La politica della coalizione sociale

La proposta di Landini, ritorno alle origini mutualistiche del movimento operaio e costruzione territoriale e trasversale di alleanze politiche. Cosa manca?

La politica della coalizione sociale
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1 Aprile 2015 - 22.00


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L’iniziativa
proposta da Landini non è solo un ritorno alle origini mutualistiche
del movimento operaio ma è anche la costruzione territoriale e
trasversale di alleanze politiche e, perché no, caso per caso, anche
elettorali. A cominciare dalle prosssime amministrative

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di
Guido Viale
.

Con una nota di Giulietto Chiesa in coda all”articolo.

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Il
progetto di coalizione sociale promosso dalla Fiom e consolidato
dall’imponente manifestazione del 28 marzo offre a tutte le persone
di buona volontà un’opportunità che non va lasciata cadere.

La
proposta circolava da tempo: era già stata avanzata da Rodotà in
un’assemblea dell’Altra Europa lo scorso giugno e raccolta in
diversi documenti di questa organizzazione, rimasti però senza
seguito, avendo L’Altra Europa imboccato invece la strada di un
accordo tra partiti e correnti della sinistra esterna ed interna al
PD.

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Ora,
sotto l’ombrello della Fiom, la coalizione sociale sarà per sua
natura una realtà policentrica, la cui trama può cominciare a esser
tessuta dai punti più diversi del territorio e della struttura
sociale, senza che tra le diverse iniziative si vengano a creare per
forza competizioni o sovrapposizioni.

L’obiettivo
comune è quello di aggregare formazioni, comitati, associazioni,
movimenti, sindacati – ma anche singoli non organizzati – non solo
differenti tra loro per storia, composizione sociale, obiettivi e
pratiche, ma tra i quali sussistono spesso, latenti o espliciti,
fattori di incompatibilità o di conflitto. Ma il lavoro di
ricomposizione di queste differenze – che una volta affrontate si
rivelano un fattore di ricchezza sia per tutti che per il progetto
comune – è proprio ciò che rende anche politica la coalizione
sociale: una formazione composta da movimenti e iniziative che per
natura o per la loro storia hanno obiettivi monotematici, o operano
in campi limitati, o sono confinati in ambiti locali.

Perché
la politica “buona” – quella orientata alla promozione, al
rafforzamento e al collegamento di lotte e iniziative contro le
strutture consolidate del potere o le misure che colpiscono la
maggioranza della popolazione – non è altro che questo: unire ciò
che il capitalismo (e in particolare, la sua configurazione
globalizzata e finanziarizzata di oggi) divide.

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Per
questo una coalizione sociale ben praticata è anche sempre
“politica”.

Ma
non è vero il contrario: un”aggregazione di organizzazioni politiche
oggi tende a rivelarsi fattore di divisione tra le componenti sociali
che dovrebbero esserne il riferimento. Perché qui entrano in gioco
diverse rivalità: nel migliore dei casi tra visioni (e a volte anche
solo linguaggi) differenti e ciascuna aspira ad affermare la propria
egemonia sulle altre; nel caso peggiore, e più frequente, tra
esigenze rivali di sopravvivenza delle strutture o di riproduzione
della porzione di ceto politico presente in ciascuna organizzazione.
Un rischio da cui non sono esenti nemmeno le grandi associazioni, che
hanno anch’esse una propria piccola burocrazia interna; ma in
misura infinitamente minore, perché la loro missione e le loro
radici nella società le inchiodano in qualche modo a comportamenti
meno ondivaghi.

E’
quello che a mio avviso non hanno capito i molti – tra cui Paolo
Favilli in un articolo sul manifesto del 28 marzo scorso –
che giocano sulla reversibilità tra i due concetti: se una
coalizione sociale è necessariamente politica, una coalizione
politica non può che essere anche sociale.

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Le
cose non stanno così e molte vicende, anche recenti, ce lo hanno
dimostrato abbondantemente. Per questo una coalizione sociale, a
differenza di un accordo tra partiti, non può che essere “né di
destra né di sinistra”, nonostante che gran parte dei valori che
fa propri siano quelli della sinistra tradizionale (ma anche su
questo il femminismo ha certamente molto da dire; e da ridire).

Ovviamente
metter d’accordo organizzazioni sociali differenti e tra loro in
gran parte estranee è più complicato e richiede più tempo, ma è
anche più solido, che stringere un patto tra i vertici di partiti o
di correnti diverse.

Ma
può aiutare, in questo compito, ciò che già era stato prospettato,
e mai attuato, all’interno de L’Altra Europa dopo le
elezioni europee: la formazione di gruppi di lavoro in cui le diverse
componenti della coalizione possono confrontare le loro posizioni su
alcuni temi specifici; ma anche le loro pratiche, che sono spesso,
assai più delle dichiarazioni programmatiche, ciò che divide. E’
in sedi come queste che si possono individuare i punti di convergenza
e promuovere iniziative comuni: non necessariamente tra tutte le
componenti della coalizione in fieri, ma solo tra coloro che su quei
punti già si trovano d’accordo.

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Poi
si può mettere a confronto le posizioni di coloro tra i quali
l’accordo non è stato trovato e verificare, con uno scavo sulle
ragioni di queste divergenze, ma anche attraverso il confronto con le
tante posizioni diverse che vi partecipano, se è possibile arrivare
a una mediazione. Ed è nel corso di questo lavoro che, tra alcune –
non necessariamente tutte – componenti della coalizione può emergere
e consolidarsi la proposta di una lista elettorale, senza che una
scelta del genere impegni tutti. Per questo il problema dei due tempi
posto da Rodotà – prima la coalizione sociale; poi, magari, anche
la lista elettorale – non si pone. Le due cose possono marciare
separatamente all’interno di un unico progetto; a condizione che si
tengano a bada, escludendole dalla coalizione, le aspirazioni
egemoniche dei partiti.

Presto
il progetto della coalizione sociale, promosso a livello nazionale,
si riproporrà a livello locale: qui le combinazioni, come i punti di
partenza e le prime esperienze di un’iniziativa che mira all’unità,
ma non parte da essa, potranno essere le più varie; ed è bene che
ciascuno cominci a lavorare nei modi e con gli interlocutori che gli
sono più consoni.

Si
tratterà di aggregazioni che, come indica il nome – Unions!
della mobilitazione del 29 marzo, si richiamano allo spirito
mutualistico e solidale degli albori del movimento operaio. Ma che
riprodurranno anche, per il loro legame con territori e comunità,
quel community unionism che ha innescato la ripresa del
movimento sindacale negli Stati Uniti, soprattutto tra i lavoratori
immigrati e meno qualificati; e che non si ferma – anche se
ovviamente non la trascura – alla contrattazione salariale e delle
condizioni di lavoro, ma si fa carico di tutta la condizione sociale,
e anche esistenziale, dei suoi adepti.

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Per
questo la coalizione sociale è anche un ritorno alle origini:
rinnovato per misurarsi con la complessità degli assetti sociali
odierni.

Alle
origini, le istituzioni del movimento operaio avevano una base
sociale anche nel territorio: la fabbrica non distava dalle
abitazioni degli addetti e i quartieri operai erano contigui alle
unità produttive. Le prime lotte operaie traevano gran parte della
loro forza dal loro retroterra.

La
disgregazione di quel tessuto sociale ad opera di un’urbanistica
che aveva come obiettivo la separazione e il distacco tra il lavoro e
la residenza – e la dispersione di questa in un pulviscolo abitato da
lavoratori di fabbriche e uffici tra loro lontani – ha cambiato i
connotati della condizione operaia: ben prima che la frammentazione
dell’impresa fordista in una molteplicità di unità produttive
separate, sottoposte a differenti regimi contrattuali in paesi e
continenti diversi cominciasse ad aggredire l’unità della classe
operaia anche sui luoghi di lavoro.

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Il
sindacalismo “operaista” che ha avuto la sua epopea in Italia e
in Europa negli anni ’60 e ’70 e negli Stati Uniti negli anni ’30
e ’40 – ma il cui modello permane, pur in un contesto
completamente cambiato – non è che il residuo di questo
“intermezzo” storico: tra la disgregazione dell’unità di
classe sul territorio del tardo ottocento e del primo novecento e
quella sui luoghi di lavoro della fine del novecento e dell’inizio
di questo secolo.

Oggi,
in un contesto globalizzato, la dimensione territoriale delle
alleanze (dove il lavoro di cura, domestico e no, l’altra economia
e la conversione ecologica possono trovare il loro spazio più
proprio) torna ad avere un ruolo di primo piano.

E’
da lì che possono ricrearsi processi stabili di confronto e di unità
tra diversi.

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NOTA DI GIULIETTO CHIESA

[tratta dalla sua pagina Facebook]



Sono stato alla manifestazione di Landini. Era, prima di tutto un dovere: non lasciare soli coloro che non hanno rinunciato a combattere. La Fiom prima di tutto. Ho visto un popolo sofferente, arrabbiato. 
Ma ho visto e sentito anche tanta amarezza. Lo dico francamente: ho visto e sentito più divisioni che certezze. Soprattutto sono rimasto colpito dall”assenza …. del mondo. Nei discorsi dal palco, e in quelli della gente che ascoltava. E mi sono detto: come si può costruire una forza di opposizione se non si parla della crisi mondiale? Se non si dice chiaro ai lavoratori che non potranno uscire dalla loro condizione attuale se non terranno conto di ciò che accade fuori dai nostri confini, italiani ed europei? Se si rimane solo a guardare le catene che ci legano?
Se non si dice che siamo già entrati, nostro malgrado e senza che nemmeno ce ne accorgiamo, in una guerra vera?
Come si può mettere in crisi il nemico se non si individuano i suoi punti di forza e quelli della sua debolezza? L”italia è una colonia. In una piattaforma per la riscossa non si può non mettere, al primo posto, la fine della nostra subordinazione. Non è mai stato detto, neppure di sfuggita, che, se non ci poniamo l”obiettivo di uscire dalla Nato, saremo costretti a andare in guerra. Non fra venti anni: tra poco.

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