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Dalle “ombre” alle “rappresentazioni”
Il ricorso al mito della caverna per giustificare l”importanza di un”educazione ai media nella società contemporanea (cfr. Fabio Bentivoglio, “La caverna moderna: quale educazione governa“), è utile perché ci permette di collocare storicamente e culturalmente la media education rispetto al ruolo che l”immagine, o meglio la “rappresentazione”, giocano da sempre nella cultura occidentale .
Da una parte, infatti, l”immagine è un elemento fondante. I visual studies hanno mostrato da tempo come le arti visive (dalla pittura, alla fotografia, al cinema) abbiano contribuito in modo determinante alla costruzione di una memoria collettiva che porta dentro di sé le tracce di miti antichi, o, ancora, come esse abbiano finito per informare la nostra concezione di spazio e di movimento.[1]
Allo stesso modo, l”immagine ha avuto un ruolo fondamentale nella costruzione della “modernità occidentale”. L”opposizione tra il colore bianco e il colore nero, ad esempio, ha avuto giocoforza nel trasformare il continente africano in un luogo vuoto, deserto, privo di strutture sociali e culturali preesistenti all”azione civilizzatrice dell”uomo europeo: il “cuore di tenebra” del romanzo di Conrad.[2]
Quasi un secolo più tardi, il cinema ha portato questo simbolismo alle sue estreme conseguenze, fino a smascherarlo nel film “Apocalypse now” di Coppola, che racconta la guerra in Vietnam come l”ultima grande guerra coloniale dell”Occidente.[3]
D”altra parte, la storia dell”Occidente non è stata immune a contaminazioni iconoclaste. La nascita della psicanalisi testimonia dell”intreccio culturale tra il divieto della rappresentazione, proprio della religione ebraica, e il potere fascinatorio delle immagini che, in questo caso, si sostanzia nel valore simbolico attribuito ai sogni.
All”enorme fascino esercitato dalle immagini si è però accompagnato un certo timore nei confronti del loro potere evocativo. Così, ad esempio, al progressivo consolidarsi dell”industria cinematografica ha fatto seguito una tradizione di studi volta ad analizzarne gli effetti diretti sul pubblico: un orientamento, questo, che ha per lungo tempo influenzato la communication research. Anche l”educazione ai media ne ha risentito, e talvolta ne risente ancora. Da una parte, vi è la convinzione diffusa che occorra introdurre nel processo educativo un”attenzione particolare ai media; dall”altra vi è la pretesa che tale educazione sia orientata esclusivamente a “mettere in guardia” lo spettatore, soprattutto il minore, dai significati veicolati dall”industria culturale. Fabio Bentivoglio scrive:
«Nella scuola, non si deve addestrare nessuno a saper utilizzare le ombre, perché questo non è lo scopo dell”educazione. Dalla Rivoluzione francese in poi, lo scopo dell”educazione è stato individuato nella formazione dell”uomo e del cittadino».
Tuttavia, il merito della Media Education di matrice anglofona (quella che fa capo a Len Masterman e a David Buckingham) è proprio quello di introdurre un concetto di “alfabetizzazione mediale”, che affianca all”obiettivo dell”autonomia critica il concetto di partecipazione critica alla cultura mediatica del nostro tempo, intesa come esercizio della cittadinanza democratica.
In questa prospettiva, l”alfabetizzazione mediale non implica solo il “saper leggere” i media, ma anche il “saper scrivere” con i media.
Per Cary Bazalgette, esiste un nesso profondo tra l”educazione alla cittadinanza e il momento della produzione di testi mediali in classe, perché i ragazzi sono messi in condizione di produrre la propria “rappresentazione del mondo”.[4]
In un”epoca in cui essi diventano produttori sempre più attivi di contenuti (attraverso l”uso dei blog, di piattaforme condivise come YouTube e dei social network), non è affatto trascurabile l”importanza di un”educazione alla qualità estetica e valoriale dei prodotti veicolati. Allo stesso modo, non è trascurabile l”importanza di un”educazione che insegni a guardare con atteggiamento critico non soltanto ai contenuti dei media, ma anche e soprattutto alle proprie abitudini di fruizione e ai propri gusti. Il ragazzo deve imparare a chiedersi che tipo di soddisfazione o di piacere ricava da un certo tipo di contenuto, perché è questo “sguardo dall”esterno” che gli consentirà , eventualmente, di prendere le distanze da esso.
Sugli strumenti, i percorsi e i metodi attraverso cui il media educator può realizzare tutto questo esiste ormai un”ampia letteratura anche in Italia. Quello che qui vale la pena sottolineare è che, rispetto all”impostazione prevalentemente pedagogica che ha caratterizzato la tradizione italiana di educazione ai media (dai Cineforum all”Educazione all”immagine dei Programmi per le scuole elementari e medie), l”approccio sopra descritto introduce una maggiore vicinanza teorica ai Media Studies e, soprattutto, ai Cultural Studies, un ambito di studio che interpreta la “cultura” non come qualcosa di statico e trasmissibile, ma come un insieme dinamico di significati e di pratiche che vengono costantemente rinegoziate.[5]
Ne deriva, innanzitutto, l”abbandono della tradizionale distinzione tra cultura alta e cultura popolare (anche i contenuti veicolati dei media sono contenuti culturali) e, in secondo luogo, la definizione di percorsi educativi che non possono prescindere dalle competenze e dalle esperienze pregresse degli alunni (di cui la fruizione mediale è parte integrante). Secondo Buckingham, quindi, la media education non consiste nel proporre agli alunni interpretazioni necessariamente corrette, ma nel decostruire il prodotto mediale, mettendolo in relazione alle loro abitudini e ai loro gusti.
A questo proposito, posso portare ad esempio una mia esperienza personale, relativa a un percorso di media education sul linguaggio televisivo condotto in una scuola superiore palermitana. Nell”ambito di un piccolo dibattito dedicato al reality show, i ragazzi hanno potuto ricavare dai propri discorsi che uno degli elementi di maggior gradimento di questo genere televisivo era la presunta “opportunità di successo” che veniva data ai partecipanti. In modo assolutamente autonomo, poi, sono stati in grado di esplicitare il nesso tra questo aspetto e il problema della disoccupazione, con cui questi ragazzi e le loro famiglie fanno i conti quotidianamente. L”analisi critica di un genere televisivo (dei suoi codici e dei suoi meccanismi) è stata quindi l”occasione per riflettere e mettere in discussione la loro idea di successo, individuandone le radici nel contesto sociale di riferimento (ancor più che nella rappresentazione offerta dal genere televisivo).
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La cultura è ideologica
Come emerge anche da questo esempio, lo spettatore non è un destinatario passivo, ma contribuisce attivamente, attraverso la propria interpretazione, a determinare il significato del messaggio. I contenuti mediali, più che “ombre”, o “copie”, del reale sono rappresentazioni derivate da un processo di costruzione simbolica (codifica) cui fa da contrappunto un analogo processo di decostruzione (decodifica) da parte dello spettatore.[6]
Inoltre, tanto il processo di codifica quanto quello di decodifica avvengono all”interno di un contesto linguistico e ideologico di riferimento, che può essere più o meno condiviso dagli attori dello scambio comunicativo.
In un”epoca in cui il concetto di ideologia viene utilizzato solamente per decretare la definitiva scomparsa dei grandi sistemi ideologici del XX secolo, la media education ci consente di restituirlo all”uso che ne fecero filosofi come Althusser e Gramsci. Per i Cultural Studies, infatti, l”ideologia è un insieme di idee e credenze, ma anche di pratiche materiali (le pratiche di fruizione mediale rientrano in questo ambito). L”ideologia, quindi, esprime il rapporto vissuto dagli uomini con il loro mondo. Quando un”ideologia diventa dominante, ovvero diventa “senso comune”, allora si ha l”egemonia culturale del gruppo sociale che ne è portatore. L”attività ideologica dei mass media, secondo Stuart Hall, consiste prevalentemente nel definire la linea di demarcazione tra interpretazioni “preferite” (o ammesse), e interpretazioni “escluse” (o devianti).
Sempre più spesso, ad esempio, i telegiornali e i dibattiti televisivi tendono a contenere le possibili interpretazioni del lettore/spettatore tra due estremi, rappresentati dalle “opinioni” espresse da due o più giornalisti di diverso orientamento politico, con i quali egli è chiamato ad identificarsi. Abbandonato il mito del giornalista “imparziale”, e bypassato quello del giornalista “apertamente schierato”, si afferma così la figura del giornalista “funzionale”, capace di restituire in tempo reale una lettura dei fatti che sia ideologicamente accettabile. Non è un caso che giornalisti e politici siedano ormai gli uni accanto agli altri negli studi televisivi, nello stesso identico ruolo di rappresentanti dell”ideologia dominante, ossia il berlusconismo (di cui l”antiberlusconismo è parte integrante).
Questo meccanismo è apparso particolarmente evidente negli ultimi giorni, nei quali i giornalisti ci hanno fornito interpretazioni confezionate dello scandalo che ha coinvolto il premier: dalla lettura – per nulla originale – di una campagna politica condotta dalla Magistratura (anzi da un magistrato), al più evocativo “ognuno può fare quello che vuole in casa propria”, fino alla beatificazione personale dei protagonisti attraverso la narrazione degli atti di generosità e la riproposizione del racconto evangelico del “chi non ha colpa scagli la prima pietra”. La sensazione che ne ricava lo spettatore è però quella di uno shock culturale, per cui sembra che non esistano più valori assoluti e condivisi.
C”è voluto un film come “Il Divo”, andato in onda per la prima volta su LA7, per uscire da questo meccanismo e contestualizzare l”attualità nel quadro della storia recente del Potere in Italia. La trasmissione condotta da Enrico Mentana ha offerto un esempio di giornalismo televisivo che attinge dalla storia e dà voce alle istanze della società civile, sottraendosi alle logiche dell”audience, ancorché alle ingerenze di un Presidente del Consiglio / Editore (ultimamente messe in scena attraverso le “telefonate in studio”).
Nel frattempo, le donne offrono la propria lettura della vicenda scendendo in piazza a rivendicare la propria dignità offesa. A questo proposito, non è superfluo sottolineare che molte delle campagne condotte negli ultimi anni contro gli stereotipi femminili propinati dalla comunicazione pubblicitaria, sono state portate avanti anche – e, soprattutto – dalle stesse donne che oggi difendono il premier dalle accuse etiche mosse contro di lui.
Come dire: combattiamo le ombre, ma stando bene attenti a non uscire dalla caverna.
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Globalizzazione e competitività sono solo ombre?
Tornando all”educazione ai media, è evidente che una forte critica rivolta ai media e ai contenuti mediali da essi veicolati (ad es. gli stereotipi femminili), senza tener conto dei processi socioculturali, politici ed economici che ne favoriscono l”accettazione da parte dei minori (ad es. la condizione della donna all”interno della famiglia o i meccanismi che regolano l”accesso delle donne nel mondo del lavoro), corre il rischio di essere essa stessa banalmente ideologica.
In questa prospettiva non sono d”accordo con Fabio Bentivoglio quando scrive: «Dalla sua valorizzazione [del sistema educativo-formativo] dipende la possibilità di fornire ai giovani gli strumenti per comprendere come mai oggi viviamo in un mondo che ci impone di essere competitivi e che ci fa credere che lo sviluppo, inteso come crescita del PIL, e la cosiddetta globalizzazione siano una sorta di destino immodificabile a cui adattarsi e a cui essere funzionali».
L”obiettivo prioritario della media education – e del sistema educativo tout corut – non può essere, a mio avviso, quello di imporre ai ragazzi una visione del mondo nella quale i concetti di globalizzazione e di competitività siano connotati necessariamente in senso negativo e confinati entro una lettura economicistica della società . Al contrario, globalizzazione e competitività sono concetti complessi e assolutamente centrali per la definizione della cittadinanza contemporanea, tanto quanto i loro opposti (localismo e collaborazione). Inglese, Internet e Impresa non sono solo slogan ma fenomeni con i quali oggi siamo chiamati a misurarci sia individualmente che collettivamente e sarebbe un grave errore attribuirne la “proprietà ” ad una sola parte politica (o, addirittura ad un solo individuo), rinunciando a proporre una visione alternativa della modernità entro cui essi possano trovare la propria specifica collocazione.
A questo proposito valgano solo alcune brevi considerazioni finali. Il multilinguismo è uno dei principi fondamentali dell”Unione europea, secondo cui ogni persona dovrebbe essere in grado di parlare almeno tre lingue: la lingua madre, la “lingua segretaria” (cioè, appunto, l”Inglese) e la “lingua sposa”, cioè una lingua che si decide di studiare per scelta o per amore nei confronti di una data cultura. Anche la cultura di impresa è uno dei capisaldi dell”Unione europea che, oltre a promuovere il modello tipicamente italiano delle PMI, incoraggia un modello di riconversione economica fondato sul concetto di creatività : l”industria creativa è un settore economico nel quale i competitors si misurano sulla capacità di integrare patrimonio culturale e innovazione tecnologica.
Come si vede, si tratta di modelli concreti alla cui realizzazione i giovani italiani potranno contribuire e partecipare solo se avranno le competenze necessarie. Ciò sarà possibile soltanto immaginando un nuovo sistema educativo all”interno del quale educazione e formazione professionale (non addestramento) abbiano pari dignità ; università e mondo del lavoro dialoghino costantemente per costruire percorsi di studio in grado di formare la persona, ma anche di darle gli strumenti per partecipare attivamente alla società di cui sarà chiamata a far parte. Questo non vuol dire distinguere tra corsi di laurea necessari e corsi di laurea inutili, come fa questo Governo, ma fare in modo che tutti i corsi di laurea siano costruiti in modo da fornire un nucleo di competenze spendibili sul mercato del lavoro.
In un Paese in cui parole come Lavoro e Cultura sembrano non avere più alcuna dignità , l”educazione è chiamata a riproporre tali concetti come pilastri della cittadinanza attiva e, quindi, a riappropriarsi di quegli strumenti che, sebbene siano stati a lungo espressione delle “istanze della produzione e del consumo” (cito ancora Bentivoglio), possono diventare funzionali ad un”istanza di partecipazione.
[1] Aby Warburg, Mnemosyne. L”atlante delle immagini, Aragno, Genova, 2002; Giuliana Bruno, Atlante delle emozioni, Bruno Mondadori, Milano, 2006.
[2] Nicholas Mirzoeff , Introduzione alla cultura visuale, Meltemi, Roma, 2005.
[3] Michele Cometa, Visioni della fine, Duepunti edizioni, Palermo 2005.
[4] Len Masterman, A scuola di media, La Scuola, Brescia, 1997; David Buckingham, Né con la tv, né senza la tv. Bambini, media e cittadinanza, Franco Angeli, Milano, 2004; David Buckingham, Media education. Alfabetizzazione, apprendimento e cultura contemporanea, Erickson, Gardolo (TN), 2006; Cary Bazalgette, Intermed, 2005/3.
[5] Serena Ferrara, Passato, presente e futuro della Media Education in Italia (tesi di laurea), Università degli Studi di Palermo, 2007 (relatore Gianna Cappello).
[6] Stuart Hall, The Television Discourse–Encoding and Decoding, 1974.
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