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Lo shopping senza limiti non aumenta né consumi né produttività

Il dibattito sulla regolamentazione degli orari e dei giorni di apertura degli esercizi commerciali appare viziato su entrambi i fronti (favorevoli e contrari). [G. Forges Davanzati]

Lo shopping senza limiti non aumenta né consumi né produttività
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15 Settembre 2018 - 12.14


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di Guglielmo Forges Davanzati

Il dibattito sulla regolamentazione degli orari e dei giorni di apertura degli esercizi commerciali appare viziato – su entrambi i fronti (favorevoli e contrari) – dal non tener conto di quanto si è fin qui fatto e dei risultati conseguiti. In altri termini, sembra che questo Governo abbia lanciato una proposta radicale e radicalmente nuova: così non é e gli argomenti a favore della maggiore regolamentazione degli orari e dei giorni di apertura erano noti da tempo.

I sostenitori della deregolamentazione fanno propria la tesi secondo la quale le c.d. riforme strutturali attivano crescita: la liberalizzazione del mercato dei beni e dei servizi – si sostiene – è un motore di crescita. Questa tesi – dominante in Italia qualche anno fa e niente affatto scomparsa – regge sull’ipotesi per la quale è la pressione concorrenziale a spingere le imprese a competere accrescendo la produttività. Si assume, cioè, che è solo creando le condizioni perché la concorrenza fra imprese sia completamente deregolamentata che le imprese abbiano incentivo a innovare. A ciò si aggiunge la tesi per la quale, con esercizi commerciali aperti ogni ora del giorno e ogni giorno dell’anno, i consumi aumentano.

L’evidenza empirica mostra che ciò non è accaduto; solidi argomenti teorici mostrano che molto verosimilmente non potrà accadere.

L’evidenza empirica. L’Italia, anche in questo caso, è un unicum in Europa. In alcuni settori, gli esercenti italiani, possono essere aperti 365 giorni l’anno, senza alcun limite. Ciò in virtù delle norme contenute nel c.d. Decreto Salva Italia promulgato dal Governo Monti. La proposta del governo – regolamentare gli orari e i giorni di apertura – non è una novità: ci aveva provato il Movimento 5 stelle nella scorsa legislatura e anche il PD.

Dal 2012 a oggi, il sentiero di riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro – che si avvia almeno dagli inizi degli anni novanta – non si è mai interrotto. Ciò che semmai è accaduto è un ulteriore riduzione dei salari e un aumento delle ore lavoro. Va segnalato, a riguardo, che l’Italia, nel confronto con la media dell’eurozona, è il Paese nel quale gli occupati lavorano più ore. Cosa che evidenzia come le liberalizzazioni – e la conseguente accresciuta concorrenza fra esercizi commerciali – non si associano a innovazioni, ma a misure che incidono sui costi di produzione. La pressione concorrenziale può semmai generare eccedenze di produzione. La singola impresa è indotta a produrre quanto più possibile nei tempi più rapidi (la c.d. concorrenza basata sul tempo). Nell’aggregato, poiché i salari non aumentano e dunque non aumentano i consumi, il risultato è l’esistenza di merce invenduta.

Il nesso fra liberalizzazioni e riduzione (o non aumento) della produttività passa per due canali:

1. Il settore dei servizi – si pensi ai supermercati – è un settore “stagnante”, ovvero un settore nel quale le innovazioni di processo e di prodotto sono sostanzialmente assenti. L’unica possibile reazione delle imprese collocate in questo settore a misure di liberalizzazione è provare a essere competitive riducendo i costi di produzione – salari in primo luogo – e accrescere la velocità di produzione e vendita.

2. Se, come accade, le imprese reagiscono a maggiori dosi di liberalizzazione riducendo i salari e aumentando gli orari di lavoro, il rendimento dei lavoratori inevitabilmente si riduce. Come scriveva Francesco Saverio Nitti, agli inizi del Novecento, quando l’orario di lavoro è eccessivo, “gli operai hanno il cuore in sciopero”. Il semplice aumento della stanchezza psico-fisica ne riduce la possibilità di erogare un impegno lavorativo soddisfacente per l’impresa. È dunque semmai la disponibilità di una quantità sufficiente di tempo libero ad accrescere il rendimento del lavoro.

L’argomento per il quale la regolamentazione produce disoccupazione è estremamente discutibile. È un argomento che si basa sulla fallace ipotesi per la quale i consumatori vogliono e possono consumare sempre: in ogni ora del giorno, in ogni giorno dell’anno.

Ed è un argomento che presuppone la discutibile ipotesi per la quale la propensione al consumo dipende dagli orari di accesso ai servizi. Dovrebbe essere, per contro, evidente che – dati i redditi – il volume complessivo di consumi sarà indipendente dall’orario di apertura dei negozi. Ciò che unicamente si modifica a seguito delle liberalizzazioni è semmai la distribuzione temporale degli acquisti.

Le liberalizzazioni accrescono il potere di mercato della grande distribuzione – come di fatto è accaduto – generando l’esito esattamente opposto rispetto a quello dichiaratamente perseguito: ridurre, cioè, la concorrenza. Una ricerca di Confesercenti stima che fra il 2012 e il 2013, gli anni immediatamente successivi al decreto 201/11 sulla c.d. Distribuzione moderna organizzata, nel settore dei servizi si sono persi circa 100mila posti di lavoro, con una flessione di quasi 30 miliardi di minor consumi.

Al di là del fatto che è del tutto inverosimile attendersi che liberalizzando gli orari di apertura, poniamo, dei supermercati o delle farmacie si abbiano effetti positivi e significativi sulla crescita economica, si rileva poi nei fatti che le liberalizzazioni si associano alla creazione di oligopoli; di forme di mercato, cioè, nelle quali operano poche grandi imprese, quelle della grande distribuzione. Che, in virtù delle maggiori dimensioni (e dunque della possibilità di sfruttare economie di scala – ovvero costi che decrescono al crescere dei volumi di produzione) possono agevolmente sottrarre quote di mercato ai piccoli esercenti. L’effetto aggregato non è né un aumento di produttività né un aumento dei consumi né un aumento dell’occupazione.

Vi è poi un ulteriore effetto perverso della totale deregolamentazione dei servizi. Poiché le imprese della grande distribuzione si localizzano laddove la domanda è alta e vi sono effetti di agglomerazione, le misure di deregolamentazione non generano effetti uniformi sul territorio e spesso privano le aree deboli (il Mezzogiorno in primo luogo) di centri di vendita di beni e servizi difficilmente reperibili in piccoli esercizi commerciali: il caso IKEA è emblematico in tal senso.

I difensori delle liberalizzazioni possono avere tanti motivi per essere tali: spesso motivano la loro posizione come ‘modernizzatrice’, contro la posizione di chi difende privilegi e rendite. Sia chiaro, però, che ciò non ha nulla a che fare con occupazione e crescita, dal momento che – come ormai tutti ammettono – maggiore occupazione non si produce con un tratto di penna.

 

Pubblicato su “Nuovo Quotidiano di Puglia“, 15 settembre 2018.

 

 

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