In war we trust

Obama e le confraternite della guerra permanente.
Con un’intervista a Andrew J. Bacevich. [Stefania Elena Carnemolla]

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10 Settembre 2013 - 22.35


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di Stefania Elena Carnemolla

Il gran sacerdote della guerra di Washington lucida, chiuso nello Studio Ovale, le ali di cera con cui andrà chissà quando alla guerra di Siria, volando vicino al sole di Damasco. Lui, Icaro del XXI secolo, con al collo la medaglia d’oro del Nobel per la Pace del valore di una patacca.

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Noi siamo gli Stati Uniti d’America, dice, con i satrapi del potere di Washington felici d’aver trovato una nuova minaccia e un nuovo nemico cui costruire tutt’intorno la storia del tiranno oppressore. Il tiranno di Damasco, che ha i baffetti di Bashar al Assad, colpevole di essere il presidente della Siria, un ostacolo per il gran sacerdote e i satrapi di Washington folgorati sulla via di Damasco sognando l’Iran. Una trama con più sceneggiatori con i ribelli siriani armati e nutriti a dollari e piombati come locuste e cavallette sulla Siria addestrati dalla Cia, e non solo dalla Cia.

Washington, dove c’è la regia della crisi siriana, è il simbolo del potere politico intrecciato al potere militare. Così come di quella diplomazia che da tempo ha ceduto il passo alle armi, facendo della politica estera americana una politica estera militarizzata. Gli Stati Uniti sono ormai diventati una “nazione militarista e aggressiva”, così David Shoup, ex comandante dei Marine Corps, in The New American Militarism, pubblicato nell’aprile del 1969 su Atlantic Monthly, con il senatore J. William Fulbright che nel 1966 con Arrogance of Power già aveva spinto per un ripensamento delle [b]Washington Rules[/b].

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Allarmi inascoltati. È qui, a Washington, che la guerra ha ancora il suo tempio. Un tempio di cui Obama, Nobel per la Pace 2009, è oggi il nuovo gran sacerdote. È da Washington che sono partite le “crociate” per “liberare il mondo” secondo il credo, così Andrew J. Bacevich, “strombazzato” dagli americani sin dalla presidenza Truman e secondo cui loro e solo loro devono poter “guidare, salvare, liberare, e infine trasformare il mondo”.

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Crociate creature di quella che Bacevich in [i]Washington Rules: America’s Path to Permanent War[/i], caustico, chiama la Sacra Trinità, imperniata su tre “verità indiscusse”: che “pace e ordine internazionale richiedano la presenza militare globale degli Stati Uniti”, che la loro forza sia “configurata per una proiezione di potere globale, quindi che solo un “interventismo globale” possa “sconfiggere, anche anticipandole, le minacce esistenti”.

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Per Bacevich è Washington la Roma di questa religione universale, con il Pentagono Santa Sede del super potere militare. Se ciò, dice Bacevich, poteva avere senso nel 1945, non oggi, con risultati catastrofici per l’America ormai costretta a vivere in una “condizione di crisi permanente della sicurezza nazionale”.

Una condizione che fa comodo all’establishment della sicurezza nazionale colpevole di voler perpetuare le Washington Rules del “dominio globale”. Washington, così Bacevich, non è solo il governo federale, ma anche quella congrega che da questo “perpetuo stato d’emergenza” ricava potere, denaro, prestigio, e quindi i contractors del Pentagono, le società, le grandi banche, i think tanks, i gruppi d’interesse, le università, i network televisivi, il New York Times. Un sistema d’interessi, accusa Bacevich, che ruota intorno al concetto di belligeranza globale che piace sia ai repubblicani tradizionali che ai democratici tradizionali. Chiunque si ponga al di fuori di questa “visione monolitica” è subito liquidato come “pazzo”.

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Andrew J. Bacevich è un ex militare, nato nel 1947 a Normal, nell’Illinois, un passato nella US Army fra Vietnam, Germania e Golfo Persico e congedatosi dall’esercito americano con il grado di colonnello. Studi alla United States Military Academy di West Point, quindi in storia americana e in storia diplomatica americana a Princeton, oggi Bacevich, che è uno specialista di storia militare e diplomatica americana, politica estera statunitense e di studi sulla sicurezza, insegna Storia e Relazioni Internazionali alla Boston University, con un passato accademico alla United States Military Academic di West Point e alla John Hopkins University.

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A Boston è arrivato nel 1998, a capo fino al 2005 del Center for International Relations. È stato fellow del Council on Foreign Relations di New York, della The John F. Kennedy School of Government di Harvard, della The Paul H. Nitze School of Advanced International Studies della John Hopkins University, della The American Academy di Berlino, nonché del Kroc Institute for International Peace Studies della University of Notre Dame.

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Famoso per il suo Washington Rules: America’s Path to Permament War, uscito nel 2010, nel 2013 Bacevich ha pubblicato Breach of Trust: How Americans Failed Their Soldiers and Their Country, quindi The Limits of Power: The End of American Exceptionalism nel 2008, The New American Militarism: How Americans are Seduced by War nel 2005, American Empire: The Realities and Consequencs of U.S. Diplomacy nel 2002 e, nel 2007, come editor, The Long War: A New History of U.S. National Security Policy Since World War II.

Suoi saggi e recensioni sono apparsi su The Wilson Quarterly, The National Interest, Foreign Affairs, Foreign Policy, The Nation, The New Republic e, suoi articoli, sul New York Times, Washington Post, Wall Street International, Financial Times, Boston Globe, Los Angeles Times, nonché su altri giornali e magazine.

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Critico dell’ortodossia militarista di Washington, da cui si allontanerà ancor prima del congedo, Bacevich è famoso per Washington Rules, una “tough-minded, bracing and intelligent polemic against some 60 years of American militarism”, così Gary J. Brass, professore di Politica e Affari Internazionali a Princeton nella sua recensione del 3 settembre 2010 sul New York Times.

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Conservatore, critico di Bush figlio e della sua dottrina di guerra preventiva, bollata come immorale, illecita e imprudente, passato all’opposizione, pur rimanendo conservatore, dopo la decisione di Bush di lanciare l’operazione Iraqi Freedom, quando Obama si candidò alla Casa Bianca, Bacevich, deluso dalla politica dei conservatori, propose che non solo lui ma che anche altri conservatori votassero per il giovane senatore di Chicago, certo che avrebbe archiviato il “ruolo di combattente degli Stati Uniti in Iraq”.

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Su Obama dovette ricredersi dopo la sua decisione di incrementare le “truppe di occupazione in Afghanistan”. Il 7 luglio 2010 in un articolo, titolo [i]Non Believer[/i], pubblicato su The New Republic, Bacevich, che riconoscerà a Bush di essere ostinato nell’errore ma sincero, rimproverando a Obama di essere un sostenitore della guerra in Afghanistan, cui non credeva, ma che pure sosteneva per cinismo e tornaconto politico, si chiederà: “Chi bisogna disprezzare di più il comandante in capo che manda giovani americani a morire per una causa, anche se sbagliata, in cui egli crede sinceramente? O il comandante in capo che manda giovani americani a morire per una causa in cui egli manifestamente non crede e che pure si rifiuta di abbandonare?”.

E il 1° ottobre 2010 intervistato da Jake Whitney per Guernica che gli aveva ricordato come eppure s’era fidato di Obama ai tempi della sua corsa alla Casa Bianca: “Ma io aveva interpretato la retorica elettorale di Obama sull’Afghanistan come un tentativo di difendersi dall’accusa di essere un codardo in materia di sicurezza nazionale, ma la sua decisione per una escalation non era quello che i suoi elettori gli avevano chiesto a gran voce”.

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Per Bacevich repubblicani e democratici, che a Washington hanno il loro centro di potere, sono senza distinzione alcuna i responsabili di quella politica militarista, simbolo dell’ortodossia imperante, fatta di interventismo e politica estera militarizzata. Una politica che danneggia i veri interessi del popolo americano, costringendolo, suo malgrado, a vivere in una condizione di guerra permanente, quella cui Obama, nuovo simbolo della vanagloria militarista americana, è colonna e pilastro.

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Obama, così come altri prima di lui, ossequia il dogma di Washington, quello che nel 2004 farà dire a Donald Rumsfeld, segretario alla Difesa di Bush figlio, abbiamo riaperto le scuole, abbiamo riaperto gli ospedali, abbiamo riaperto le cliniche, abbiamo trasformato l’Iraq, c’è il boom economico, ovunque si scorgono segni di progresso.

Coloro che credono nel dogma di Washington vedono il mondo diverso da quel che è, fino a creare realtà immaginifiche. Coloro che non credono nel dogma, e quindi quelli che il potere di Washington bolla come eretici, vedono invece il mondo per quel che è, guardando alla realtà nuda e cruda.

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Le critiche di Bacevich riguardano anche le modalità con cui le dottrine militari hanno influenzato la politica di Washington, dalla “shock and awe” e guerra lampo di Rumsfeld alla strategia della [i]counterinsurgency[/i] del generale David H. Petraeus, poi a capo della Cia e ora tornato agli onori della cronaca bellica per il suo appoggio alla decisione di Obama di attaccare la Siria, giusto per “dare un segnale all’Iran e alla Corea del Nord”. Nessuna meraviglia, perché Petraeus è per Bacevich l’uomo dell’ortodossia.

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Già in Washington Rules Bacevich aveva ironizzato sulla sua dottrina tutta incentrata sulla collaborazione con gli eserciti locali per la “costruzione della sicurezza” di un paese. Così come aveva ironizzato sulla dottrina del “suo protetto”, il generale Stanley A. McChrystal, che per l’Afghanistan aveva chiesto “seicento bilioni di dollari” e altri “trentatremila soldati americani in aggiunta ai settemila della Nato”, quindi paragonando Petraeus al “prefetto per la Congregazione per la Dottrina della Fede di Washington” e McChrystal al “superman messianico” che “ricostruirà l’Afghanistan”.

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Dalla “guerra globale al terrore“ di Bush alla “campagna globale di counterinsurgency”, suggerita anche da John Nagl e dal generale Benet Sacolick, di Obama, che con McChrystal egli abbraccerà in versione long war per applicarla allo scenario afghano, mantenendo, grazie a questo nuovo sforzo dottrinale, lo status quo, garantendo, cioè, uno stato di guerra permanente secondo i dettami delle Washington Rules.

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Se la prima fase del conflitto globale, così Bacevich in War on terror – Round 3 pubblicato il 19 febbraio 2012 sul Los Angeles Times, era stata gestita da Rumsfeld e la seconda da Petraeus, l’uomo simbolo della terza fase è Michael G. Vickers, già uomo di Bush, con un passato nelle forze speciali dell’esercito americano e nella Cia (c’era lui negli Ottanta in Afghanistan quando si trattò d’armare i mujaheddin contro i sovietici).

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Oggi, spiega Bacevich, a Washington le regole si modificano, s’infrangono, si reinventano a tutto vantaggio degli Stati Uniti. La Casa Bianca non manda più “grandi eserciti per invadere e occupare paesi”, preferendo piuttosto “missili sparati da droni” e attacchi “mordi e fuggi” per “eliminare” chiunque il presidente americano “decida di eliminare”, con gli Stati Uniti che ormai si riservano, cioè, il diritto di “attaccare chiunque considerino una minaccia diretta alla propria sicurezza nazionale” e con il “presidente” che può esercitare questo “presunto diritto” senza “autorizzazione del Congresso, senza consultare nessuno” tranne “Vickers e pochi altri membri dell’apparato di sicurezza nazionale”.

Mentre la Casa Bianca si prepara alla sua nuova guerra d’aggressione, ora contro la Siria, con un attacco rimandato di giorno in giorno, sul Washington Post Robert Scale, generale a riposo ed ex responsabile dello Us Army War College, ha accusato il potere di Washington di dilettantismo: “Non c’è strategia, non c’è un obiettivo finale, abbiamo rinunciato all’effetto a sorpresa, tutto è stato condotto in maniera amatoriale in barba a ogni principio bellico”.

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Di questo avevamo parlato noi, ancor prima che il generale Scale tuonasse dalle colonne del quotidiano di Washington, nel nostro colloquio con Andrew J. Bacevich sulla guerra contro la Siria, quella voluta dalla Casa Bianca e dalle confraternite di Washington.

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Intervista a Andrew J. Bacevich[/size=4]

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Stefania E. Carnemolla – L’intervento americano contro la Siria con la perdita dell’appoggio della Gran Bretagna, sua storica alleata e dopo il disimpegno della Nato, è la prova del dilettantismo militare, politico e strategico di Obama, così diversi analisti. Professor Bacevich, qual è la sua opinione?

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Andrew J. Bacevich – Non so se sia una prova di dilettantismo, sicuramente rappresenta un fraintendimento, una cattiva lettura della politica britannica. Certo, l’abbaglio di David Cameron è stato ben più spettacolare di quello del presidente Obama.

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Stefania E. Carnemolla – Molti concordano nel dire che dopo il suo discorso retorico sulla linea rossa e a causa del fatto che lo scenario prebellico non è quello che sperava, Obama ora interverrà giusto per “salvare la faccia”. È d’accordo con questa analisi?

Andrew J. Bacevich – Il presidente ha fatto un errore enorme con la sua enfasi sulla linea rossa. Quando Assad ha capito che il suo era un bluff, Obama ha capito che nessuna delle sue opzioni mlitari era attraente. Non sta cercando di salvare la faccia, sta solo tentando di trascinare il Congresso nella condivisione dell’impiccio.

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Stefania E. Carnemolla – Non pensa che la linea rossa, che Obama pensava fosse il suo punto di forza, sia diventata per ironia della sorte il suo boomerang?

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Andrew J. Bacevich – Assolutamente sì, proprio così.

Stefania E. Carnemolla – Possiamo immaginare o anche pensare che Obama è un presidente che non ha imparato nulla dalla lezione irachena e quella afghana?

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Andrew J. Bacevich – Ha imparato che invadere e occupare i paesi con la prospettiva di trasformarli è un obiettivo da sciocchi. Ecco perché è fermamente convinto che non ci saranno truppe di terra inviate in Siria.

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Stefania E. Carnemolla – Col passare del tempo sembra che l’unica cosa cui Obama aspiri sia un atto di guerra contro la Siria. L’ex professore di Diritto Costituzionale che viola la costituzione e la legge internazionale.

Andrew J. Bacevich – Obama è come qualsiasi altro leader mondiale. Rispetta le leggi internazionali quando le leggi servono ai suoi scopi. Le aggira quando sono un ostacolo ai suoi scopi.

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Stefania E. Carnemolla – Quali pensa saranno le chances militari americane?

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Andrew J. Bacevich – Non c’è dubbio che gli Stati Uniti possano distruggere targets. Molto più dubbio se così facendo la cosa sarà utile a un qualche obiettivo politico.

Stefania E. Carnemolla – A Obama manca una strategia militare. Il rischio è che la Siria possa diventare il nuovo pantano delle Forze Armate americane.

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Andrew J. Bacevich – Penso che lei abbia ragione, che a Obama manchi, cioè, una strategia. Ma il fallimento non è solo il suo. Negli ultimi tre decenni gli Stati Uniti non hanno mai avuto nel mondo islamico un approccio di principio alla politica.

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Stefania E. Carnemolla – Da quando Morsi, il suo grande alleato egiziano è stato deposto dal potere militare, Obama è nervosissimo, così come lo è da quando la Fratellanza Musulmana, simbolo del fallimento dell’Islam politico, è finita nella polvere. Il ruzzolone dei suoi ex alleati è stato per lui uno shock. Con il loro capitombolo, Obama ha perso uno dei suoi perni nella sua offensiva contro la Siria.

Andrew J. Bacevich – Gli eventi in Egitto testimoniano la più grande irrilevanza del potere degli Sati Uniti. Non abbiamo nessuna abilità né di anticipare il cambiamento né di incidere su di esso quando questo avviene.

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Stefania E. Carnemolla – La Siria sembrerebbe l’ultimo atto della tragicommedia del potere di Washington. Non pensa che per gli Stati Uniti sia arrivato il momento di una svolta?

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Andrew J. Bacevich – Non vedo la Siria come una svolta. Penso che ormai sia chiaro e non da oggi come la politica americana nel mondo islamico abbia fallito. Intervenire in Siria perpetuerà semplicemente questo fallimento.

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