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di Marcello Foa.
C’è qualcosa che non torna negli annunci di Matteo Renzi sulla liberalizzazione del mercato del lavoro. Sia chiaro: le economie di mercato funzionano quando possono operare con la dovuta flessibilità . Vale per il mercato dei cambi (vedi i danni provocati dalla rigidità dell’euro) e anche per il mercato del lavoro.
A una condizione: che agli imprenditori sia permesso di fare impresa e che la cultura sociale del Paese sia basata solidamente sulla convivenza civile e il rispetto della persona.
Mi spiego. Come sanno i lettori di questo blog da tre anni sono tornato in Svizzera, dove dirigo il gruppo editoriale Corriere del Ticino-Timedia. In Svizzera il posto fisso non è garantito a nessuno. Si può licenziare con un preavviso di 2 mesi e senza TFR, tuttavia nessun imprenditore abusa di questo diritto. I posti non sono tecnicamente fissi, nel senso che nessuna legge li tutela vita natural durante, ma molto stabili. Si licenzia a fronte di gravi mancanze professionali o in caso di crisi/ristrutturazione.
C’è un vincolo sociale o se preferite morale che porta i dirigenti delle imprese a usare con buon senso e nelle giuste proporzioni un diritto in sè molto potente.
La cultura prevalente tende a biasimare chi scade nell’abuso o nello sfruttamento e, sebbene ci siano dei casi disdicevoli, pochi violano questa legge non scritta.
Inoltre, come noto, la Svizzera primeggia nelle classifiche mondiali sull’imprenditoria. La Svizzera è business friendly : le aziende nascono, crescono, si sviluppano e restano sul territorio. Risultato : la disoccupazione è bassissima e la Confederazione elvetica continua ad assumere lavoratori dall’estero a riprova di un mercato dinamico.
Ma in Italia ? Purtroppo in Italia non si può dire lo stesso. La cultura sociale non è basata sul rispetto ma sulla sfiducia sociale, sull’elusione della legge, sui rapporti di forza con le controparti sociali.
A fronte di molti imprenditori seri che hanno un rapporto corretto spesso esemplare con i propri dipendenti, ne esistono altri – sovente nei servizi -che scadono nello sfruttamento, quegli imprenditori (ammesso che possano essere considerati tali) che assumono in nero o vanno avanti con contratti a tempo determinato senza mai trasformarli in contratti a tempo indeterminato, insomma che sfruttano i lavoratori, che speculano sulla loro disperazione sociale.
Sono questi figuri che alla fine legittimano e rafforzano il sindacato.
E c’è l’Italia di oggi: un’Italia ormai quasi deindustrializzata non per demerito dei suoi imprenditori ma a causa degli effetti delle politiche irresponsabili, vessatorie e ingiuste volute dall’establishment europeo e portate a termine con solerzia da Mario Monti ed Enrico Letta, con la benedizione del Pontefice di Francoforte Mario Draghi. Nell’Italia di oggi il problema non è il posto fisso, bensì che il posto non c’è più.
Coloro che hanno provocato questa desertificazione economica sono gli stessi che da 15 anni promettono di anno in anno riprese che non arrivano mai, paradisi che non si materializzano mai, vaticinano di economia di mercato e di flessibilità ma promuovono la burocratizzazione dell’economia europea, avallando rigidità strutturali insostenibili.
E fino a quando Matteo Renzi non avrà affrontato questo problema, trovando il coraggio di distanziarsi dal pensiero unico dominante e di mettere di nuovo le aziende nelle condizioni di crescere in libertà , nulla verrà risolto. La riforma dell’articolo 18 rischia di non produrre gli effetti virtuosi sperati ma, paradossalmente, di far aumentare la disoccupazione o di comprimere ancor di più verso il basso i salari.
Da sola non basta. Ci vorrebbero un progetto, un’idea del Paese, fiducia nel genio imprenditoriale degli italiani e il coraggio di liberare le imprese e l’Italia dai vincoli burocratici ed esterni che ne inibiscono la creatività .
Ci vorrebbe un leader concreto, coraggioso e lungimirante. Qualcuno di ben diverso da Matteo Renzi.
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