Medio Oriente e guerra all'informazione

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7 Aprile 2009 - 08.55


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di Christian Elia – da peacereporter.net

Al Festival del Giornalismo di Perugia focus sulla situazione della stampa in Israele e in Palestina.
“Capisco quello che per voi è stata una grande delusione, ma non sopporto che si dica che a Gaza non c”erano i giornalisti. C”eravamo noi di al-Jazeera International, oltre a quelli di al-Jazeera in lingua araba, per non parlare di almeno altri 600 giornalisti del mondo arabo. Bisogna cominciare a pensare che anche noi sappiamo fare il nostro mestiere”.

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Ha una faccia da schiaffi e un sorriso irresistibile Ayman Mohyeldin, 29enne egiziano figlio di palestinesi, corrispondente di al-Jazeera International da Gaza City per tuttti i 23 giorni dell”operazione Piombo Fuso. Ayman sorride mentre raccconta come si riesce a non perdere la calma dal tetto del palazzo più alto di una città messa a ferro e fuoco dai militari israeliani. Il moderatore del dibattito Medio Oriente e guerra all”informazione, il giornalistia del Sole24Ore, Ugo Tramballi, dopo aver ceduto alla retorica del giornalista ”eroe”, provoca Ayman. Tramballi prima lo ringrazia per l”ottimo lavoro svolto, poi si lamenta che ai giornalisti occidentali il governo israeliano non ha concesso il permesso per entrare nella Striscia, infine accusa al-Jazeera di usare due pesi e due misure nel racccontare la realtà: la versione in inglese media, quella in arabo è pura propaganda. “Non sono d”accordo”, replica Ayman, senza scomporsi, “i due canali si rivolgono a pubblici differenti ed è normale che il pubblico in lingua araba necessiti di molti meno distinguo di quello internazionale. Le faccio un esempio: lei si lamenta di non aver ottenuto il permesso di entrare, ma è arrivato il 27 dicembre, quando è cominciato l”attacco. Ma dov”era prima? Dov”era durante i due anni di assedio nel quale la popolazione civile della Striscia è stata oppressa dal governo israeliano? Ecco, l”assedio ai palestinesi non bisogna spiegarlo. Un eroe? Non mi sento un eroe…lo sono i giornalisti palestinesi. Io avevo paura per me e per i miei colleghi, ma loro erano terrorizzati per la loro casa, per i loro figli e per la loro famiglia. Loro sono eroi”.

Altri ospiti della serata due personaggi speculari e coraggiosi: Yizhar Be”er e Ruham Nimri, rispettivamente direttore del Centre for the Protection of Democracy in Israel  e coordinatore del Media Monitoring Unit of the Palestinian Initiative for promotion of Global Dialogue and Democracy, due centri d ricerca che si occupano di monitorare i media israeliani e palestinesi. Be”er ha presentato un”analisi della copertura dell”operazione a Gaza da parte della stampa israeliana. “La nostra storia lo racconta: ogni volta che Israele è coinvolta in una guerra, la stampa si schiera compatta a fianco delle forze armate”, spiega Be”er. “Guardate le prime pagine di Yedioth Aronoth, il quotidiano più letto del Paese. Ogni giorno sostenevano i militari, raccontando come una velina l”unica fonte che utilizzava: il portavoce militare israeliano. Per questo voi vi stupite del consenso quasi totale al conflitto. Ogni giorno inviava al fronte un pacco regalo per i soldati, con una copia del giornale dentro”. Ma allora la stampa in Israele non è poi così libera come sembra? “Il problema non è quello di censura classica, ma di approccio culturale alla sindrome d”assedio che Israele vive. La stampa si sente minacciata come tutto il popolo e l”occupazione viene vissuta come una delirante forma di difesa. Ma poi, all”improvviso, si raggiunge un punto di rottura delle coscienze. Per Sabra e Chatila avvenne quando la gente capì cosa era accaduto davvero. Per questa guerra è avvenuto quando un medico di Gaza, che parlava perfettamente ebraico, ha perso le sue tre figlie in diretta, mentre veniva intervistato da Canale 10. Una bomba ha colpito la sua casa e, per la prima volta, il pubblico israeliano ha dato un volto al dolore dei palestinesi, non avendo più a che fare solo con numeri e statistiche”.

Le cose sul fronte palestinese non vanno meglio. “Noi siamo al centro di un vortice di pressione. Da un lato l”occupazione israeliana, che impedisce ai giornalisti di fare il loro lavoro. Dall”altra parte le faide interne che dividono Hamas e Fatah. Il lavoro per i giornalisti in Palestina sta diventando un incubo”, racconta Ruham. “Un esempio per tuttti: nel 2005 Israele decide di ritirarsi da Gaza. Un evento epocale per noi, al di là di tutte le contraddizioni che comportava. Riuscite a immaginare cosa vuol dire per un giornalista palestinese vedersi negato il permesso di raccontare un evento del genere? Riuscite a pensare a cosa vuol dire raccontare un evento in Cisgiordania, a Tulkarem o a Jenin, senza poterci andare di persona? Fare il giornalista sotto occupazione è questo”. Ma non solo, perché la spaccatura tra Hamas e Fatah ha spaccato in due la comunità palestinese. “Odio il termine guerra civile, perché tra la gente comune non c”è nessuna guerra”, spiega Ruham. “C”è una lotta politica senza esclusione di colpi tra i sostenitori delle due fazioni: una lotta che divide Gaza e Cisgiordania, giornali sostenitori dell”una e dell”altra fazione. Lavorare così è difficile, ma per i giornalisti palestinesi sta diventando un grande stimolo. Da noi il giornalismo ha una storia recente, di meno di venti anni. E stiamo facendo una gavetta davvero dura. Magari questo ci permetterà, domani, di essere pronti a rappresentare una generazione di giornalisti palestinesi davvero liberi”.

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