Siria, prima che spari la 'tecnica'

E il giorno in cui, al posto delle autorità  normali, quelle dello Stato, l'unica presenza visibile è la 'tecnica'? Soprattutto, cos'è la 'tecnica'?

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14 Febbraio 2012 - 01.38


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di Pino Cabras e Simone Santini.
 
Quanto è spesso, l’involucro che protegge la nostra fragile normalità? Fino a un certo giorno abbiamo un lavoro o abbiamo speranze di ottenerlo, abbiamo scuole, acqua potabile in casa, l’elettricità, e poliziotti e giudici sì imperfetti ma guai a non averli. E fino a quel giorno abbiamo anche ospedali, abbiamo strade più o meno sicure, e una pensione che forse ci basterà a non cenare soltanto con caffellatte e un misero biscotto per tutti gli anni del nostro inverno. Quant’è spesso quell’involucro, il giorno in cui, al posto delle autorità normali, quelle dello Stato, l’unica presenza visibile di una qualche autorità è la “tecnica”?  Soprattutto, cos’è la “tecnica”?
No, non ci stiamo riferendo a Monti e Papademos, anche se questo inizio poteva farlo credere.
La “tecnica” di cui parliamo non è la tecnica comunemente intesa, è il nome di un tipo di oggetto ben preciso che ci è stato mostrato tante volte, negli ultimi anni, nelle cronache di guerra, ma che aveva un nome solo per chi lo usava e per pochi altri. È un manufatto che rappresenta bene il degrado che attende gli stati falliti. Li abbiamo visti, in Somalia e in altri disgraziati paesi africani, e poi in Afghanistan e in Iraq, e da ultimo in Libia, questi oggetti particolari. Una “tecnica” (in inglese technical) è un tipo di veicolo militare low cost, un micidiale accrocchio composto da un mezzo civile con un cassone (tipicamente un pick-up) attrezzato con armi pesanti, quali lanciarazzi e grosse mitragliatrici. È spaventosamente efficace e distruttivo.
Gli hanno dato anche altri nomi:gunship, guerrilla truck, battlewagon, gunwagon. Noi continuiamo a chiamarlo con il nome che ne battezzò la comparsa in Somalia.
Guardiamolo bene, fissiamocelo in testa, quel veicolo. Quando la “tecnica” scorrazzerà nelle nostre strade di sempre, in slalom tra le macerie, l’involucro della nostra normalità sarà stato già frantumato. La disoccupazione sarà dilagante, le scuole già distrutte, i potabilizzatori e le reti idriche costruite in generazioni saranno poltiglia, l’elettricità arriverà poche ore al giorno, la sanità sarà un ricordo, le pensioni una chimera. E perfino il povero caffellatte del nostro inverno cui ci aggrapperemo per sopravvivere sarà inquinato, perché le guerre asettiche esistono solo nei videogame, mentre le guerre vere sono eventi ambientali distruttivi.
Se avremo la disgrazia di pregare in modo “sbagliato”, dovremo perfino andarcene via, chissà dove e chissà come, a milioni. I luoghi di culto sbagliati, come tutti i nostri luoghi sbagliati in cui facevamo comunità, saranno stati rasi al suolo dagli unici ragazzi che trovano un buon lavoro, i picciotti esaltati e giusti delle tecniche, tanto innamorati dei loro oggetti da tatuarsi il marchio della Toyota nei loro avambracci, come già fanno in Afghanistan e in Iraq. E non ci sarà nessun giudice a proteggerci, nemmeno quello di uno stato oppressivo e corrotto, ma non digiuno di leggi. L’unica autorità visibile risiederà sulla canna dei mitragliatori delle tecniche. Le monete che ci suderemo saranno cartacce da borsanera, che prenderanno il volo verso i boss e verso l’unica autorità che sovrasterà i signori della guerra locali, una superiore forza armata di occupazione assistita da mercenari spietati.
Ci siamo immedesimati abbastanza? Non stiamo descrivendo un film apocalittico di fantascienza post-atomica del XXII secolo. No, stiamo raccontando la Guerra Infinita di oggi, con la sua sequela di Stati falliti, ordinatamente messi in fila secondo l’inesorabile tabella di marcia rivelata dal generale Wesley Clark. Là dove c’erano Stati sovrani che ostacolavano l’Impero rimangono territori neocolonizzati e neofeudalizzati. I regimi prima della dissoluzione saranno ricordati solo dal lato della loro “oppressione”. I leader saranno visti come Tiranni folli. E con i folli c’è poco da negoziare, no? Lo abbiamo letto, quel rifornitore di bombardieri che risponde al nome di Adriano Sofri? Dice che occorre «avvertire il nuovo pazzo di Damasco che la sua ora è suonata».
La caccia al tiranno da abbattere prelude a immensi lutti e, finalmente, all’arrivo delle “tecniche” a Damasco. Questa è la prossima stazione della guerra, nel quadro di una lunga pianificazione.
Abbiamo assistito alla missione della Lega Araba in Siria, e i risultati sono stati sorprendenti, tanto da meritarsi il mutismo da parte della grande corrente dei media.
La Lega Araba è egemonizzata dalle autocrazie del Golfo sotto l’ombrello militare di Washington. Assad, per evitare l’aggravarsi dell’isolamento finché ha potuto, l’ha accolta alle condizioni dettate, consentendo uno scrutinio penetrante in lungo e in largo in tutto il Paese. Con sorpresa di tutti, il rapporto descrive una situazione molto diversa da quella che corre nei nostri media, e quindi è stato silenziato. Esattamente come accadde a Saddam Hussein quando l’Agenzia internazionale per l’energia atomica non trovò uno straccio di prova sulla presenza di armi di distruzione di massa. La guerra all’Iraq era comunque pianificata e si fece a dispetto di ogni residuo pretesto. La guerra alla Siria è già in agenda, e infatti – a dispetto del rapporto – la Lega Araba rompe le relazioni con Damasco. La determinazione inflessibile è quella che prelude alla guerra totale. Non si fanno prigionieri.  
Lo schema riduzionista imperante è che Bashar al-Assad sia l’ennesimo nuovo Hitler, il dittatore sanguinario che spara al suo popolo, un politico irrazionale che usa la repressione contro istanze democratiche genuine e pacifiche.
La cosa più drammatica di questa veste concettuale dominante è che essaabolisce la profondità della storia eaccetta solo la cronaca, cioè un terreno totalmente contaminato dai media integrati con le strategie militari occidentali e di fatto quasi impraticabile per le distinzioni vitalidella politica.
Se si accetta l’agenda dell’Impero, le sue urgenze arbitrarie e manipolate, si affoga nell’oblio. Dimenticheremmo cioè che esiste un modello di intervento mediatico e militare ripetitivo già usato in tutte le guerre dell’ultimo ventennio. Mentre Sofri incita alla fine di Assad, scende un assurdo silenzio sulla coazione a ripetere di disastri umanitari e ambientali della Guerra infinita in corso d’opera.
E c’è di più, se ci facciamo dettare la cronaca dall’Impero assecondiamo un’immagine ingannevole della Siria e dimentichiamo cosa è stata veramente negli ultimi anni: un paese di 19 milioni di abitanti che ha dato una casa e una nuova vita a un milione e mezzo di profughi dall’Iraq, che hanno potuto spiegare bene ai siriani le amenità della democrazia per nuovi senzatetto, lo splendore delle strade di Baghdad presidiate dagli squadroni della morte che mitragliano dalle loro tecniche, nonché l’odore delle ferite in suppurazione.

Prima di spiegare ai siriani cosa devono fare a casa loro, chiediamoci tutti:  l’Italia – per fare una esatta proporzione – sarebbe stata capace di accogliere umanamente, da un anno all’altro,cinque-sei milioni di nuovi stranieri? Possiamo avere sinceri dubbi in proposito? Proviamo a immaginare lo sconvolgimento nella vita civile delle nostre città, una per una, mettendo in fila, una per una, le vite di milioni di famiglie atterrite.

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La Siria se ne è fatta carico con umanità e immensa fatica, scontando in modo sostenibile le tensioni aggiuntive che si incastravano nel già complicato miscuglio etnico del paese, scaricate lì dall’irresponsabilità criminale di chi ha voluto la guerra irachena. Se rinunciamo a questo giudizio storico equanime, la guerra avrà guadagnato molto terreno.
Assad ha un consenso molto forte, anche quando reagisce con durezza militare alle sedizioni armate che finora hanno ammazzato migliaia di uomini delle forze dell’ordine, perché milioni di siriani sanno che se dovesse saltare il suo blocco politico e sociale sarebbero “irachizzati” e trasformati anch’essi in uno stato fallito. Il sistema di potere della dinastia familiare del presidente siriano ha tirato troppo la corda delle riforme a lungo rinviate, e arriva terribilmente tardi. Ma un minimo di analisi politica oggettiva è sufficiente a cogliere che le aperture costituzionali ci sono, e non sono di poco conto.
Basterebbe già questa vicenda a ridare il senso delle proporzioni per valutare il contesto della guerra. Prima di farci trascinare nel coro delle condanne contro le repressioni, ascoltiamo bene chi inizia il canto corale. Sono i capi di apparati che fanno una strage dopo l’altra. Lasciando stare per ora i droni di Obama in Pakistan o le stragi di Sarkozy in Costa d’Avorio, ci basta aprire un quotidiano turco in un giorno qualunque, per trovare notizie come questa: “I caccia turchi bombardano obiettivi del PKK in Nord Iraq”. Da noi, neanche un trafiletto, mentre tutti credono di sapere cosa accade a Homs. C’erano e ci sono spazi e disponibilità di Assad che sono stati rigettati sistematicamente e criminalmente, con ingerenze straniere orientate a uccidere nella culla qualsiasi soluzione che non fosse la guerra civile.
Sentiamo qualcuno strillare contro la conclamata violenza anti-curda in atto chiedendo un “Regime change” ad Ankara, magari a costo di un crollo del paese? Sentiamo forse qualcuno che faccia notare la doppiezza di Obama? Il presidente USA contro la Siria di Assad chiede sanzioni in nome dei diritti umani violati, mentre per il Bahrain di Al-Khalifa – che ha schiacciato le opposizioni con l’«aiuto fraterno» dell’esercito saudita e con massacri e torture supportati dagli USA – fa tutti gli onori.
Nella nebbia della cronaca, domina quasi incontrastata la narrazione dei media anglosassoni e di quelli controllati dalle petromonarchie del Golfo. La cronaca sugli eventi siriani non fa eccezione, e propone schemi falsi e fuorvianti. Uno di questi è che la rivolta siriana sarebbe nata pacifica e poi costretta ad armarsi per fronteggiare una repressione indiscriminata.
In realtà i focolai di rivolta armata si sono avuti praticamente da subito, come in Libia del resto.
Il primo episodio consistente è della prima metà di aprile 2011, quando una colonna militare dell’esercito viene attaccata con armamento pesante sull’autostrada verso la città di Banias provocando 9 vittime tra i soldati, tra cui un alto ufficiale (prima si erano avuti solo agguati sparuti contro pattuglie della polizia o esercito in diverse località del paese). A Banias era scoppiata un’insurrezione, forse promossa dai fedelissimi dell’ex vice-presidente Khaddam (esautorato nel 2005 per una lotta di potere interna e riparato in Occidente) e che a Banias ha la sua roccaforte storica.
Ora, non si attacca una colonna militare con armamento pesante se non si ha una adeguata preparazione. Sono azioni che non si improvvisano. Va notato che nei primi tre-quattro mesi di rivolte, si contavano già nell’ordine delle centinaia i membri delle forze di sicurezza e dell’esercito rimasti uccisi. Da allora sono con ogni probabilitàmigliaia. Sulla stampa occidentale e sui canali satellitari del Golfo per mesi si diceva che fossero stati giustiziati perché si rifiutavano di sparare sulle manifestazioni. Era un vero e proprio mantra, clonato dalla litania che aveva distorto allo stesso modo le cronache sui caduti libici. Quando tale mantra risultò non più credibile, nacque l’Esercito Siriano Libero. Da quel momento i soldati lealisti erano effettivamente uccisi in combattimento, ma da parte dei disertori che lottavano contro il regime. Uno schema collaudato in tutte le guerre degli ultimi decenni.
Fin da subito, comunque, le testimonianze sul posto raccontavano di “bande armate” che fomentavano il caos. Antonella Appiano, giornalista che si trovava in Siria fin da prima dello scoppio delle insurrezioni (cioè dall’inizio di marzo), ha raccolto innumerevoli testimonianze sulla presenza di queste bande. Tale elemento è perfino scontato tra la popolazione siriana.
Ora, non è escluso che ci possano essere casi di “strategia della tensione”, ossia auto-attentati sotto falsa bandiera (false flag) per giustificare la repressione. Giornali di solito prodighi di patenti di cospirazionista per chi sospettava operazioni false flag per molti attentati accaduti in Occidente (a partire dall’11 settembre), hanno fatto a gara per subodorare complotti interni e auto-attentati in Siria. In realtà il ragionamento può essere svolto anche dall’altra parte. È indubbio, in ogni caso, che esistono numerosi casi di infiltrazioni di uomini armati che sparavano indistintamente sulle forze di sicurezza e sulle manifestazioni, e, poi, anche sui civili in modo casuale, con lo scopo evidente di creare caos per il caos. A chi giova questa strategia criminale, già vista in America Latina e in Iraq, straordinariamente efficace nel destrutturare il grado zero della sicurezza che gli stati dovrebbero garantire nel patto di cittadinanza? Chi ha guidato la mano degli squadroni della morte?
Sarebbe interessante chiederlo a Robert Ford, l’ambasciatore USA a Damasco. Prima dell’incarico nella capitale siriana Ford era stato assistente di John Negroponte quando questi era ambasciatore a Baghdad e anche lì imperversavano gli squadroni della morte, esattamente come in Honduras ai tempi in cui faceva l’ambasciatore, e da lì organizzava la guerra sporca dei Contras del Nicaragua, oltre ad addestrare le forze speciali e i torturatori di tutto il “cortile di casa” del Sud America.
Uno sguardo ravvicinato alle violenze in Siria fa sorgere domande terribili sulle narrazioni ufficiali di chi oggi dà la caccia ad Assad come ieri a Gheddafi.
È in questo clima e in questa situazione sul terreno che avviene la repressione, la quale non è inventata, ed è certamente di grana grossa, rodata da prassi ormai cinquantennali. Di nuovo la Appiano è stata testimone oculare diretta, a luglio scorso, di una manifestazione inerme nei sobborghi di Damasco su cui la polizia ha sparato contro, e riferisce, inoltre, di testimonianze da persone, che ritiene affidabili, che le continuano a parlare di retate di massa e torture. Altri reporter riferiscono in modo circostanziato esempi analoghi.
Tuttavia, se fosse anche parzialmente vero che esistono infiltrazioni che attentano contro lo Stato con l’intento di provocare una guerra civile, tale repressione e tali metodi, sicuramente anche brutali, possono essere giustificati? Fino a che limite lo sono e oltre quale limite diventano violazione dei diritti umani?
Posto che ci sono molti civili che protestano in modo pacifico, come facciamo a qualificare come «civili» gli autori di operazioni a tutti gli effetti militari? I «civili» non portano armi, e pertanto nessuno dovrebbe attaccarli, nemmeno i ribelli. Ma se il termine «civile» va a coincidere con «combattente» armato – come quello a bordo della “tecnica” – che agisce contro un governo sovrano legittimo, allora nessuno potrà immaginare che un esercito regolare possa capitolare davanti a questa tassonomia di «civili», ne tolleri senza reagire gli attentati; e infine ceda a una sicura sconfitta. Nessuno stato lo farebbe.
Siamo cinici? No, facciamo un ragionamento politico. Perché mai dovremmo regalare la lucidità interpretativa solo a un vecchio serial killer di democrazie come Henry Kissinger? L’ex segretario di Stato USA, rivolto a una qualificata platea di berlinesi, nel giugno 2011, fu esplicito, quando parlò del Bahrein e delle altre monarchie alleate: un cambiamento democratico non gioverebbe agli interessi americani. Fu ancora più esplicito: lo scompiglio rivoluzionario nei paesi arabi del Golfo Persico poneva un problema «strategico e al tempo stesso morale» per l’America. In veste di inventore del Piano Condor, ossia di pianificatore delle decine di migliaia di desaparecidos, Kissinger aveva già fatto la sua scelta «morale», ancora una volta. Lui sì che sa scegliere le priorità dell’agenda, e non se le fa dettare da nessuno.
Lo stesso Assad, nei discorsi alla nazione, ha parlato di errori, di impreparazione delle forze di sicurezza, che, di fronte a situazioni di caos hanno sparato in maniera indiscriminata. Secondo Assad tali eccessi sono stati determinati da situazioni contingenti sul terreno e non dietro ordini specifici. È credibile?
In realtà dobbiamo spogliarci dall’idea di vedere certi regimi (come quello siriano, o ancor più quello iraniano) come granitici. Al contrario. Nelle stanze del potere è un brulicare di interessi contrapposti, corruttele, difesa di rendite di posizione. Alcuni settori del regime potrebbero avere interesse a radicalizzare lo scontro proprio per togliere ad Assad terreno di trattativa e promulgare talune riforme che possano essere a loro sfavorevoli. Prima di aprire il vaso di Pandora della guerra, facciamoci molte domande su quali leve utilizzare per una via d’uscita politica.
Quali sono, ad esempio, le forze endogene che agiscono? Ci sono elementi laici e democratici che si ribellano? Certamente ci sono. Ma, se il regime dovesse cadere, quali saranno le forze fondamentali che prevarranno? Non è difficile fare previsioni: le stesse che, mutatis mutandis, hanno finora prevalso in Libia, Tunisia, Egitto. Ovvero gruppi e partiti di ispirazione religiosa-radicale che hanno i propri immediati e diretti sponsor nelle aristocrazie dei piranhas del Golfo (Arabia Saudita e Qatar in testa). Lo scontro vero, fondamentale, di questo passaggio storico in questa area, è proprio tra sunnismo e sciismo politico (dove per politico intendiamo non meramente religioso) e quindi tra i membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo alleati con l’Occidente (Stati Uniti e Israele) e dall’altra parte Iran, Siria, Hezbollah in Libano, Hamas in Palestina, alcune componenti in Iraq. Uno scontro che ha preso l’abbrivio, con caratteristiche diverse nel Nord Africa e si concluderà presumibilmente in Iran. Con la Turchia che intanto scommette di riportare tutto in una cornice moderata. Impresa molto difficile, almeno se osserviamo i tagliagole al potere in Libia, o i sermoni di certi Ulama sotto il cielo siriano.
Ancora una volta, prima di volere per forza spiegare a un siriano filo-Assad dove abita, come in troppi fanno in Occidente, proviamo a immaginare la sua reazione di fronte alla predica dello sceicco salafita Adnan al-Aruri, originario di Hama e riparato in Arabia Saudita, dove è diventato una star della Tv satellitare al-Wisal, dai cui schermi indossa l’elmetto contro gli sciiti. La predica risale a giugno 2011 e prende di petto il legame del regime con le minoranze, specie la comunità alauita: «A chi rimane neutrale non sarà fatto torto alcuno. Chi partecipa alla Rivoluzione sarà con noi e verrà trattato al pari di ogni altro cittadino. Chi invece sarà colpevole di un sacrilegio sarà squartato e la sua carne sarà data in pasto ai cani» [1].
Adnan al-Aruri fa retorica, ma altri predicatori usano ben altro che le parole, ancorché incendiarie.
Caliamoci ancora una volta nella fornace della storia, sentiamoci già fuori dall’involucro della nostra normalità, e immaginiamo quali pensieri ci verrebbero, se vedessimo ogni giorno i seguaci di un simile figuro incendiare il nostro Paese e prometterci credibilmente di dilaniarci per ingrassare i cani, esattamente come i parenti del vicino profugo che ci ha raccontato la sua sorte in mano a chi aveva “abbattuto il regime oppressivo” di Saddam.
Quali sono le fonti di molti eventi siriani descritti in questi mesi? Sarebbe molto utile saperlo; per quanto riguarda la situazione di Homs, le testimonianze di chi è stato sul posto dimostrano ampiamente che lo scenario è molto più complesso di quanto viene propagandato a suon di titoloni.
Dovremmo imputare le responsabilità degli eccessi  a qualche “mela marcia”? La repressione esiste, non è un’invenzione, lo ribadiamo, ma è necessario vedere la fotografia più panoramica. E in questo quadro Assad non può essere dipinto quale esclusivamente “brutto e cattivo”, ennesima replica della “reductio ad Hitlerum”. Assad è un elemento di un sistema composito e, se si segue da vicino la traiettoria che ha tenuto durante la crisi, si nota distintamente, a nostro avviso, il suo aver fatto tutto quanto era in suo potere per (ovviamente) salvaguardare il “suo” sistema di comando, ma anche per evitare una guerra civile.
Non è un caso che gli oppositori più ragionevoli abbiano più volte chiesto ai manifestanti di fermarsi per non essere strumentalizzati e per aprire un tavolo negoziale con il governo. Quando si spara non si tratta. Chi sparava? Chi fomentava il caos? Probabilmente lo si è fatto da entrambe le parti, c’erano sia apparati legati al potere che fazioni dell’opposizione, che rispondono a logiche diverse ma assumono, fatalmente, le stesse tattiche.
Troppo complicato, ai tempi di un “Mi piace” su Facebook? Proviamo a semplificare, allora.
Premessa: prima dell’inizio della crisi Assad era generalmente apprezzato dalla maggioranza del popolo siriano. Chiunque sia stato in Siria ammette questo fatto; semmai la critica poteva essere la seguente: Assad è bravo, peccato che il sistema sia così corrotto; Assad ha promesso che lo riformerà, piano piano, abbiamo fiducia che sia così.
In presenza di questa pazienza popolare, sulle ali di una situazione economica sulla via della prosperità, la necessità di presidiare la difficile sovranità nel panorama arroventato del Vicino Oriente dava la precedenza alle scelte più conservatrici di Assad, ai suoi colpi di freno, attenti a non mettere in crisi il suo partito-Stato, il Ba’th.
Quando è scoppiata la crisi, si sono delineati questi protagonisti:
– Dimostranti pacifici che chiedevano inizialmente solo riforme, di varia ispirazione politica (laica, religiosa, etnica, socialista, liberale, ecc.) e che hanno agito in buona fede. Con l’inasprirsi degli scontri hanno assunto posizioni via via più radicali. Hanno dimostrato di essere una minoranza: risibile a Damasco e Aleppo, le due città fondamentali, molto più consistente in altre zone della nazione, magari anche con rivendicazioni proprie e particolari (caso esemplare Deraa).  Politicamente sono divisi in tre filoni: i comitati di base (vogliono la caduta del regime ma nessun intervento dall’esterno), i gruppi dissidenti all’estero (molto più ambigui sugli “aiuti” esterni), gli oppositori “dialoganti” che temono la guerra civile.
– Ribelli armati. Sono apparsi praticamente da subito e non solo come risposta alla repressione. Anzi, il loro obiettivo era scatenare la repressione e radicalizzare lo scontro coinvolgendo i manifestanti “democratici”. Chi sono? Dentro c’è di tutto e di più: gruppi legati ad ex uomini forti epurati come Rifaat Assad, zio di Bashar, il massacratore di Hama del 1982, o l’ex vice-presidente Khaddam, riparato in Occidente, considerato comunemente un “macellaio” anche dagli oppositori democratici; fazioni sunnite radicali endogene, che avversano il regime da sempre (Fratellanza musulmana, salafiti) e che possono avere contatti con stati esteri (soprattutto le monarchie sunnite del Golfo). Il grosso dei “manifestanti” ha questo carattere, al loro interno si muovono i gruppi armati con la stessa ispirazione; veri e propri infiltrati jihadisti, soprattutto da Iraq, Giordania, Libano, Turchia. Su questo aspetto è da tenere particolarmente evidente come la maggioranza degli “alqaedisti” che sono arrivati in Iraq durante l’occupazione americana, venissero dalla Cirenaica e transitavano proprio attraverso la Siria. Se il regime ha compiuto un errore strategico è stato quello di chiudere un occhio su questo transito. In Siria è stato forte il dibattito: che ne facciamo di questi? Alla fine hanno deciso di non fare nulla. Superfluo dire che non esiste niente di più torbido di queste armate jihadiste, le cui strutture sono state attive in Afghanistan negli anni ’80, transitando per Cecenia e Balcani negli anni ’90, in Iraq dal 2003, e tornando fuori in Libia e ora in Siria con la “primavera araba”;
– i disertori dell’Esercito Siriano Libero: difficile dire quanti siano, forse alcune migliaia, probabilmente di confessione soprattutto sunnita. Non vi fanno parte, al momento, ufficiali di alto livello (il loro comandante è, ad esempio, un colonnello e non un generale), sono appoggiati soprattutto dalla Turchia; non si può escludere l’azioni di forze speciali occidentali (e anche israeliane) che magari non agiscono direttamente sul terreno ma coordinano le azioni e le infiltrazioni dai paesi confinanti. Se truppe speciali entrano in azione in Siria dall’esterno sono probabilmente arabe, quelle che hanno agito anche in Libia, e libanesi (sunnite e cristiane falangiste); brigate sunnite irachene, le stesse che cooptò il generale Petraeus per il surge in Iraq: Il presidente iracheno Al Maliki le ha sciolte e loro hanno trovato un altro impiego (secondo voci di intelligence che valgono quel che valgono si devono a loro gli attentati di Damasco con le autobombe);
– brigate curde siriano-irachene. I curdi siriani avversano il regime, quelli iracheni, numericamente molto più consistenti, sono anche molto più organizzati. Le forze armate curde irachene, tra l’altro, sono addestrate dagli israeliani.
– Forze di sicurezza siriane (esercito, polizia, servizi segreti). Combattono le insurrezioni e dovrebbero proteggere i manifestanti pacifici. La prima parte la svolgono anche in maniera brutale. Se combatti una guerra lo fai con tutti i mezzi a tua disposizione. Riescono a distinguere tra insorti e manifestanti? Abbiamo i nostri dubbi (di qui le ammissioni di Assad sui gravi errori). Ma, vista la situazione sul terreno, è forse missione impossibile, anche avendo le migliori intenzioni (e loro non crediamo le abbiano). Ci sono settori “estremi” nella repressione? Come in tutti gli apparati statali, ci sono quelli con la vocazione del “lavoro sporco” (e qui siamo nel Vicino Oriente e in un regime che è, obiettivamente, autoritario). Pare accertata la presenza di elementi iraniani che supportano le forze di sicurezza. Di certo non sono angioletti, e in mano non hanno arpe. Anche perché i nemici non maneggiano clarinetti.
– Shabbiha, le milizie filo-governative. Possono essere talvolta più realisti del re, per quanto riguarda i metodi repressivi. Talvolta perché fanatici, talvolta perché proteggono il loro sistema di potere che può avere anche carattere “mafioso”. Non ci stupiremmo se agissero (anche) con metodologie da “strategia della tensione”. Le manifestazioni “democratiche” sono per loro un pericolo perché potrebbero offrire ad Assad il “pretesto” per riforme che possono spazzare vie le loro rendite di posizione, che possono essere mantenute solo se prende il sopravvento la logica miope dello scontro muro contro muro.
Anziché lucidare le grancasse delle condanne, noi che viviamo sicuri nelle nostre tiepide case, dovremo dunque usare una prudenza estrema, per difendere la causa della pace, e mettere qualche granello fra gli ingranaggi della macchina della guerra.
L’Impero gioca la sua partita esistenziale e lo fa sulla pelle dei popoli con i mezzi che ha sempre utilizzato e che noi tutti conosciamo bene. Per l’Occidente il negoziato è impossibile. Intende semplicemente rovesciare un regime che fa parte di un blocco di cui i poteri occidentali vogliono liberarsi ad ogni costo.
Un leader che aveva un potenziale politico riformatore enorme, Bashar al-Assad, è così trasformato in un “macellaio”, prima di asfaltarlo e costruirvi sopra  – in vista della prossima guerra atomica – una base militare in più, circondata dalle grassazioni della soldataglia sopra le “tecniche” lungo le strade di una nazione in sfacelo.
 

[1] Cfr. Thomas Pierret, “In Siria ‘Allah’ non fa rima con Fratelli”, Limes, n. 1-2012. Il grassetto è nostro.
 
 
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