Un "Sessantotto" turco nella crisi globale

Raffaele Sciortino, riflettendo sulla Turchia, ha scritto un’analisi eccellente sul mondo. Parto da una mia esperienza turca per aggiungere qualcosa. [Piero Pagliani]

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11 Giugno 2013 - 13.23


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di Piero Pagliani.

Raffaele Sciortino, riflettendo sulle ultime vicende turche,
ha scritto un’analisi eccellente, in linea con quelle a cui ci ha abituato. Parto da una mia
esperienza turca per aggiungere qualcosa.

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Tra la fine del 2000 e l’estate del 2001 ho vissuto a Istanbul per lavoro e mi sento
particolarmente legato a questa splendida città e ai suoi abitanti, persone
amabili e di grande civiltà.

Approfittai di questo soggiorno per affinare le mie
conoscenze sulla Turchia e sulla zona caucasica e centroasiatica. Conoscenze
che in seguito sintetizzai in un libro sulle guerre di Bush, pubblicato da
Punto Rosso e intitolato “Alla conquista
del cuore della Terra”
.

Durante il mio soggiorno, nel febbraio del 2001, la Turchia subì una gravissima crisi
finanziaria
. Da un giorno all’altro il valore della lira turca rispetto al
dollaro quasi dimezzò. Ricordo benissimo le facce cupe dei colleghi turchi. Io
per quasi una settimana non potei prelevare soldi con la carta di credito
perché le banche europee avevano bloccato le transazioni. Per poter mangiare
dovetti farmi imprestare i soldi dal mio padrone di casa che generosamente mi
anticipò circa venti milioni di lire turche di allora.

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E ricordo la percezione di un cambiamento del clima sociale di Istanbul; una sensazione che misi
a fuoco solo in seguito. La città laica che mi aveva accolto al mio arrivo solo
pochi mesi prima, incominciò a popolarsi di foulard islamici. Ovviamente ce ne
erano anche prima, ma il fatto che iniziai ad accorgermene voleva dire che qualcosa
stava mutando. È un ricordo che oggi ha più di dieci anni, allora era una
sensazione, ma non credo di stare riferendo un’allucinazione. Era un segnale di
quel cambiamento che da lì a poco portò al governo l’AKP.

Non era, come è facile immaginarsi, un cambiamento improvviso.
Un collega iraniano mi aveva avvisato di cosa stava bollendo in pentola. Mi
riferiva ad esempio che i tassisti quando sapevano che lui era iraniano spesso
si mettevano a dire: “Beati voi che avete un governo islamico!”.

Ma era un “brontolio” che doveva emergere con chiarezza solo
dopo il fallimento dei governi kemalisti.
L’ultimo fallimento si stava drammaticamente consumando proprio in quel momento
ed era dovuto al governo del Partito della Sinistra Democratica e dei suoi
alleati nazionalisti-kemalisti, guidato da Bulent Ecevit.

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Insomma, quella crisi finanziaria si tramutò nella crisi del
laicismo kemalista.

L’AKP vinse così le elezioni nel 2002 col 34,3% dei voti,
che grazie al sistema elettorale gli regalò il 66% dei seggi al Parlamento. Nel
2007 il successo in termini di consensi fu più netto, il 46,7% (che però fruttò
solo il 62% dei seggi – le leggi elettorali balzane non ce le abbiamo solo
noi).

Cosa sta succedendo ora? Esattamente tutto quello che
descrive Sciortino, con tutte le domande che si pone.

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Posso solo aggiungere alcuni elementi per rafforzare la sua
analisi.

Innanzitutto il richiamo
all’ordine da parte degli Usa
. Un dato che sfugge sia a quella sinistra a
cui viene l’orticaria quando si parla di geopolitica, sia a fior fior di
economisti che sono refrattari a prenderla in considerazione.

Sono rimasto di sasso leggendo un articolo di Marcello De Cecco in cui si sostiene
una perdita di interesse degli Usa per l’Europa, sulla base di considerazioni
economiche. Non mi sarei mai aspettato una simile ipotesi da parte dell’autore
del fondamentale “Moneta e impero”. A
mio avviso, al contrario, gli Usa non possono e non vogliono perdere la loro
presa sull’Europa, che anzi deve aumentare. Tanto è vero che stanno già
lavorando a un progetto di zona di libero scambio transatlantica. Cosa che per me è un segnale
della de-globalizzazione in atto,
ossia della compartimentalizzazione dell’economia-mondo in distinte regioni
geopolitiche e geoeconomiche.

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E proprio a causa di questo processo gli Stati Uniti non
possono permettere nemmeno alla Turchia di fare troppo di testa sua,
esattamente come Sciortino asserisce.

Ma quali sono state le alzate d’ingegno turche che hanno
spinto gli Usa a richiamare all’ordine l’alleato anche sfruttando la rivolta
attuale?

In termini generali sono state da una parte ciò che possiamo
chiamare “politica neo-ottomana” che
vede un progetto egemonico in Medio Oriente (da cui lo scontro diplomatico,
rientrato, con Israele) e dall’altra una linea
panturanica
, ovverosia di egemonia sulle regioni turcofone, che sulla carta
vanno dal Mediterraneo allo Xinjiang via Asia Centrale; linea per altro
ereditata dai partiti tardo-kemalisti precedentemente al governo. Perché dico
“tardo-kemalisti” e non “kemalisti”? Perché se del kemalismo quei partiti
portavano avanti la laicità, tuttavia non dobbiamo scordarci che Atatürk guardava decisamente all’Europa e
all’Occidente, non all’Oriente (da cui la pantomima
dell’ingresso della Turchia nella UE,
che ben prima delle attuali difficoltà del nostro ammuffito e litigioso
condominio continentale, era già così caratterizzata da qualche attento
osservatore turco: “L’Europa fa finta di volere la Turchia nella UE, almeno quanto
la Turchia fa finta di volerci entrare”).

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Questo più o meno è il
quadro. Ma ve la vedete l’America che nel bel mezzo delle grandi manovre di
contenimento della Cina (e della Russia) permette a un proprio alleato di fare
di testa sua in aree strategiche come il Medio Oriente e l’Asia Centrale?

Sciortino ha già
risposto e io condivido la sua risposta: non lo permette (e di questo si rende
conto con pericolosa stizza anche Israele).

A questo punto dobbiamo
ricordare che in Turchia ogni governo, specialmente se è islamico, è guardato
a vista da due istituzioni kemaliste:
la Magistratura e l’Esercito. E ricordiamoci anche che
l’esercito turco è il secondo nella Nato come potenza, se si eccettuano le armi
non convenzionali. Che cosa sta facendo l’esercito in questa crisi? Come la
pensa? Si adopererà per il ben servito a Erdoğan? E questo ben servito si riferisce
anche alla questione siriana,
ovverosia si inquadra in un’ipotesi di ricerca da parte di Obama di un temporaneo
accordo con Russia e Cina sulla Siria e, quindi, sull’Iran?

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Questa sembra essere un’ipotesi molto contrastata
all’interno dei ponti di comando
statunitensi
, basti pensare alla novella scoppola del
Datagate
e all”immediatamente precedente gioco di notizie e
smentite sull’uso delle armi chimiche, gioco in cui i novelli Sykes e Picot anglo-francesi fanno gli incendiari (secondo
me coadiuvati dal clan Clinton) e Obama fa il pompiere (coadiuvato da John Kerry che non a caso ha scalzato
la Clinton al Dipartimento di Stato – e, per quel che vale, è anche amico
personale di Assad -, dall’Onu, vedi
il rapporto di Carla Dal Ponte, e infine
dalla stessa polizia turca, che rivela per vie ufficiali di aver sequestrato
armi chimiche ai tagliagole di Al Qa”ida in missione antisiriana).

Insomma, un gioco
complesso in cui sui ponti di comando imperiali e subimperiali sembra che si
stiano pigliando a sonori cazzotti. Segno che le contraddizioni della crisi sistemica sono arrivate sulla soglia dell’inestricabilità.

La composizione della protesta è un altro rebus.

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In qualche misura sembra
di rivedere, in “stile turco”, il nostro Sessantotto.

Che cosa è stato il
Sessantotto se non un movimento in cui si mischiavano ideali comunisti e
antimperialisti a processi di semplice modernizzazione degli ordinamenti
sociali e dei costumi sessuali, familiari, comportamentali? E quel movimento
occidentale non si svolgeva forse al 
culmine
del grande sviluppo del dopoguerra, sospinto proprio
da quello stesso sviluppo e dai cambiamenti sociali che esso aveva indotto, ma
maturato solo tre anni prima che la dichiarazione d’inconvertibilità del
dollaro in oro decretasse la fine di quello sviluppo e l’inizio della lunga
crisi di cui oggi stiamo vivendo lo
showdown
?

Nell’analisi di
Sciortino in merito alla rivolta turca mi sembra di scorgere tutti quanti
questi ingredienti. Ricordo solo, in aggiunta, le esplicite azioni antimperialistiche di una parte notevole dei
manifestanti (assedio all’ambasciata e ai consolati statunitensi, l’incendio di un centro di raccolta di
guerriglieri anti-siriani
e infine la poco conosciuta storia della vasta ribellione dei quartieri sciiti
di Istanbul).

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Ma l’alto livello di
violenza è veramente solo una “cifra” turca? Non ne sono molto convinto.

Intanto anche in
Occidente, e specialmente in Italia, la violenza ci fu, anche senza contare la
stagione delle stragi – vero e proprio bombardamento in tempo di pace attuato
per un decennio sul nostro Paese – o le Brigate Rosse. I morti ci furono, anche
se si fa finta che non ci siano mai stati: solo a Milano, dove vivevo, ricordo
Saverio Saltarelli, Roberto Franceschi, Claudio Varalli e Giannino Zibecchi.
Solo che questo avvenne in sette anni, non in sette giorni.

Può essere allora che
siano proprio i tempi dello
showdown
a imporre ritmi e livelli parossistici, una “tolleranza zero” che
nemmeno nei momenti più drammatici della stagione di rivolta 1968-1977 noi
abbiamo sperimentato.

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Ma anche per noi i tempi
stanno cambiando e l’inesorabile affossamento
della sostanza democratica nei Paesi occidentali
(una sorta di ritorno implicito al voto per censo
materiale e in parte intellettuale
– che altro vuol dire il 50% di
astensioni? – con conseguenti maggioranze assegnate a chi ha il 25% reale dei
consensi, o poco più ma a volte anche di meno; liste presidenziali di persone
da assassinare; dichiarazioni di guerra extraparlamentari; informazione
embedded
– impensabile ai tempi del Vietnam; assalti
panmediatici all’arma bianca a chiunque minacci l’egemonia dei prescelti,
eccetera), questo voluto e inesorabile processo è il segnale che ormai ai piani alti si ragiona in base a una
tolleranza zero a 360 gradi, per quanto possa essere dissimulata
.

E allora, concludo, cosa
succederà quando, come prevede
Raffaele Sciortino, la crisi si
acuirà
nuovamente in Occidente in tutti i suoi aspetti sistemici?

Stiamo ritornando al
punto iniziale, alla presa ferrea che gli Usa dovranno esercitare sul nostro
continente. E bene fa Sciortino allora a ricordare «
l’opzione
yankee per la frattura dell’euro e
la dollarizzazione della periferia
mediterranea
in funzione antitedesca
».

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E’ un’opzione
geopolitica
ben prima che economica. È da oltre un anno che cerco di
parlare di doppia trappola, cioè di una trappola immediata, interna e
sub-imperiale, dell’Euro-Marco e di una trappola esterna, imperiale, del
Dollaro; che cerco di parlare di opzione di FED-izzazione dell’Euro, di far
capire che è un errore vedere in Monti e Draghi dei vassalli della Merkel, o
confondere la FED con la BCE e tutte e due con la Goldman Sachs pensando che l’alta finanza privata e quella
intergovernativa (la Troika) siano la stessa cosa.

Ma tant’è. La sinistra “radicale” è partita in quarta
unificando e confondendo, così che adesso sono le sue proposte che si
confondono con le sparate di Berlusconi contro la Merkel (buffonescamente
titolate da Repubblica “Ricatto
all’Europa”
– da non credersi!). E purtroppo, il massimo che la nostra
sinistra riesce ad immaginarsi come lenitivo della crisi sistemica è proprio
una FED-izzazione dell’Euro, o la stampa a go-go di una nuova Lira
(necessariamente dollarizzata a meno di una rivoluzione bolscevica o quanto
meno bolivariana).

Quante volte abbiamo dovuto sentire anche da leader della
sinistra radicale “Dobbiamo fare come gli Usa! Dobbiamo fare come Obama!” o
anche, “come il Giappone”, senza che si ponessero il problema di quali
condizioni sistemiche facciano del Dollaro il Dollaro, dell’Euro l’Euro, dello
Yen lo Yen e dello Yuan lo Yuan?

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Credo che prima delle elezioni
tedesche
assisteremo a qualche fuoco
d’artificio
poco piacevole. Perché siamo a un  punto di svolta (che non è la “ripresa” che
ogni semestre gli economisti mainstream
ci annunciano da ormai sei anni).

Il punto all’ordine del giorno è un altro. La Germania in autunno deve capire con
quali stratagemmi può barcamenarsi nella crisi senza lasciarci le penne
e,
magari, accumulare invece i mezzi per cercare di sfruttarla. La spremitura dei
PIIGS pare che sia al capolinea. Gli Usa devono evitare che si impegni allora
in una Ostpolitik ostile.

La Germania, dice, urla, sbraita, ma a me sembra che Draghi le dica “Sì, sì” ma poi alla fine faccia quel che qualcun altro gli ha
detto di fare.

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Ad ogni modo, la Germania sta preparando il suo deterrente:
la sentenza autunnale della sua Corte Costituzionale sulla liceità dell’Outright monetary transactions, cioè del piano salva-euro.

In qualche modo quella potrebbe essere la sua piccola “arma
fine di mondo”.

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