di Pierfranco Pellizzetti.
Dopo aver ascoltato Yoram Gutgel, il sedicente guru economico di Renzi ospite ieri sera dalla Gruber, non ci sono più dubbi: soltanto uno stuolo di camerieri poteva allestire quella pubblica messa in scena di servilismo chiamata jobs act.
La presunta ricetta per rilanciare l’economia attraverso licenziamenti a
go-go coniugati con tagli salariali. In cambio della benevolenza di
lorsignori (si tratta di mega-manager arraffa stock option o di
imprenditori capaci di fare i fenomeni con i soldi altrui). Comunque,
quell’un per cento di privilegiati e di potenti a cui queste
mezzecalzette si prosternano a baciare la pantofola. Magari in cambio di
un buffetto o di un estemporaneo invito ad un rinfresco padronale in
villa.Mezzocalzismo impietosamente evidenziato (quanto volontariamente?)
dalla conduttrice, mettendo il dimesso Gutgel a confronto con
un’economista di taglio internazionale quale Mariana Mazzucato;
la studiosa a cui sono ben note le dinamiche dell’innovazione trainate
da una politica industriale in cui la ricerca pubblica svolge il ruolo
decisivo. Come avviene – al di là delle chiacchiere sugli imprenditori
privati “cavalieri della valle solitaria†– in tutte le economie
avanzate. Appunto, dagli Stati Uniti fino alla Germania.
Sicché faceva quasi pena sentire pigolare il consigliori renziano di un’Italia dipinta con i colori che solo un “brambilla brianzoloâ€
potrebbe avvallare: i mancati investimenti e i blocchi patologici della
crescita d’impresa per colpa della triade burocrazia, tasse e costo del
lavoro. Con una pennellata di passaggio sull’articolo 18.
Quando le ragioni sono tutt’altre. Come la stessa Confindustria
ammetteva quando non si dimostrava disponibile a cavalcare il
revanscismo delle sue componenti più becere. Difatti, tre lustri fa
proprio l’organizzazione degli industriali aveva promosso una ricerca,
in collaborazione con l’istituto Taliercio, sulla “questione
dimensionale†che dichiarava a chiare lettere come l’italico nanismo
delle aziende trova la propria origine nella struttura proprietaria familiare:
non si cresce perché i padroncini e i loro congiunti hanno paura di
vedersi scappare di mano il controllo della situazione.
Nell’inconfessato timore di non essere all’altezza di un salto di
qualità competitivo.
Difatti la vera origine della crisi economica italiana è che ci si affida a queste ownership
d’impresa che presidiano senza slanci di fantasia e coraggio prima di
tutto le proprie posizioni di potere. Come dimostra il fatto che – rare
eccezioni a parte – le nostre fabbriche da quarant’anni si sono sedute
su una gamma merceologica circoscritta ai beni per la casa e la persona:
prodotti a bassissima soglia tecnologica di entrata e per questo copiabilissimi. Dunque, ampiamente copiati dai Paesi di nuova industrializzazione.
Sembra abbastanza evidente che dando mano libera a questa banda di
gente impegnata a covare uova di pietra non deriverà altro che un’opaca
difesa al ribasso di posizioni declinanti. Mentre solo un Grande Piano
di intervento pubblico, che attivi e guidi fertili incontri tra ricerca e
impresa attraverso scelte da sistema-Paese, può invertire le tendenze disastrose in atto.
Intervento sotto forma di investimento ma anche di scelte mirate
nell’allocazione di tali risorse. E di controllo. Come fanno gli Stati
Uniti, la Cina e la Germania, ad esempio in materia di fonti energetiche
alternative. Come proponeva di fare qui da noi il grande Paolo Sylos Labini nel campo della meccatronica (l’elettronica innestata sulle antiche eccellenze italiane nella meccanica).
Ma per fare questo bisognerebbe avere maturato un qualche giudizio
meno stereotipato (e servile) nei confronti delle vicende economiche
italiane degli ultimi decenni. E il coraggio di liberarsi da vassallaggi
psicologici nei confronti di una genia che ha trasformato
l’innovazione, l’Hi-Tech o le specializzazioni competitive in meri
fantocci da convegno. Bisognerebbe che la banda Renzi fosse una classe dirigente.
(di Pierfranco Pellizzetti, da Il Fatto Quotidiano)
Tratto da: SylosLabini.info.
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