La "società armoniosa" e la lotta di classe

Globalizzazione. Se gli operai cinesi rialzano la testa. [Carlo Formenti]

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7 Maggio 2014 - 18.54


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di Carlo Formenti

Sul piano legislativo i lavoratori cinesi godono di una serie di diritti (ancorché più limitati di quelli di cui dispongono i loro colleghi occidentali). Purtroppo tali diritti restano quasi sempre sulla carta, sia perché le imprese si guardano bene dal rispettarli, sia perché il Partito Comunista e i sindacati di stato non muovono un dito per farli rispettare. Ecco perché la Yue Yuen Industrial Holdings, azienda taiwanese che è considerata il più grande produttore mondiale di scarpe sportive (fra i suoi commettenti può vantare marchi di prestigio come Nike e Adidas) non ha versato per anni i contributi per la pensione ai suoi dipendenti.

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Mal gliene è incolto, perché non ha tenuto conto: 1) dell’evoluzione culturale delle nuove generazioni di operai cinesi, animate da una rabbia e uno spirito combattivo sconosciuti alle precedenti generazioni 2) della loro abilità nell’usare i social network come strumenti di organizzazione e mobilitazione dal basso. Il risultato, come racconta il [url”New York Times”]http://www.nytimes.com/2014/05/03/world/asia/plying-social-media-chinese-workers-grow-bolder-in-exerting-clout.html?_r=0[/url], è stato uno dei più lunghi e partecipati scioperi della storia recente del Paese: 40.000 operai hanno bloccato le linee di produzione per due settimane, infliggendo all’azienda 27 milioni di danni. Alla fine il governo cinese, non riuscendo a bloccare la vertenza, si è rassegnato a intervenire e a costringere la Yue Yuen Industrial Holdings ad accettare un accordo. Pur in assenza di sindacati indipendenti (vietati dalla legge cinese) i lavoratori cinesi, secondo lo stesso articolo, hanno effettuato ben 1100 scioperi e proteste dal giugno del 2011 alla fine del 2013, mentre se ne registrano 200 solo negli ultimi due mesi.

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Lo strumento che ha favorito queste imponenti mobilitazioni (che hanno strappato consistenti aumenti salariali e altre concessioni) è stato un software di messaggistica chiamato Weixin (conosciuto anche con il nome inglese We Chat) che ha trecento milioni di utenti in grande maggioranza giovani: gli operai lo usano sistematicamente per scambiare informazioni, coordinare le azioni e estendere le lotte attraverso il passa parola. Ma attribuire tutto questo fermento sociale alla Rete sarebbe un errore non meno pacchiano di quello che ha indotto i media occidentali ad appioppare alla Primavera Araba l’etichetta di Twitter Revolution – una semplificazione su cui hanno giustamente ironizzato autori come [url”Evgenij Morozov”]http://www.theguardian.com/commentisfree/2011/mar/07/facebook-twitter-revolutionaries-cyber-utopians[/url].

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Per capire le radici di questa ondata di lotte di classe è meglio andarsi a leggere il bel libro della sociologa cinese Pun Ngai, tradotto in Italia da Jaca Book con il titolo “[url”La società armoniosa”]http://www.jacabook.it/ricerca/schedalibro.asp?idlibro=3761[/url]”. Pun Ngai analizza la cultura dei quasi trecento milioni di migranti interni che si sono riversati dalle campagne nelle grandi città dove vivono e lavorano in condizioni di sfruttamento spaventoso, paragonabili solo a quelle della classe operaia inglese dell’800 descritte da Engels. Sfruttati ma anche dotati di conoscenze, curiosità e competenze assai più avanzate di quelle dei loro genitori e quindi meno disposti a sopportare quelle condizioni disumane. Una massa operaia che, al pari di quella riversatasi dal nostro Sud a Torino e Milano negli anni 60 del 900, si sta rivelando poco propensa a chinare la testa e decisa a strappare redditi e condizioni di lavoro e di vita migliori. Quando la tecnologia incontra il capitale sono dolori per le classi subordinate, ma quando invece la tecnologia incontra la classe operaia sono dolori per i padroni.

(5 maggio 2014)

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