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Non è un pamphlet e non strilla, ” L”Islam immaginato” del sociologo Marco Bruno. È un lavoro scientifico, nel metodo e nel linguaggio, benché di facile lettura. Nondimeno è dirompente.
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Lo sapevamo un po” già della demonizzazione del mondo musulmano operata dopo l”11 settembre dai media “cattivi”, interessati a contribuire alla globale strategia della tensione a tutela della civiltà (occidentale, opulenta e cristiana). Il testo, edito da Guerini, ci fa capire qualcos”altro: che i contenuti di quella distorsione dell”Islam sono diventati dati incontestati col fattivo contributo della sedicente stampa progressista.
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Il mondo è la mia rappresentazione, scriveva Schopenhauer, ma due secoli fa non c”era la televisione. E allora oggi Bruno spiega invece che “la nostra comprensione della realtà è mediaticamente assistita“. In altre parole “i media supportano un naturale sforzo di categorizzazione e conferimento di senso” alle cose, alle persone, ai comportamenti privati e ai fenomeni storici. Alla faccia dei prezzolati giornalisti televisivi che ancora spiegano, ad esempio, la scarsa irrilevanza dello schermo nella costruzione degli orientamenti politici degli italiani.
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E il “senso” e la “categorizzazione” mediatica del mondo
musulmano sono stati negli ultimi anni edificati attraverso una serie piuttosto estesa di stereotipi tra loro correlati.
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Quelli di un Islam sinonimo di islamismo, ovvero di un credo religioso uniforme e confuso col progetto fanatico di alcuni movimenti armati.
Una fede intimamente “altra” rispetto all”identità europea, con i suoi correlati di antimoderna irrazionalità , di oppressione delle donne e di possibilità di violenza, addirittura di guerra.
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Una religione strutturalmente minacciosa, dunque, da distinguere da una categoria di “Islam moderato“, come se quello “normale” fosse per definizione “estremista“.
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Come se esso non facesse già parte, da secoli, dell”identità europea. E come se, guardando viceversa noi stessi dall”esterno, si valutasse l”essenza del cristianesimo (e delle culture dei paesi a maggioranza cristiana) nell”attività del Ku Klux Klan, nelle discriminazioni femminili tuttora perpetuate da varie organizzazioni confessionali (e famiglie), o ancora nei riferimenti biblici a un mondo da costruire attraverso la supremazia delle armi e alla giustizia dell””occhio per occhio”.
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La ricerca di Bruno esamina il caso italiano, che è un caso limite, col suo panorama mediatico articolato intorno ai monopoli del presidente del Consiglio. Ed è un presidente del Consiglio che si è orgogliosamente eretto a supremo suddito dell”amministrazione Bush, quella che coniò la teoria dello “scontro di civiltà ” con il mondo musulmano, ben prima dell”11 settembre. Nulla di strano dunque che l”Italia abbia conquistato un ruolo senza pari nella costruzione mediatica del mostro-Islam.
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La sorpresa è che a quella catena di stereotipi abbiano aderito, senza resistenza alcuna, anche i giornalisti e gli intellettuali cosiddetti “progressisti” o “moderati”. Proponendo risposte “tolleranti” nei confronti dei musulmani ma al contempo allineandosi al presupposto di etichette buie e allarmistiche. Per trarre alcuni esempi da Bruno: “Mamma li turchi“, con il volto di una donna col velo e con un sopracciglio a forma di sciabola, non è stata la copertina di un giornale di destra, bensì de L”Espresso, che all”indomani dell”attacco alle Due Torri è stato capace di un”altra, con l”immagine di un musulmano e il titolo “Lui ti odia. E tu?“.
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O ancora, il quesito posto in apertura a un supplemento del borghese e laico Corriere: “E tu sei ancora amico dell”amico musulmano?“.
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L”elenco potrebbe continuare all”infinito. Ma non serve. Il concetto è abbondantemente passato. Il “problema Islam” esiste, è un truismo indiscutibile, con tanto di convegni e dibattiti estesi nei circoli “di sinistra”, con l”imperativo: “non possiamo non porcelo”, seppur ricercando risposte improntate all”accoglienza e all”integrazione.
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E se qualcuno prova a obiettare: “siamo sicuri che il problema c”è?” o a chiedere quale sia, viene solitamente seppellito da sguardi di commiserazione o tutt”al più da risposte che fanno leva su almeno una parte degli stereotipi suddetti. Più o meno quel che accade in queste settimane quando si tenta di argomentare, cifre del Viminale alla mano, che l””emergenza sicurezza” o l””emergenza rumeni” non sussiste.
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Naturalmente, alla catena di stereotipi si oppone qualche meritevole inchiesta giornalista capace di far effettiva luce sulla realtà dell”Islam. Si tratta tuttavia di spazi sporadici, confinati ai margini dei palinsesti e dei giornali. Che non solo non raggiungono il grande pubblico, ma neppure gli addetti ai lavori. Col risultato che questi ultimi perpetuano acriticamente la “routine” descritta da Bruno.
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Quella routine è strutturale al “meccanismo interno” dei media generalisti attraverso l”assiduo, e a tratti inevitabile, ricorso alla semplificazione, che però nel caso dell”Islam è una semplificazione degradante. Amplificata soprattutto da quel potente contenitore di “categorie culturali uniche“, come ha definito nei giorni scorsi la tv il trionfante conduttore di Sanremo.
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C”è molto altro in questo testo che probabilmente, nell”era della globalizzazione e delle società dell”immigrazione, dovrebbe entrare nella biblioteca di ogni addetto ai lavori a maggior titolo di pesanti quanto inutili manuali.
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Sempreché il giornalista non voglia continuare a svilirsi nel ruolo di servo acritico degli “imprenditori politici della paura“. Non li chiama così qualche ideologo scatenato. È una definizione comunemente adottata da Bruno e da altri studiosi.
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mailto: acisilin@yahoo.it.
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