Media e minori, al confine fra protezione e educazione

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13 Agosto 2010 - 22.09


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di Serena Ferrara – Megachip.

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La riflessione sulla Media Education (ME) in Italia viene spesso ancorata alla proposta di una riforma complessiva del sistema scolastico italiano che riqualifichi i processi educativi e formativi alla luce dell”importanza assunta dai processi di comunicazione e di condivisione nell”esperienza delle nuove generazioni.

Esiste ormai, anche in Italia, un”ampia letteratura sulla funzione di svecchiamento e ri-legittimazione delle istituzioni educative affidata alla ME. In particolare, è stato sottolineato che attraverso l”educazione alla comunicazione e ai linguaggi mediali la scuola potrebbe colmare il gap culturale che la separa dalle nuove generazioni (Morcellini, Cortoni, 2007).

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Nel contesto specifico della classe, infatti, le attività di ME offrirebbero una risposta efficace alla progressiva perdita di legittimazione del ruolo istituzionale dell”insegnante mediante la realizzazione, sotto la guida del media educator, di percorsi di natura progettuale che coinvolgono i ragazzi e i loro genitori, e all”interno dei quali l”insegnante stesso è chiamato ad agire come problem solver e come osservatore sui processi attivati. In una prospettiva più ampia, alcuni autori hanno insistito sull”importanza della ME come “laboratorio di democrazia” e come forma di partecipazione: «tutti dovrebbero essere in grado di usare tecniche di decodifica che permettono di comprendere cosa è vero e cosa non lo è, ma anche per rendersi conto, a livelli più ampi, chi è rappresentato e chi non lo è affatto»; e ancora, «gli studenti devono avere l”opportunità di pensare e immaginare una rappresentazione migliore e dunque di sperimentarla producendo la loro rappresentazione».[1]

In tal senso, la ME andrebbe valorizzata come dimensione fondamentale dell”educazione alla cittadinanza.

Tuttavia, mentre in molti paesi la ME è stata da tempo inserita nei curricula scolatici – ora come disciplina autonoma (Media Studies), ora come dimensione di alcune materie consolidate, in particolare quelle letterarie (curriculum trasversale) – in Italia, l”incontro con le discipline della comunicazione avviene solo a livello universitario. Il tratto che sembra distinguere maggiormente la presenza della ME nel nostro Paese è la mancanza di interventi organici e sistematici. Un dato che appare ancora più scoraggiante in una fase in cui la Scuola, l”Università e la Ricerca sono chiamate per prime a sostenere il peso della crisi.

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A ben guardare, un”operazione di questo tipo – presentata all”opinione pubblica con i tratti della necessità e dell”urgenza dettati dalla crisi – può essere interpretata come l”esito inevitabile di un lento e costante processo di delegittimazione del sistema scolastico e universitario che ha finito per rendere in qualche modo “accettabili” una serie di misure altrimenti inconcepibili per una società che veda nell”educazione e nella cultura i capisaldi del proprio sviluppo economico e sociale. Mentre si sono susseguite nel tempo, e attraverso gli schieramenti politici, riforme “epocali” – rimaste nella memoria più per l”efficacia degli slogan che non per l”effettiva concretezza dei risultati (dalle “tre i” al “3+2” fino al “maestro unico”) – si è difatti persa l”occasione di innovare il sistema educativo mediante un approccio sistematico, vale a dire fondato non solo sulla pretesa di inseguire il cambiamento, ma anche sulla capacità di valutare i risultati ottenuti e di intervenire laddove questi non fossero soddisfacenti. Un atteggiamento, questo, che ha finito per alimentare soprattutto tra i giovani un senso di delusione e di sfiducia nei confronti della scuola, dell”università e, più in generale, dello studio come strumento di realizzazione personale e di ingresso nella vita adulta.

In questo quadro, una riflessione responsabile sulla riabilitazione del sistema educativo/formativo costituisce senz”altro una delle grandi priorità del Paese. Dalla sua valorizzazione – e non certo dalla sua mortificazione – dipende, infatti, la possibilità di uscire dalla crisi e di offrire ai giovani gli strumenti per essere competitivi in un”economia sempre più globalizzata. Che l”educazione alla comunicazione e ai media avrà un ruolo centrale nei processi di insegnamento/apprendimento del futuro è, poi, un dato di fatto.

In attesa però che tale consapevolezza giunga a maturazione tra i decision maker e all”interno delle istituzioni, appare utile focalizzare l”attenzione su un altro ambito che chiama fortemente in causa la ME, i suoi metodi e i suoi obiettivi: si tratta della tutela dei minori. Ne consegue uno spostamento di prospettiva per cui la ME non va considerata semplicemente come un approccio educativo o un curriculum scolastico, ma diventa ragionevolmente una dimensione fondamentale nel quadro di quelli che sono oggi i diritti dell”infanzia.

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L”opportunità di questa riflessione è dettata soprattutto dall”attenzione e dall”attivismo delle associazioni e delle autorità preposte alla tutela dei minori: un atteggiamento che – nonostante i limiti sia pure importanti che vedremo tra poco – può fornire le condizioni per un confronto maturo sul rapporto tra media e minori.

 

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La tutela dei minori in Italia

L”ultimo atto di una lunga serie di iniziative in questo ambito è stato, il 7 luglio 2010, l”approvazione all”unanimità, da parte del Comitato media e minori, degli schemi che le emittenti ad accesso condizionato (canali a pagamento e criptati) dovranno adottare per classificare le trasmissioni “gravemente nocive” (contenuti violenti, pornografici e trasgressivi).

L”adozione dei criteri per la classificazione dei programmi da parte del Comitato è un adempimento del decreto di recepimento (cd “decreto Romani”) della Direttiva Europea “Servizi media audiovisivi” (Direttiva 207/65/CE). Esso ripropone sostanzialmente la tecnica della “gradazione dei divieti”: mentre i programmi “gravemente nocivi” potranno essere trasmessi solo dopo le 23.00 e solo mediante l”inserimento di una password, quelli “nocivi” potranno essere trasmessi anche di giorno, tranne che nella fascia protetta pomeridiana 16.00-19.00. Nel complesso, né il decreto di recepimento né la stessa Direttiva introducono modifiche importanti rispetto alla precedente disciplina.

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In Italia, la funzione di tutela dei minori è affidata all”Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (Agcom), alla quale la legge n. 249/1997 (“Legge Gasparri”) attribuisce il duplice compito di assicurare la corretta competizione degli operatori sul mercato e di tutelare i diritti dei cittadini. Nel rispetto del principio costituzionale del decentramento territoriale, la legge ha previsto anche l”istituzione dei Comitati Regionali per le Comunicazioni (Co.Re.Com). Essi sono coinvolti principalmente nella fase di raccolta delle segnalazioni (da parte di utenti, associazioni o organizzazioni) e di trasmissione delle denunce all”Autorità. Alcuni Co.Re.Com, inoltre, svolgono un”attività di monitoraggio sulla programmazione delle emittenti locali.

A partire dai primi anni Novanta, in Italia, la tutela dei minori è stata affidata ai Codici di autoregolamentazione. Il primo è stato sottoscritto il 19 maggio 1993, dalla F.R.T. – Federazione Radio Televisioni (le reti Mediaset e 150 delle principali tv locali operanti nel Paese) e da 21 associazioni, laiche e cattoliche. Il secondo è stato voluto, nel 1997, dall”allora Presidente del Consiglio Romano Prodi (“Codice Prodi”). Attualmente si fa riferimento al Codice di autoregolamentazione Tv e Minori (“Codice Gasparri”), sottoscritto il 29 novembre 2002 presso il Ministero delle Comunicazioni, da Rai, Mediaset, La7 e dalle associazioni che raggruppano le televisioni minori e locali operanti nel Paese.

Il Codice suggerisce alle emittenti che l”hanno sottoscritto alcune azioni fondamentali che vanno dal migliorare la qualità delle trasmissioni televisive destinate ai minori alla collaborazione col sistema scolastico per un”adeguata alfabetizzazione televisiva. Tuttavia, l”unica indicazione che, ad oggi, ha trovato piena realizzazione (anche perché più facilmente passibile di segnalazioni e, conseguentemente, di sanzioni) è stata l”organizzazione dei palinsesti in fasce di programmazione:

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  1. Una fascia di programmazione per tutti (7.00-22.30), nella quale si presume che il pubblico di minori all”ascolto, pur numeroso, sia supportato dalla presenza di un adulto. In questo caso, le emittenti s”impegnano a segnalare opportunamente i programmi dedicati ai minori, quelli adatti alla fruizione familiare congiunta e quelli adatti alla visione per un pubblico adulto. In riferimento alla programmazione in prima serata, inoltre, le emittenti dovranno garantire almeno un prodotto adatto alla visione familiare.
  2. Una fascia protetta, la c.d. televisione per i minori (16.00-19.00), tutelata con specifici controlli sulle trasmissioni, sui promo, sui trailer e sulla pubblicità. In questo caso, le imprese televisive nazionali con più di un canale sono obbligate a diffondere prodotti appositamente destinati ai minori, che siano «di buona qualità e di piacevole intrattenimento», «che accrescano le capacità critiche dei minori in modo che sappiano fare migliore uso del mezzo televisivo», «che favoriscano la partecipazione dei minori con i loro problemi, con i loro punti di vista». Inoltre, il Codice incentiva le imprese televisive alla realizzazione di contenuti informativi rivolti ai minori, «possibilmente curati dalle testate giornalistiche in collaborazione con esperti di tematiche infantili e con gli stessi minori».

 

Riguardo alla partecipazione dei minori all”interno dei programmi, le imprese televisive si impegnano ad assicurare che questa avvenga sempre con il massimo rispetto della loro persona, mentre per quanto riguarda i messaggi pubblicitari, il Codice considera sua parte integrante il Codice di autodisciplina pubblicitaria.

Nel 2004, il Codice ha assunto valore di legge con la “legge Gasparri”, confluita nel Testo Unico della radiotelevisione (D. Lgs. 177/2005) e successivamente modificata dalla legge 37/2006 che ha abolito il divieto assoluto di utilizzare i minori di 14 anni nelle pubblicità televisive ed ha proibito la trasmissione di ogni forma di comunicazione pubblicitaria avente come oggetto bevande alcoliche all”interno dei programmi direttamente rivolti ai minori e nella fascia protetta di programmazione.

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Il Comitato Media e Minori, costituito con decreto del Ministro delle Comunicazioni d”intesa con l”Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, ha la funzione di certificare la fondata esistenza di violazioni del Codice e di trasmettere le relative denunce all”Autorità, che metterà in atto i poteri sanzionatori previsti dalla legge.

 

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I limiti dell”autoregolamentazione

La scelta di una tutela totalmente affidata all”applicazione del Codice di autoregolamentazione ha mostrato, nel tempo, i suoi limiti. Se ne possono individuare almeno tre:

  1. In primo luogo, ha finito per prevalere la politica del controllo sull”accesso dei minori alla programmazione, a scapito di un impegno concreto da parte dei produttori dei media e delle emittenti a produrre programmi di qualità per i minori.
  2. In secondo luogo, la scelta di obbligare le varie aziende televisive a posizionare i prodotti non adatti all”infanzia al di fuori di una specifica fascia oraria appare una falsa soluzione, soprattutto se si valuta in quali fasce orarie i minori stanno realmente davanti al televisore.
  3. Infine, l”attuale meccanismo della segnaletica televisiva non consente una prevenzione efficace delle situazioni di rischio.

Questi limiti, in realtà, hanno origini lontane. David Buckingham (2004) – uno dei principali teorici della Media Education – analizzando la Convenzione delle Nazioni Unite e la Children”s Television Charter a essa ispirata, ha osservato come in esse siano stati affermati, quali diritti fondamentali dell”infanzia, i benefici e la protezione: si raccomanda che i programmi per bambini siano fatti secondo i più alti standard possibili, che siano molto diversificati nei generi e nei contenuti e che vengano trasmessi a orari regolari e/o distribuiti attraverso i media più diffusi. Per contro, vi è una scarsa attenzione al diritto di partecipazione, mentre è pressoché assente il riferimento all”educazione.

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Secondo Buckingham, le ragioni della prevalenza di un approccio fondato sulla protezione possono essere rintracciate in un certo determinismo tecnologico che per lungo tempo ha attribuito ai media il potere di modificare profondamente i processi di crescita dei minori, indipendentemente dai contesti di fruizione e dalle modalità d”uso. Il valore di questa influenza, peraltro, è cambiato man mano che dai media elettronici ci si è focalizzati sui nuovi media digitali. Se per gli apocalittici (Eco, 1964), come Neil Postman, la televisione era colpevole di introdurre precocemente i bambini nel mondo adulto, determinando così la scomparsa dell”infanzia, per i profeti della generazione elettronica, come Don Tapscott, i nuovi media costituiscono degli strumenti di empowerment per bambini e ragazzi, depositari di una competenza mediale addirittura innata (Buckingham, 2004).

Se la televisione rende passivi, trasmette una visione univoca del mondo e isola i suoi spettatori, la Rete è attiva, accresce l”intelligenza, propone una visione democratica e interattiva della realtà e crea comunità. Tutto ciò si tradurrebbe in profonde differenze tra le due generazioni che hanno utilizzato e utilizzano questi mezzi: i valori dei boomers, come le tecnologie che utilizzano, sono conservatori, gerarchici e centralizzati; gli N-geners, al contrario, sono creativi, socialmente consapevoli, tolleranti con le diversità, globalmente orientati.

Rispetto a questo dibattito, Buckingham evidenzia l”ingenuità di entrambi gli approcci, incapaci di analizzare i media e la loro influenza sui minori entro un contesto più ampio nel quale i media sono da considerarsi come sistema socio-economico e i processi di fruizione come pratiche sociali: «questi autori semplicemente evitano di affrontare empiricamente la scomoda questione di come le tecnologie vengono progettate, prodotte e commercializzate, e di come vengono effettivamente usate da bambini in carne e ossa».[2]

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In secondo luogo, l”autore critica ciò che egli definisce il «mito dell”alfabetizzazione», e cioè la convinzione che alcuni mezzi di comunicazione (ad esempio, la stampa) richiedano una fase di alfabetizzazione, mentre altri (ad esempio, la televisione o il computer) siano immediatamente accessibili ai bambini. In realtà, sia i media elettronici sia i nuovi media digitali richiedono l”apprendimento di particolari abilità e competenze per poter essere interpretati e utilizzati attivamente. Entrambe queste argomentazioni, naturalmente, sono intrinsecamente connesse alla questione del digital divide.

Tuttavia, la parte dell”analisi di Buckingham che meglio ci aiuta a comprendere le lacune di una tutela intesa come protezione, è la riflessione sulla natura discorsiva del concetto di infanzia quale costrutto sociale che si sostanzia in politiche e istituzioni preposte a riconfermarne il significato. «I bambini vengono definiti – da se stessi e dagli altri (genitori, insegnanti, studiosi, politici, legislatori, stato sociale, e naturalmente media) – come una categoria particolare, con caratteristiche e limiti particolari. Queste definizioni vengono poi codificate in leggi e politiche sociali, e incarnate in pratiche istituzionali e sociali, che a loro volta contribuiscono a produrre, da un lato, le forme di comportamento che vengono ritenute tipicamente “infantili” e, dall”altro, le forme di resistenza a questi comportamenti».[3]

In altre parole, i bambini sono rappresentati per quello che non sono e che non possono fare, attraverso un processo di esclusione da tutto ciò che è proprio del mondo adulto. In questo momento storico, ad esempio, risulta dominante una rappresentazione contraddittoria dell”infanzia nella quale i bambini appaiono contemporaneamente “vittime” (di violenze e abusi da parte degli adulti) e, allo stesso tempo, “minaccia” (in quanto violenti, antisociali e sessualmente precoci).

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In questo contesto, il problema della tutela è venuto definendosi tendenzialmente in termini di accesso e controllo. La normativa UE, ad esempio, è orientata al “modello della differenza”, in base al quale i minori sono da considerarsi come i soggetti deboli dell”ordinamento. Tale modello è in contrasto con quello “egualista”, che ha trovato maggiore fortuna negli Usa (cfr. l”art. 17 della Convenzione di New York sui media) e per il quale i minori sono anche portatori di autonome volontà.

Tuttavia, scrive Buckingham, non è più possibile prevenire l”accesso dei bambini ai media e alle cose che rappresentano; né è possibile confinarli a quei materiali che gli adulti considerano adatti a loro. Ogni tentativo di proteggere i bambini attraverso la restrizione del loro accesso ai media è destinato a fallire. Al contrario, occorre prestare molta più attenzione a come preparare i bambini ad affrontare queste esperienze; e nel fare ciò è necessario rinunciare a definirli semplicemente in termini di quello che non sono».[4]

Ne derivano due indicazioni fondamentali per la definizione di un nuovo approccio alla tutela dei minori:

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  1. La prima è la necessità di una definizione della fruizione come pratica sociale, ossia di un”osservazione empirica delle abitudini di fruizione dei minori e dei significati che essi attribuiscono ai contenuti mediali, mettendoli in relazione ai contesti sociali di riferimento (caratteristiche socio-demografiche, status sociale, relazioni con gli adulti e con il gruppo dei pari, sub-culture di riferimento). Riferendosi ai consumi culturali dei giovani, ad esempio, Morcellini parla di «comportamenti culturali» delle nuove generazioni (Morcellini, Cortoni, 2007), a voler sottolineare la consapevolezza e la responsabilità soggettiva che sono alla base delle scelte mediali operate dai giovani.
  2. La seconda indicazione riguarda l”importanza dell”educazione all”interno della funzione di tutela: «(la media education) non si propone di proteggere i giovani dall”influenza dei media, e dunque di condurli a scegliere attività alternative, ma di renderli capaci di prendere le proprie decisioni in modo consapevole».[5]

 

Le nuove tecnologie digitali, ovviamente, sono anche «luoghi del rischio» (Morcellini, Cortoni, 2007) in cui le potenzialità di crescita e di scoperta del sé sono proporzionali alla possibilità di imbattersi in esperienze pericolose.

In questo contesto, la ME ha un duplice compito: a) consentire al giovane di gestire in modo autonomo e consapevole il rapporto con le tecnologie; b) sviluppare nei giovani prosumer la ricerca della qualità, sia in termini estetici che contenutistici. «La media education non deve essere concepita come esercizio a fare attenzione alle mancanze dei media, che siano morali, ideologiche o estetiche; deve, invece, spronare i ragazzi a prendere coscienza della complessità e della diversità di ciò che piace loro dei media e a riconoscere la base sociale di tutti i giudizi di gradimento e di valore, inclusi i propri».[6]

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Essa può quindi essere definita come un processo che, partendo dalla comprensione implicita che i minori hanno dei media, e dal divertimento che ne traggono, li aiuta a esplicitare le relazioni esistenti tra rappresentazione, produzione (istituzioni dei media, tecnologie), linguaggi e audience.

La competenza mediale va intesa inoltre come una precondizione necessaria della partecipazione e, dunque, come parte di una più ampia forma di cittadinanza democratica: le attività di produzione mediale «forniscono le basi per la creazione, in futuro, di forme più democratiche e adeguate di produzione dei media».[7]

 

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Due dimensioni fondamentali della tutela: accessibilità dell”informazione e qualità

Un nuovo approccio alla tutela dei minori, che vada oltre una naturale istanza di protezione, dovrebbe partire da una riflessione su due aspetti fondamentali del rapporto tra media e minori.

Il primo consiste nel ruolo che l”informazione gioca nei processi di costruzione della realtà e nella percezione che di essa hanno i minori; il secondo, riguarda il concetto di qualità della programmazione e la definizione di criteri specifici per la valutazione.

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Il tema di un”informazione accessibile ai minori appare una dimensione fondamentale della tutela dei minori nella prospettiva della ME. Mentre vi è un forte orientamento a proteggere i minori dai contenuti univocamente ritenuti pericolosi (violenza, pornografia, consumo di alcolici e droghe) mediante soluzioni che limitano la possibilità di accesso a tali contenuti, non vi è sufficiente attenzione per le dinamiche che caratterizzano l”accesso dei minori all”informazione, in modo particolare a quella televisiva.

Nel nostro Paese, questa si è rivolta per lungo tempo solo ad un pubblico adulto. Le conseguenze di un tale atteggiamento, non sono trascurabili: bambini e ragazzi fanno spesso fatica a orientarsi in mezzo alla grande quantità di notizie da cui sono raggiunti, non avendo a disposizione le informazioni necessarie per contestualizzare gli avvenimenti e le notizie. Per venire incontro alle esigenze dei minori, in diversi Paesi esistono da tempo i telegiornali per ragazzi. In Europa, se ne producono 15 versioni: non si tratta di telegiornali con bambini, ma per i bambini, con un linguaggio e una grafica particolarmente adatta ai minori.[8]

Dal 1998, anche la Rai trasmette un telegiornale rivolto esclusivamente ai ragazzi. Il GT Ragazzi, dal 2000 in onda su Rai Tre, si caratterizza per la capacità di affiancare ai temi di maggiore interesse per i bambini, servizi dedicati all”attualità, alla politica e alla cronaca. Un”informazione reale, quindi, ma depurata dai toni spesso angosciosi che caratterizzano i telegiornali degli adulti. Un altro obiettivo importante del GT è quello di non imporre un”informazione preconfezionata, ma di coinvolgere direttamente i ragazzi dando loro la possibilità di raccontare, commentare fatti o problemi che li riguardano da vicino, fare domande. Attraverso le visite presso gli studi della RAI, inoltre, i bambini hanno la possibilità di vedere da vicino come si costruisce un notiziario televisivo.

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Il GT Ragazzi – insieme alle “Melevisite” – costituisce lo strumento attraverso cui Rai Tre combina un”offerta specificamente pensata per i ragazzi con percorsi educativi finalizzati a fornire loro una competenza mediale. La novità più importante in questo senso è rappresentata dal progetto Telegiornale in classe, finalizzato a coinvolgere gli alunni della scuola elementare in momenti di analisi dell”informazione televisiva e nella produzione di un telegiornale.

Un”altra dimensione fondamentale nell”approccio alla tutela dei minori qui proposto è la qualità della programmazione. Un concetto, questo, che è fortemente in contrasto con i criteri di successo dei programmi basati sulle misurazioni Auditel. La qualità di un prodotto televisivo, infatti, è un concetto complesso, che va negoziato con gli attori ed esplicitato attraverso la definizione di criteri oggettivi per la valutazione. I criteri con cui i minori giudicano la qualità di un programma televisivo possono non coincidere con i criteri di scelta degli educatori: ciò che piace al bambino potrebbe non essere pedagogicamente desiderabile. Un”attività di osservazione condotta in modo critico e scientifico, dunque, è fondamentale per giungere a una reale comprensione della TV seguita dai minori.

Anche in questo caso, Rai Tre si è distinta per la scelta di affidare al Dipartimento di Scienze dell”Educazione e della Formazione (DISEF) dell”Università di Torino il monitoraggio telematico dei propri programmi. Tale monitoraggio viene svolto dal 2001 mediante un questionario che i bambini possono compilare on line, in tempo reale.

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Un”esperienza sicuramente importante in questo ambito è quella dell”Osservatorio Teseo, nato nel 2004 dall”iniziativa di Roberto Trinchero e Alberto Parola (Università degli Studi di Torino), che conduce un monitoraggio sulla TV per i minori mediante un panel di educatori (genitori, insegnanti, psicologi) che lavorano a contatto con bambini e ragazzi di età compresa fra i 2 e i 16 anni.

Il panel di educatori è invitato periodicamente a compilare una serie di questionari on line finalizzati a rilevare le opinioni e i giudizi in merito al rapporto tra minori e contenuti televisivi. Il ricorso alla prospettiva della ricerca-azione consente alla ricerca stessa di avere importanti ricadute sul piano educativo: nel lungo periodo, il panel, viene allenato ad analizzare i singoli aspetti di un programma televisivo e le possibili influenze sui piccoli spettatori. Durante i primi tre anni di ricerca, sono emersi alcuni dati rilevanti riguardo ai comportamenti di fruizione dei minori:[9]

  1. Innanzitutto, risulta confermata l”ipotesi che sia inutile la distinzione tra fascia protetta e fascia per tutti: stando alle dichiarazioni di genitori e insegnanti, il consumo di cartoni animati o di trasmissioni collocate all”interno della fascia protetta è una caratteristica propria dei bambini che frequentano le scuole dell”infanzia e i primi anni della scuola primaria; dagli 8 anni in poi, invece, i minori assistono prevalentemente a programmi televisivi messi in onda al di fuori di tale fascia.
  2. Il secondo dato interessante riguarda i cartoon: secondo genitori e insegnanti, i cartoni animati di nuova generazione enfatizzano la dimensione della sfida e l”importanza di uscire vincitori da una competizione.
  3. Infine, è emersa l”importanza delle trasmissioni satiriche (es. Zelig, Le Iene) – sempre più seguite dai bambini – nel creare codici linguistici condivisi che rinforzano il senso di appartenenza al gruppo.

Grazie al lavoro di ricerca dell”Osservatorio Teseo è stato anche possibile individuare alcuni criteri per la valutazione della qualità di un prodotto televisivo, che sono stati così raggruppati: elementi di gradimento, cioè gli aspetti che sono in grado di suscitare l”interesse dei giovani spettatori; induzione di comportamenti (comportamenti prosociali/antisociali, di consumo, di gioco o di impiego del tempo libero); capacità che il programma è in grado di sviluppare nel bambino (ricezione passiva o sviluppo del pensiero logico e della creatività); rappresentazioni della realtà (rappresentazione semplicistica o problematizzata della realtà); sistemi di valore (presentazione positiva/negativa di valori quali l”amicizia, l”amore, la competizione, l”affermazione di sé, il potere); risonanze emotive suscitate nel giovane spettatore (gioia, sorpresa, tristezza, paura, disgusto); influenza sull”immagine di sé (autostima o senso di inadeguatezza; appartenenza al gruppo/isolamento).

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Conclusioni

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L”Agcom e i Co.Re.Com hanno posto ormai da tempo il tema del rapporto tra media e minori al centro della propria riflessione. Il salto da compiere è, tuttavia, quello che da una politica fondata esclusivamente sul controllo e sull”intervento sanzionatorio conduce a un atteggiamento positivo e propositivo. In questa prospettiva, la tutela dei minori si configura come un approccio che affianca alle politiche di accesso, l”ideazione e la trasmissione di nuovi format, attività di educazione alla comunicazione mediale, nonché il monitoraggio e la valutazione della qualità.

Uno dei meriti fondamentali della ME di matrice anglofona è quello di aver introdotto un approccio di tipo sociologico nello studio del rapporto tra media e minori. Tale approccio, da una parte, ha fatto emergere con sempre maggiore evidenza il ruolo fondamentale dei media quali agenti di socializzazione; dall”altra, ha condotto a un progressivo abbandono delle istanze di protezione, in favore di un atteggiamento costruttivo e di una ri-definizione degli obiettivi e dei metodi dell”educazione mediale. Questa nuova impostazione ha consentito alla ME di vedere nei media non più una minaccia costante, bensì una risorsa per gli individui e per le società. A questo proposito, nelle indicazioni della conferenza di Toulouse (1990), si raccomanda «l”apertura in chiave di collaborazione ai professionisti dei media, per aiutarli a migliorare i loro prodotti, ma anche per approfittare delle loro competenze nella formazione del pubblico».

A livello operativo, se ne possono ricavare due indicazioni fondamentali: la prima consiste nell”opportunità di concepire il soggetto istituzionale preposto alla tutela dei minori come un network che, avendo al centro l”Autorità e i Co.Re.Com, coinvolga le Emittenti, le Università e gli Istituti Scolastici; la seconda consiste nella formalizzazione di raccomandazioni o norme relative alla produzione di format originali e alla valutazione della qualità che abbiano lo stesso valore vincolante di quelle relative all”organizzazione dei palinsesti; la terza, infine, consiste nella progettazione di percorsi di media education che, attraverso lo strumento della ricerca-azione, offrano l”occasione di confrontare i modelli di preferenza di minori e adulti e di negoziare criteri di qualità applicabili alla programmazione per i minori.

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[1] Bazalgette C., Intermed, 2005/3, p. 4.

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[2] Buckingham D., Né con la tv, né senza la tv. Bambini, media e cittadinanza, Franco Angeli, Milano, 2004, p. 89.

[3] Ibidem, p. 39.

[4] Ibidem, p. 48.

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[5] Buckingham D., Media education. Alfabetizzazione, apprendimento e cultura contemporanea, Erickson, Gardolo (TN), 2006, p. 32.

[6] Ibidem, p. 124.

[7] D. Buckingham, Media education. Alfabetizzazione, apprendimento e cultura contemporanea, Erickson, Gardolo (TN), 2006, p. 33.

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[8] Tra le varie esperienze europee, quelle più significative sono Newsround della BBC (Gran Bretagna) e Logo della ZDF (Germania). Altre versioni sono: Uutismixi e Xtra (Finlandia), Jeugdjounaal (Olanda), Karrewiet (Belgio), News2day (Irlanda).

[9] Le indagini del primo anno hanno riguardato soprattutto i cartoni animati; nel 2005, sono stati analizzati i Reality Show e le trasmissioni satiriche; una terza sessione di indagine ha riguardato l”analisi delle trasmissioni di gossip o storie di vita; infine, è stata avviata una serie di indagini sulle trasmissioni per ragazzi e sui programmi documentario. (http://www.teseotv.it/progetto.htm)

 

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