Oltre la condivisione

Cooperazione e mutualismo nella sharing economy. [Giacomo Pisani]

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2 Marzo 2016 - 22.22


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di Giacomo Pisani

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L”articolo è stato pubblicato il 28 febbraio 2015 su [url”EuroNomade”]http://www.euronomade.info/[/url]. Ringraziamo Giacomo Pisani per averci gentilmente concesso di riprenderlo qui. Buona lettura. (pfdi)

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Si assiste, negli ultimi tempi, allo sviluppo di forme inedite di cooperazione e mutualismo: cohousing, coworking, sharing economy, crowdfunding, ecc. Tali esperienze non solo nascono spontaneamente sul terreno della cooperazione, creando spazi di condivisione e di autogestione e producendo autonomamente valore economico nella crisi, ma suppliscono sempre più spesso, attraverso la solidarietà e il mutualismo, alla strutturale insufficienza di un welfare tarato sul lavoratore salariato, subordinato, proprietario almeno della forza-lavoro.

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Sul lavoro e sulla proprietà si è costruita tutta l’architettura istituzionale moderna. Come scriveva Locke, è il lavoro che ci permette l’appropriazione delle cose presenti nello “stato comune”, è il lavoro che fonda la proprietà. Proprio sul lavoro astratto, al di sotto della persona libera ed eguale – quel “portatore di maschera”, il Charaktermasken, di cui parla Marx nel primo libro del Capitale – sono concentrati potenti dispositivi di disciplinamento e sfruttamento, su cui si è sostenuta l’accumulazione e l’autovalorizzazione capitalista.

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Ma il soggetto su cui si è costruito il diritto proprietario moderno non è semplicemente il singolo lavoratore, astratto dai rapporti materiali in cui si svolge la sua attività lavorativa. La grande sfida del diritto pubblico novecentesco è consistita nel far presa sui soggetti collettivi che si sono costituiti sul terreno della produzione di fabbrica, disinnescandone il potenziale rivoluzionario, includendole entro la mediazione costituzionale e facendone il perno dello sviluppo economico. Il capitale ha sempre fatto leva sulla sovranità e sulle sue istituzioni intermedie, nonostante queste ultime, favorendo la creazione di soggetti collettivi, costituissero una continua minaccia al suo sviluppo. E’ la mediazione di tale contraddizione a determinare il progressivo passaggio dalla sovranità ad un potere di tipo governamentale, diffuso e decentralizzato.

Le costituzioni novecentesche hanno inglobato il lavoro come fattore fondamentale di organizzazione e sviluppo della società, poggiandosi sul compromesso fordista fra borghesia industriale e classe operaia. In Italia, la costituzionalizzazione della contrattazione collettiva ha costituito il tentativo più alto, da parte dello stato, di pianificare la mediazione fra capitale e lavoratori, senza mai intaccare il primato della proprietà privata. Ma la sconfitta, nel dibattito giuslavorista sulla Costituzione, della scuola “pubblicista” di Mortati, ha fatto sì che i soggetti collettivi – in primis i sindacati – si siano sviluppati sul terreno dei rapporti di produzione, forzando “dal basso” la gerarchia delle fonti. Lo statuto dei lavoratori ha costituito il punto d’arrivo di una stagione di lotte “mediata” – non senza difficoltà, data la riluttanza dell’operaio-massa a lasciarsi inquadrare all’interno della norma dello sviluppo attraverso il lavoro – dalle identità collettive prodotte dentro l’organizzazione lavorativa taylorista/fordista.

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In questo quadro si sono sviluppati i grandi sistemi di protezione sociale novecenteschi. Il “welfare assicurativo”, che si è sviluppato in Europa nel dopoguerra, in una stagione di grandissima crescita economica tutta poggiata sullo sviluppo industriale, ha accentrato nelle mani dello stato la gestione del sistema previdenziale, relegando l’assistenza al lavoro familiare – per lo più femminile – entro le mura domestiche. Se, da un lato, l’assicurazione e il controllo del rischio hanno costituito dei formidabili dispositivi di governo della popolazione, la cui penetrazione entro le più intime dimensioni dell’esistenza ha favorito una straordinaria espansione del potere biopolitico, è anche vero che il welfare ha inciso sulle basi materiali dello stato, favorendo una sempre più ampia socializzazione delle forze produttive. Su questa continua mediazione fra conflittualità operaia e strategie di controllo, espansione produttiva e disciplinamento, tensione sociale e integrazione giuridica, ha poggiato la grande stagione sviluppista dei cosiddetti Trenta gloriosi.

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La crisi di quella mediazione va di pari passo con la crisi del fordismo, che segna la fine dell’omogeneità che caratterizza tempi, luoghi, posti e mansioni del lavoro e della produzione. All’interno del capitalismo cognitivo, la produzione è sempre più connessa con la sfera affettiva e relazionale, e il capitale ha imparato a sfruttare e ad incidere sulla cooperazione che si sviluppa al di fuori del posto di lavoro riconosciuto in senso contrattuale. Le aziende stimolano la creazione di comunità virtuali che fungono da serbatoi di identità per gli utenti, i quali partecipano alla produzione esprimendo gusti, preferenze, affinità ecc. La sfera affettiva e relazionale è il terreno fondamentale della produzione e dell’assoggettamento, in cui si realizza una sempre più stretta adesione dei desideri dei clienti agli indirizzi aziendali.

Così, anche la filosofia che si va sviluppando a livello aziendale nell’ambito della selezione delle risorse umane e dell’organizzazione del personale punta sul coinvolgimento dei lavoratori e sulla loro responsabilizzazione ai fini del raggiungimento degli obiettivi comuni. In ciò risiede l’ambiguità del capitalismo contemporaneo: nella non costrizione ma nell’investimento sulle capacità di cooperare, nell’autovalorizzazione entro le soglie del merito e della valutazione, nella stimolazione del desiderio entro il perimetro del mercato.

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Al di là del mondo aziendale, infatti, la libertà, insieme alla sicurezza, costituisce il principio cardine della governamentalità neoliberale. Il potere governamentale, come ci insegna Foucault, governa per linee interne, produce e consuma libertà incidendo sull’ambiente sociale. Il luogo di veridizione del potere si sposta dal diritto al mercato, e a tal fine è necessario circoscrivere l’interesse soggettivo e le decisioni entro le possibilità funzionali alla riproduzione sociale organizzata dal capitale.

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Più che al venir meno della sfera pubblica e del diritto, si assiste a una moltiplicazione dei dispositivi e degli status giuridici con cui viene governata l’eterogeneità delle soggettività produttive e a una perdita di centralità dei soggetti collettivi e dei corpi intermedi. Tale diversificazione dei dispositivi giuridici è finalizzata, piuttosto che all’omogeneizzazione e al disciplinamento, alla mera gestione delle differenze che si producono all’interno della sfera mercantile, che domina incontrastata i rapporti sociali.

Di fronte alla crisi del modello fordista, anche il welfare classico dimostra tutta la sua insufficienza. Certamente in Italia anche l’integrazione dei diritti sociali alla cittadinanza è sempre stata estremamente problematica, e quella immersione dei diritti fondamentali nella materialità dei rapporti sociali, attraverso il riconoscimento della dignità come sfera dell’“indecidibile”, sostenuta dalla buona tradizione costituzionalista, si è sempre tradotta, di fatto, in un sistema di protezione parziale e corporativo. Il welfare italiano ha sempre avuto carattere particolaristico-clientelare, frutto di un mix fra misure assistenziali e misure previdenziali, che ne hanno determinato il carattere lacunoso e frammentario.

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Oltretutto, negli ultimi anni, le politiche di austerity dei singoli stati nazione, incardinate in una governance trans-nazionale divenuta progressivamente più gerarchica e violenta, hanno avuto di mira proprio il welfare e i servizi pubblici. Sotto il ricatto del debito, sostenuto dalla retorica dell’incapacità e della colpa, i soggetti che hanno fatto le spese della crisi, sia a livello europeo che all’interno dei singoli stati, sono stati quelli “incapaci” di far quadrare i conti, di provvedere da sé al proprio sostentamento.

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Negli ultimi tempi, però, si assiste ad un fenomeno che merita attenzione. In tutta Europa sorgono iniziative che, dal basso, creano valore – anche economico – nella crisi. Esperienze di cohousing, coworking, sharing economy, non solo oppongono pratiche si solidarietà e mutualismo all’idea di un’assistenza fornita “dall’alto”, ma producono valori e pratiche che spesso si sottraggono alla determinazione e alla valorizzazione capitalista.

Esse non rifuggono l’astrazione del mercato per rifugiarsi nella nostalgia di un’autenticità perduta da cui guardare le brutture del mondo, ma assumono propriamente la socializzazione delle forze produttive e costruiscono orizzonti di senso nella crisi, dentro i rapporti di produzione, forzando le regole del gioco.

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Certo, la critica è nota: spesso attraverso dalla sharing economy i privati traggono grandi profitti. Nella maggior parte dei casi le esperienze di cooperazione non sono affatto estranee a dinamiche di accumulazione, che vanno a vantaggio delle corporations proprietarie delle piattaforme. Anzi, in alcuni casi (basti pensare a Uber), l’assenza di tutele sindacali e contrattuali si traduce in flessibilità e ricatto ancor maggiori.

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Il fatto che i privati mantengano la proprietà delle piattaforme non è ininfluente rispetto all’organizzazione del lavoro all’interno delle reti tipiche della sharing economy, in cui la cooperazione risulta sempre più condizionata dai tempi e dalle esigenze dei mercati. Di certo, però, i tratti di autonomia e di relazionalità che caratterizzano tali esperienze, in cui la netta separazione fra l’accesso – massimamente inclusivo – e la proprietà riconfigurano radicalmente lo spazio della produzione, fanno sì che i processi di autovalorizzazione coincidano con l’autodeterminazione esistenziale.

In questa sempre più ampia coincidenza fra forme di vita e forme di produzione, l’accumulazione viene piegata all’iniziativa dei soggetti che si uniscono e cooperano, e in tal modo rimodulano gli spazi della produzione come quelli della vita in comune. Cooperazione e autodeterminazione si realizzano non al di fuori del mercato, che anzi dipende sempre più dalla condivisione e dalla libera iniziativa. La così netta separazione fra proprietà e accesso, che può realizzarsi massimamente attraverso le piattaforme online, consente questa compresenza di libera gestione ed auto-organizzazione cooperativa e accumulazione privatistica.

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Nel mondo dei coworkers, come in quello del lavoro autonomo, si sono moltiplicati negli ultimi tempi esperimenti di sindacalizzazione dal basso. Basti pensare ad Acta , alla coalizione 27 febbraio, alle camere del lavoro autonomo e precario (Clap). I nove punti della Carta dei diritti e dei principi del lavoro autonomo e indipendente, proposta dalla Coalizione 27 febbraio e in fase di discussione in questi giorni in giro per l’Italia, comprendono: reddito minimo garantito, estensione degli ammortizzatori sociali, equità previdenziale, gestione separata INPS, casse previdenziali degli ordini, sostenibilità fiscale, equo compenso, contrasto alla penetrazione del capitale negli studi professionali, sospensione dello sfruttamento del lavoro negli studi professionali, fondi europei, ravvedimenti operosi. In tali rivendicazioni c’è il desiderio, da parte dei lavoratori autonomi, di mantenere la propria specificità, che comprende elementi di libertà ed emancipazione dalla subordinazione, entro un sistema di protezione sociale che assuma l’eterogeneità della produzione.

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Ci sembra però che, nella cooperazione, entrino in gioco potentemente anche elementi politici. Se è vero che le attuali forme di cooperazione e condivisione riconfigurano lo spazio sociale, è anche vero, come abbiamo visto, che questo spazio resta subordinato ai dispositivi proprietari, che rendono i frutti della cooperazione patrimonio di pochi. In molte di queste esperienze si sperimentano già pratiche di auto-organizzazione, solidarietà, condivisione, gestione del comune.

Ed è sullo sfruttamento del comune che poggia l’accumulazione. Rispetto a questo non basta una class action, non si tratta di una semplice richiesta di risarcimento, ma di affermare questa possibilità di auto-gestione, di auto-valorizzazione, al di fuori dei dispositivi proprietari, e di tradurla in istituzioni del comune. E’ in questo senso che l’economia della cooperazione riscrive lo spazio politico, e a partire da questo spazio è necessario immaginare delle istituzioni che assumano la centralità della cooperazione sociale, nella sua autonomia ed eterogeneità, e la riconoscano nella sua capacità di trasformare il reale.

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(28 febbraio 2016)

[url”Link articolo”]http://www.euronomade.info/?p=6818[/url] © Giacomo Pisani

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