‘di Giorgio Cremaschi
Nella notte tra il 16 e 17 gennaio del 1991 le prime bombe e i primi missili della NATO e degli USA cadevano sull”Iraq. Era la prima guerra del Golfo, che avrebbe dato il via ad una guerra infinita, che come un fiume carsico a volte è parsa inabissarsi, soprattutto nell”attenzione delle varie opinioni pubbliche, per poi riemergere all”improvviso più ampia e devastante di prima.
Due antefatti avevano preparato l”intervento militare del 1991. Negli anni ”80 il conflitto in Afghanistan aveva schiantato l”Unione Sovietica mentre gli USA avevano armato il fondamentalismo islamico armato dei talebani e di Bin Laden. Contemporaneamente l”Iraq di Saddam Hussein, anche in questo caso con il sostegno USA, aveva intrapreso una terribile guerra contro la rivoluzione sciita in Iran.Come premio per i costi di questa impresa il dittatore iracheno aveva poi pensato di occupare il Kuwait, contando sul silenzio assenso del suo protettore. Che invece doveva tenere conto del suo primo alleato nella regione, l”Arabia Saudita di cui il piccolo stato petrolifero era una dependance, e che quindi non avrebbe potuto accettare il fatto compiuto.
Ronald Reagan, il presidente più reazionario di tutto il novecento statunitense, l”interprete della svolta liberista e antisindacale nelle politiche economiche, fu responsabile della decisione di sostenere i talebani e Saddam Hussein. Reagan fu l”apprendista stregone che suscitò le forze che poi gli USA furono costretti a combattere, ma questo non vuol dire che la guerra iniziata nel 1991 sia stata in pura continuità con quelle precedenti. Le guerre alimentate da Reagan erano rivolte contro l”Unione Sovietica, in un recente talk show Edward Luttwak ha affermato che sostenere i talebani fu comunque un buon affare, perché servì a far crollare il comunismo. Ma nel 1991 la Germania era appena riunificata e l”Urss stava crollando, gli USA non avevano avversari. Una politica di pace dei vincitori avrebbe voluto che, dopo il crollo dell”avversario, la NATO fosse sciolta e il disarmo proclamato. Invece si fece l”esatto contrario. La NATO fu rafforzata come strumento di potere mondiale e le spese militari incrementate.
Così la guerra che iniziava nel 1991 affondava le sue radici nel passato, ma era collocata in una dimensione nuova. Essa era un conflitto del Medio oriente che in realtà coinvolgeva tutto il mondo, era un conflitto mondiale localizzato. L”unica grande potenza rimasta costruiva una coalizione mondiale che riduceva l”ONU a misera sede di ratifica delle decisioni già prese. E proprio per affermare il proprio ruolo egemone sul nuovo ordine nel pianeta, gli USA dovevano dare a Saddam una lezione che imparassero tutti. Allora si inventò il mito della grande minaccia incombente, gli intellettuali e i mass media furono messi in campo per spiegare che un nuovo Hitler era comparso e che non si poteva cedere a lui come fecero invece le potenze occidentali di fronte al Führer nel 1938. La guerra diventò ordinatrice, democratica, umanitaria, contro il terrorismo. E questa follia ipocrita ci ha accompagnato fino ad ora. Le parole di guerra di allora son le stesse di oggi, a qualche telegiornale potrebbe essere cambiata la data di 25 anni e sarebbe difficile cogliere la differenza.
Il 1991 fu percorso da una vasta mobilitazione pacifista, che durò e si rafforzò per tutto il decennio, al punto che alle soglie del 2000 il New York Times definì il movimento contro la guerra la seconda potenza mondiale.
Nel gennaio 1991 in Italia vi furono manifestazioni e scioperi, quello dei ferrovieri indetto dal COMU e quelli di molte fabbriche promossi dalle strutture della Cgil. Il PDS, erede della maggioranza del PCI favorevole alla svolta di Occhetto, approvò la guerra, ma Ingrao e la sinistra si opposero pubblicamente. In chi si opponeva alla guerra c”era l”angoscia di essere precipitati in un nuovo male, sentimento acuito dal fatto che per la prima volta dal 1945 l”Italia partecipava ad azioni militari offensive. L”articolo 11 della Costituzione veniva esplicitamente violato per ragioni di ordine superiore e da allora sarebbe stato sempre ignorato da tutti i presidenti e da tutti i governi della repubblica.
Dal 1991 i sempre più estesi teatri di guerra in Asia Africa Europa hanno prodotto milioni di morti, soprattutto civili, ma il meccanismo originario del conflitto non è mai stato messo in discussione. L”Occidente si è assunto il compito di fare la guerra per portare ordine nel mondo. È il fardello dell”uomo bianco, scriveva Kipling alla fine dell”800 per difendere la politica coloniale europea.
Il terrorismo ha tratto sempre più alimento dalla guerra, ne è un prodotto diretto. Non è solo un giudizio, è un fatto. Alla fine di ogni azione di guerra dell”Occidente, in Iraq come in Afghanistan, in Kosovo come in Libia come in Siria, i terroristi veri o potenziali erano molti di più che all”inizio. Dopo le guerre degli anni 90 c”è stato l”11 settembre, dopo quelle di quest”ultimo decennio le stragi di Madrid, Londra, Parigi, Istanbul. Al fallimento della esportazione della democrazia ha corrisposto la crescente importazione delle stragi terroristiche. Che poi in realtà non vengono solo dall”esterno, perché spesso i loro autori sono cittadini dei paesi colpiti.
La reazione alle ultime stragi del presidente Hollande e della classe dirigente francese è stata la dimostrazione della decadenza, dell”ottusità e anche della malafede di chi non è capace di concepire altro che il rilancio e l”intensificazione della guerra. Magari accompagnandolo a misure liberticide nella vita interna del paese. Nello stesso tempo la NATO ha accelerato la sua marcia verso Oriente in funzione anti russa, aprendo un nuovo focolaio di guerra in Ucraina. Così accanto alla guerra ordinatrice l”Occidente ha dovuto riscoprire in forme diverse una sua vecchia conoscenza, il conflitto tra le grandi potenze. A loro volta le potenze regionali, Arabia Saudita, Iran, Turchia, Egitto han cominciato ad agire in proprio.
Insomma dopo 25 anni assistiamo al totale fallimento delle ragioni politiche ufficiali che portarono ai bombardamenti del 1991. Norberto Bobbio che, sbagliando profondamente, fu tra coloro che diedero una veste democratica alla prima guerra d”Iraq, mentre giustificava quella decisione si era però lasciato una piccola riserva, affermando che bisognava comunque giudicare la guerra dalla sua efficacia. Da questo punto di vista il risultato è catastrofico.
Purtroppo il New York Times sbagliava giudizio, il movimento per la pace non aveva la forza che gli era stata attribuita e alla fine si è ridotto a piccole minoranze. Mentre le opinioni pubbliche son sempre più frastornate ed impaurite tra attacchi terroristici e campagne xenofobe. Manca quindi un pensiero critico diffuso che faccia i conti con 25 anni di guerre sporche e sbagliate e che pretenda un bilancio conclusivo. Così la guerra diventa ancora più pericolosa perché è oramai senza obiettivi concreti dichiarati, se non quello di continuare su se stessa. Così la guerra diventa un eterno presente senza futuro, allo stesso modo delle politiche di austerità . Anch”esse infatti dopo decenni di fallimenti han rinunciato a promettere un futuro diverso e oramai si presentano semplicemente come unica brutale realtà possibile. Dobbiamo allora rassegnarci a cento anni di austerità e guerra, come nel Medio Evo tra Francia e Inghilterra?
Di fronte a questa inerzia da incubo onore ai movimenti e alle forze sindacali e politiche controcorrente che il 16 gennaio manifestano a Roma e a Milano per ricordare che la prima cosa da fare con una guerra che dura da 25 anni è fermarla.
(14 gennaio 2016)[url”Link articolo”]http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-16-gennaio-torniamo-in-piazza-contro-la-guerra-infinita/[/url] © Giorgio Cremaschi © MicroMega On line.
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