abbiente e con una base imponibile di gran lunga inferiore. Da qui, la crisi drammatica delle casse comunali. La crisi dell’auto e anni di cattiva gestione delle casse comunali unite al dilagante malaffare hanno fatto il resto.

Ma cosa insegna questa vicenda alla città “gemella” italiana, le cui sorte sono unite se non altro dal fatto che entrambe hanno alle spalle una storia ferrigna di one company tow, di capitali dell’auto, e che ospitano la sede del gruppo Fiat-Chrysler? E che tutte e due hanno subito la perdita del proprio core business con l’annessa diminuzione di residenti e le connesse immigrazioni? Per quanto il paragone possa apparire a prima vista azzardato, c’è molto in comune, anche nei difficili destini che potrebbero condividere. Come noto, il Comune di Torino è in profondo rosso: con gli oltre 4 miliardi di euro di debiti, qualcosa come 5 mila euro per abitante (ma a Detroit siamo sui 19 mila euro pro-capite) è al vertice delle città più indebitate. E, al netto, delle giustificazioni (“abbiamo investito in infrastrutture e non in spesa corrente”) e di qualche azione virtuosa (che però incide così marginalmente da non prefigurare un’inversione di tendenza in tempi accettabili), Torino non è affatto fuori dal tunnel, con buona pace del sindaco Piero Fassino.

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Sul giornale della Confindustria il bravo Giovanni Trovati, pur cogliendo molte analogie – “la Detroit italiana, ovviamente, è Torino, che nel Novecento è cresciuta intorno all”automobile e ha vissuto sulla propria pelle la crisi, mondiale e italiana, delle quattro ruote” – si sofferma a elencare le differenze: nessun quartiere si è svuotato, le entrate fiscali non sono crollate e “i contraccolpi sulla finanza pubblica sono nati soprattutto dallo sforzo di riconvertire una tranquilla e un po’ grigia città industriale del Nord Ovest in una vivace capitale del terziario e degli eventi”. Il Sole 24 Ore individua nelle Olimpiadi invernali del 2006 l’emblema di questo sforzo: “intorno a loro è fiorita una ridda di interventi urbanistici che hanno trasformato la città, ma le hanno anche regalato un debito record da quasi 4mila euro ad abitante: un passivo che ipoteca il futuro, perché gonfia le spese di ammortamento e schiaccia la possibilità di fare nuovi investimenti. Nel 2004, anno record, Palazzo di Città ha investito 1,4 miliardi di euro, nel 2012 non è andato oltre i 210 milioni, il 40% in meno dell’anno prima”.

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Insomma, tutt’altro che rosa e fiori. Torino e la Regione sono “sostanzialmente falliti”, dice Enrico Colombatto, economista liberale, docente all’Università di Torino dove ha rilevato la cattedra di Sergio Ricossa, e autore con il collega della Sapienza Giuseppe Eusepi, di un manifesto i cui si auspica il default dell’Italia. “A questo punto, un creditore che si rispetti chiederebbe il fallimento e pignorerebbe i beni del debitore (o dei debitori). Tuttavia, i creditori sono in larga parte banche più o meno politicizzate, al cui vertice siedono persone che non hanno nulla da guadagnare nel chiedere il fallimento. I manager in realtà ci perderebbero, perché dovrebbero portare a perdite i crediti fasulli, e vedrebbero diminuire i loro premi e i loro bonus. I proprietari degli enti creditori (le banche) sono le fondazioni bancarie, ai cui vertici siedono molte persone nominate dai politici capi degli enti debitori… con tanti saluti ai conflitti d’interesse. Insomma, nulla di cui dovremmo stupirci”. Dal suo puto di vista da ultrà liberista c’è però di che consolarci: “Facciamoci coraggio. Anche i Ligresti sono caduti….”.

Dello stesso tenore l’analisi di Riccardo de Caria, assegnista alla facoltà di Giurisprudenza ed editorialista del nostro giornale: “Ciò che fallisce a Detroit è un modello di sviluppo artificiale, fatto di sussidi al settore auto che, come steroidi, lo hanno gonfiato in modo innaturale, in tandem con una municipalità che ha speso per troppo tempo al di sopra dei propri mezzi. Purtroppo, il modello che ha costretto Detroit a portare i libri in tribunale è esattamente lo stesso seguito da Torino: anche il capoluogo piemontese ha goduto delle generose prebende riservate al settore auto esattamente come negli Usa, per poi ritrovarsi un giorno sommersa di debiti per via delle troppe spese fatte quando le cose andavano tutto sommato bene”. Ci saranno pure responsabilità politiche in questo comportamento. “Chiamparino, pur essendo riuscito a costruirsi la fama di ottimo amministratore, se ne è andato dal Municipio lasciando un buco mostruoso nei conti della Città, buco che la giunta del suo successore Fassino sta faticosamente cercando di colmare a suon di tagli ai servizi, cessioni di asset e aumento di tasse. Ma tutto lascia pensare che sia uno sforzo inutile: Torino farebbe meglio a prendere atto dell’amara realtà e fare come Detroit, ripartendo da zero senza intestardirsi a voler riportare nei binari un treno che pare ormai essere irrimediabilmente deragliato”.

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In Italia, gli enti locali non possono tecnicamente fallire, ma è prevista l’ipotesi del dissesto, come ben sanno gli alessandrini. “Non è affatto una via indolore – prosegue de Caria -, ma è preferibile al lento declino che avanza un giorno dopo l”altro, impercettibile ma implacabile. Sarebbe la certificazione del fallimento di un’intera stagione di governi a Torino, e forse finalmente la Città si libererebbe un po’ da quella sua casta di potenti e loro compari che la asfissiano da ormai troppo tempo”.

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Nel libro Torino è casa mia, Giuseppe Culicchia scriveva che Torino non è Wolfsburg, la company town della Volkswagen, nel senso che non è una città-fabbrica o un dormitorio come l”omologa tedesca. Sarà, ma sarebbe un gesto coraggioso e onorevole riconoscere che purtroppo siamo invece come Detroit, e smettere di nascondere la polvere sotto il tappeto.

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