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Crunch. La situazione della classe subalterna nell'industria del videogame

Il mondo del lavoro nella produzione dei videogame. Orari da gulag, lavoratori spremuti oltre ogni misura. Tra note autobiografiche e robuste corde per minacciare di impiccare i capi.

Crunch. La situazione della classe subalterna nell'industria del videogame
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21 Gennaio 2019 - 18.35


ATF

di Massimo Spiga.

Durante il Dust Bowl, la terribile serie di tempeste di sabbia che sconvolsero gli Stati Uniti centrali a partire dal 1931, i contadini si trovarono stretti tra le forze ostili della natura e un flagello ancor più feroce: i banchieri. Incapaci di ripagare i mutui contratti con le banche a causa della carestia, dovettero subire l’ulteriore umiliazione di veder espropriati e messi all’asta i loro terreni. Nel 1932, si contavano mille aste di questo tipo alla settimana. Entro breve, per la prima volta in Iowa, i contadini si coalizzarono in protesta e crearono la tattica delle penny auction (aste da un penny). Ovvero, presero l’abitudine di presentarsi in massa alle aste, appendere un nodo scorsoio all’entrata del caseggiato, e fissare molto intensamente negli occhi chi avrebbe voluto “investire” con l’ acquisizione del terreno di un loro collega, su cui aveva riversato sangue, sudore e lacrime. L’idea ebbe un certo successo. Di norma, le penny auction si concludevano con la vendita del terreno a un centesimo: la proprietà passava nelle mani di un contadino associato alla protesta per poi essere istantaneamente restituito al legittimo proprietario.
Nell’udire il clamore disfattistico nel mondo dei videogame intorno alle terribili condizioni di lavoro che lo caratterizzano, e la soverchiante potenza predatoria dei board aziendali, la mente torna agli zappaterra dell’Iowa e a quanti risultati positivi siano stati ottenuti grazie ad una corda robusta e un minimo di unità tra i disperati.
Comunque, cominciamo dal principio. Qualche mese fa, per l’ennesima volta, è esploso un pandemonio mediatico intorno al medium videoludico: con enorme stupore, il mondo intero si è reso conto che l’intera industria del settore è essenzialmente priva di legge, rappresentanza sindacale, diritti di base, onore o umanità. L’innesco dello scandalo fu un’intervista a Sam Houser, uno dei proprietari della Rockstar Games (il cui valore si aggira intorno ai 3,5 miliardi di dollari). Il gentiluomo si vantò pubblicamente del “duro lavoro” compiuto dallo staff di scrittura, il quale si quantificava in cento ore d’ufficio alla settimana. Tutto ciò scatenò un certo malumore nei lettori, i quali correttamente sottolinearono come una mole di lavoro del genere non fosse prevista neanche nei gulag d’epoca staliniana (14 ore al giorno e non più di 16).
La marea di articoli, video e discussioni online scatenata da questa circostanza esaminò con estrema attenzione le condizioni di lavoro all’interno della Rockstar Games e si allargò presto all’intero settore. Orari settimanali dalle sessanta alle cento ore anche notturne, varie forme di coercizione, licenziamenti ingiustificati, estrema precarietà, paga da fame, estrema diseguaglianza economica tra la base e il vertice: tutto ciò, nell’industria videoludica, è normale ed è simboleggiata dal cosiddetto crunch. 
Questo termine designa i mesi di straordinario che si impongono ai dipendenti in prossimità dell’uscita di un videogame. Siccome parliamo di un’industria nata negli Stati Uniti e le cui aziende principali hanno là sede, è naturale che le routine aziendali siano modellate su quel modello lavoristico, e non su quello europeo.

Il crunch è una disperata corsa verso la meta – ovvero la data d’uscita del videogame – in cui ogni cosa diviene lecita pur di finire in tempo. Si lavora di sabato, domenica, notte, giorno, senza mai scendere sotto le 10-12 ore, in totale violazione di qualsiasi legge sul lavoro, in un contesto di de-sindacalizzazione al 100%. Dopo il crunch, è normale che i proprietari decidano di licenziare una bella sfilza di lavoratori, perché il gioco è fatto e non servono più. Se l’azienda produce un videogame sotto le aspettative degli azionisti (invariabilmente sproporzionate), non è infrequente che la sua casa madre la chiuda (come la EA ha fatto con la Visceral) o che i suoi proprietari licenzino tutto il personale e lo lascino senza stipendi in arretrato né liquidazione (come nel recente caso Telltale Games). Di norma, il crunch viene descritto dai capitani d’azienda come un virile ed eroico sforzo, una vittoria professionale per gente dura, dedita, seria. Criticare la pratica del crunch vuol dire essere equiparato a un effemminato e decadente moccioso, impreparato alle “cose per adulti”. Inoltre, il crunch è concettualizzato come inevitabile, al pari delle eruzioni vulcaniche o dei monsoni stagionali. Come disse Jim Sterling: il crunch non è – ovviamente – un trionfo della forza-lavoro, ma un fallimento totale del management. Vomitare sciocche menzogne secondo le quali il crunch è necessario per produrre bei videogame, come affermato da tutti gli sviluppatori più importanti (Rockstar, EA, CD Projekt Red e via dicendo) è semplicemente un modo vile ed ipocrita per nascondere la propria incapacità di pianificare razionalmente il lavoro. Certo, il fatto che i testicoli dei cavalli di Red Dead Redemption 2 si restringano leggermente quando c’è freddo è molto notevole: è, però, ancor più notevole pensare che qualche disgraziato si sia beccato turni sfibranti per settimane al mero scopo di programmare questa e altre diecimila minuzie insignificanti.
Questo ci porta al vero punto di discussione: il crunch è una pratica cialtronesca, se la nostra attenzione è rivolta ai manager, ma diventa quasi criminale, se puntiamo gli occhi sui lavoratori, perché sia la scienza che il buon senso hanno ampiamente dimostrato come sforare le 50 ore di lavoro settimanale logori la salute fisica e mentale. Ai problemi quali depressione, abuso di sostanze che danno dipendenza, sconquassi cardiovascolari, si sommano dilemmi di tipo puramente sociale: è difficile che un matrimonio possa giovarsi dell’assenza quasi permanente di uno dei due sposi, così come lo sviluppo della prole ne è inficiato («Mamma non ti può crescere, perché sta regolando la dimensione di testicoli equini digitali»). In più, lo squisito bigné odoroso su questa torta di letame: gli straordinari ultra-prolungati, ovvero il crunch, azzerano la produttività dei lavoratori. Qualsiasi studio accademico in merito è giunto alla medesima conclusione: un lavoratore che non dorme, non ha una vita, mangia male, è povero, è disperato, è ridotto a una larva perché passa quattordici ore davanti ad un monitor a compiere azioni ripetitive, ebbene – tenetevi forte – non è affatto produttivo. Lo dice la Scienza.
Molte aziende affermano di non costringere alcun lavoratore a compiere sforzi di questo tipo: si tratta di richieste puramente opzionali. In tutti i casi che ho potuto osservare con i miei occhi, si tratta certamente di una scelta: tra il licenziamento in tronco e il crunch. Nessuno è “costretto” a far nulla. Per sviscerare il concetto, prendiamo ad esempio un lavoratore statunitense (perché di questa nazionalità sono la maggior parte degli impiegati nel settore) afflitto da diabete: la sua scelta è tra le 60-100 ore di lavoro settimanali oppure l’interessante prospettiva di trovarsi disoccupato e senza copertura sanitaria; ergo, con costi d’insulina che variano dagli 800$ ai 1300$ al mese.
Solo un malato di mente può chiamare “libertà” una situazione di questo tipo. Tuttavia, siccome l’estrema ricchezza può essere considerata una forma di malattia mentale, sentiamo come il multimilionario del settore Alex St. John contribuì alla discussione pubblica innescato dall’improvvida asserzione dei leader Rockstar: «[I lavoratori] si lamentano per gli orari prolungati e i sacrifici personali che si trovano a fare, e ne incolpano i loro manager. [Questi dipendenti] fanno finta che il loro impiego non sia un’attività intrinsecamente imprenditoriale, e lo scambiano per un lavoro d’ufficio normale, una cosa dalle 9:00 alle 17:00. In qualche modo, queste persone hanno sviluppato una mentalità da schiavo salariato in una delle più notevoli e privilegiate carriere del mondo.»
Alex St. John, nel citato articolo, prosegue per molti paragrafi ad elogiare chi, a testa bassa, colmo di passione e professionismo, accetta qualsiasi vessazione arrivi dal management, e invita tutti gli altri a licenziarsi, in quanto il settore non ha bisogno di femminucce piagnucolose. Le sue opinioni padronali sono talmente rapaci che la sua stessa figlia, colma di un odio ben sedimentato nei suoi confronti, si è sentita in dovere di smontare le sue tesi «dementi», «errate», «rivoltanti», «narcisistiche», «sessiste», «prodotte dalla crisi isterica di un orrendo bamboccio».

Violando una regola non scritta del commento culturale, descriverò la mia personale esperienza presso una grossa casa di produzione videoludica, nel reparto QA (Quality Assurance). Assunto come localization tester, entro pochi mesi mi resi conto di due fatti salienti: il padrone e il capitale.
Dopo cinque mesi in azienda, non sapevo più quale fosse, di preciso, il mio mestiere. Non mi riferisco alla difficoltà nello spiegare la pipeline ai miei familiari; dopotutto, in linea teorica, gli accordi di non divulgazione mi avrebbero proibito di farlo. Parlo dell’effettiva capacità, da parte mia, di comprenderne l’utilità per chiunque al mondo, esclusi gli azionisti dell’azienda. Il fatto che un pugno di sconosciuti danarosi facesse extra-profitti sulla mia pelle non mi forniva un incentivo.
Lo stipendio era un incentivo? Era a malapena sufficiente per pagare l’affitto e fare la spesa. Gli schiavi dell’antichità ricevevano un pagamento in vitto e alloggio. La situazione si ripropone oggigiorno, con la mera intermediazione del denaro, che tuttavia ero costretto a consumare integralmente al medesimo fine. Se non altro, lo schiavista del passato aveva un interesse diretto nel mantenimento in vita del suo uomo-macchina, mentre i lavoratori odierni sono intercambiabili.
I giorni in ufficio, talvolta allungati fino a dodici ore per l’overtime, ben presto divennero grigie repliche di repliche di repliche. L’inferno del medesimo: una serie di incarichi ripetitivi e spesso ridicoli, senza alcuno scopo apprezzabile. Era una condizione purgatoriale. Se, una mattina, noi tester avessimo scelto di non presentarci in ufficio, il mondo ne sarebbe rimasto immutato, e nessuno se ne sarebbe accorto. Saremmo stati licenziati e sostituiti con altri, i quali avrebbero proseguito, anche loro senza particolare afflato o abilità, a effettuare le stesse meccaniche procedure.
Neanche la prospettiva, meramente materiale, di una promozione aveva alcuna attrattiva. I miei capi svolgevano la mia stessa routine, spesso aggravata da un numero esorbitante di straordinari non pagati, in cambio di una maggiorazione di cento o duecento sterline in busta paga. 
Restavo in ufficio dalle quaranta alle sessanta ore settimanali, a seconda del carico di lavoro. Se la pipeline fosse stata più efficiente, avrei potuto ottenere gli stessi risultati nella metà del tempo. Ma non si poteva migliorare. Ci provammo e ci schiantammo nel muro di gomma dell’amministrazione. In sintesi, la loro posizione era: «Il sistema funziona così com’è». La strutturazione del lavoro era velleitaria, caotica, frutto di infiniti aggiustamenti ad un macchinario via via più disfunzionale. La filosofia professionale impostaci dall’azienda madre, sita all’altro capo del mondo e palesemente ignara delle nostre esigenze di lavoro, era insensata. Talvolta, ci sobbarcavamo settimane di straordinari senza aver niente su cui lavorare, semplicemente perché così era richiesto dalle alte sfere, i proprietari nell’iperuranio, da cui dipendevano anche i nostri boss locali.
Le conseguenze di questa routine erano scolpite nel volto dei quadri intermedi. Il loro ozio era spesso sfiancante anche da osservare; trascorrevano gli infiniti tempi morti a fissare il vuoto o ricontrollare i risultati già prodotti, bere oceani di caffè, fumare montagne di sigarette. Vedevo questi spettri passeggiare per i corridoi con gli occhi cancellati oppure fissare il monitor, istupiditi, alla scrivania. 
Nonostante la palese insensatezza del loro mestiere, potevano allontanarsi dall’ufficio soltanto per un numero limitato di ore annue, controllati dal loro badge: un pezzo di materia inorganica quanto gli algoritmi a cui eravamo asserviti, eppure onnipotente sulla nostra vita. Anche i nostri capi erano schiacciati dalla medesima condizione di noi impiegati. La vita d’ufficio è il trionfo dell’inorganico sull’organico, la moltiplicazione astratta di un denaro che nessuno potrà usare, perché sarà chiuso in ufficio a produrlo per altri, sempre più in su nella catena alimentare. Eppure, come evidenziato nel caso di St. John, anche l’apice è alienato quanto la base. Nella sua essenza, non è un essere umano, ma è il sistema stesso a comandare. Questo è il padrone, questo è il capitale.
Una pletora di commentatori, nell’approcciare il problema delle condizioni di lavoro in ambiente videoludico, mantiene un atteggiamento rassegnato: è inutile combattere, sforzarsi di costruire un sindacato, sensibilizzare i lavoratori. Gli interessi economici in gioco sono troppo grandi. Si afferma come sia necessario aspettare qualche dozzina di attacchi di cuore tra i lavoratori in un periodo sufficientemente stretto perché la grande stampa martelli sul tema e qualche leggina sia infine concessa. Eppure, pensando ai contadini dell’Iowa, ritengo che – se l’alternativa è un mucchio di corpi da interrare – sia forse meglio prendere l’iniziativa. Talvolta basta un poco di solidarietà, e un poco di corda.

Fonte: http://teoremacinema.com/crunch/?fbclid=IwAR0K9nF8T1_eGjzL60Ass8qNup8iwhfCrMLCzMh-FE1vLD4OzVF2Vp2OD78.

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