Il disastro della politica estera di Erdogan

Pochi anni fa la Turchia era considerata una potenza regionale in ascesa. Che cosa è successo?

Il disastro della politica estera di Erdogan
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12 Febbraio 2016 - 18.46


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 di Henri J. Barkey 

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Tradotto da IoNonStoConOriana

Il disastro della politica estera di Erdogan. Pochi anni fa la
Turchia era considerata una potenza regionale in ascesa. Che cosa è
successo?

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Non molto tempo fa la politica estera turca era al centro di ogni
discussione. All”insegna dello stringato motto “zero problemi con i
vicini” la Turchia cercava sia di migliorare le relazioni di vicinato
sia di affermarsi un po” per volta come potenza regionale egemone. Era
un caso classico di rafforzamento del proprio soft power per
mezzo della introduzione di riforme economiche e di maggiore democrazia,
cui corrispondeva in politica estera una intensa attività diplomatica
il cui scopo era quello di fare di Ankara l”arbitro dei conflitti
regionali.

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Oggi come oggi di questa linea politica non resta più nulla. Ha
fatto le spese dell”imprevedibile corso degli eventi che la Primavera
Araba ha preso, soprattutto in Siria, oltre che dell”esagerata fiducia
nei propri mezzi e degli errori di calcolo commessi sul piano della
politica interna della politica estera. Fatto salvo il governo regionale
curdo nel nord dell”Iraq, le relazioni della Turchia con quasi tutti i
suoi vicini sono peggiorate. Al tempo stesso sono oltremodo cresciute le
tensioni con gli Stati Uniti, con l”unione europea e con la Russia. In
questo momento, se la Turchia ha ancora una qualche influenza, lo deve
soprattutto alla sua posizione geografica, che la rende retroterra della
Siria e del dramma dei suoi profughi, ed alla sua determinazione
nell”usare le maniere forti nelle transazioni diplomatiche.

Per quale motivo le ambizioni internazionali della Turchia sono fallite?
A questa domanda non esiste una risposta soltanto. Le idee grandiose
che il presidente Recep Tayyp Erdogan aveva circa il proprio ruolo nel
mondo, il suo desiderio di trasformare il paese in una repubblica
presidenziale, il fallimento del processo di pace curdo a sua volta
vittima della crisi in Siria hanno dato ciascuno il proprio contributo
ad affossare quella politica estera di Ankara che sembrava ricca di buone promesse.

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La Turchia e la Primavera Araba

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La politica estera turca dava segni di cedimento anche prima della
Primavera Araba. Nel 2009, dopo quasi sette anni di governi a guida
conservatrice, la Turchia aveva raggiunto traguardi rimarchevoli: una
rapida crescita economica, la trasformazione di Istanbul in una città
internazionale, la democratizzazione nella politica interna, il ritorno
del potente apparato militare sotto il controllo delle istituzioni
democratiche. Lo AKP, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo di
Erdogan, passava di trionfo in trionfo perché i cittadini comuni erano
sedotti dai suoi successi e poco attratti da un”opposizione priva di
mordente.

Dopo aver consolidato le proprie posizioni sul piano interno,
soprattutto con le elezioni del 2007, Erdogan ha iniziato ad osare un
po” di più. Ha intrapreso un calcolato approccio spicciativo
al presidente dello stato sionista Shimon Peres al forum economico
mondiale di Davos nel 2009, nel corso del quale deplorò rabbiosamente la
politica dello stato sionista verso Gaza, con questo capovolgendo d”un
tratto il buon andamento delle relazioni tra i due paesi. L”iniziativa
si rivelò molto produttiva per i rapporti con il mondo arabo, in cui la
popolarità di Erdogan e della Turchia schizzò alle stelle;
dai paesi arabi in tanti si riversarono in Turchia, per turismo o in
cerca di opportunità di investimento. A questo gesto seguì la decisione
di un” organizzazione non governativa turca vicina allo AKP di
noleggiare una nave e dirigersi a sfidare il blocco sionista a Gaza, con
la relativa e disastrosa reazione sionista che finì con la morte di
nove cittadini turchi e con l”ulteriore peggioramento delle relazioni tra i due paesi.   

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L”arrivo della Primavera Araba spinse Turchia e Stati Uniti ad una
stretta collaborazione. I due paesi sembrarono agire di concerto per
quanto riguarda le dichiarazioni pubbliche sul presidente egiziano Hosni
Mubarak -l”intento era quello di costringerlo a farsi da parte- e poi
collaborarono nel fornire armi e materiali al “Libero” Esercito Siriano.
Ancora una volta la Turchia si affermava come un paese che era modello
per tutto il Medio Oriente, un paese in cui Islam e democrazia si erano sposati con successo nella persona di Erdogan e del suo AKP. Nel 2010 Obama affermava
che la Turchia era “una grande democrazia islamica”, ed “un modello di
importanza fondamentale per gli altri paesi musulmani della regione”;
nel 2012 citò Erdogan tra i cinque più importanti leader politici con cui aveva intrapreso le relazioni diplomatiche più strette.

La Turchia però voleva essere ben più di un modello. L”affermarsi dei
Fratelli Musulmani in Egitto, in Tunisia e in Siria -con i quali i
vertici dello AKP avevano rapporti stretti- dischiuse per Ankara la
possibilità di avere un ruolo attivo dal momento che era il più potente
alleato regionale su cui quel movimento potesse contare. Di fatto la
Primavera Araba permise ai massimi vertici della politica turca di
vedersi come a capo della principale potenza della zona: l”allora
ministro degli esteri Ahmed Davutoglu disse che la Turchia “sarebbe
stata alla testa del vento di cambiamento che sta spazzando il Medio
Oriente…non solo come paese amico, ma perché paese considerato la
personificazione stessa delle idee di cambiamento e di ordine nuovo”.

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La Turchia aveva alla fine il suo momento. Un momento che però non sarebbe durato a lungo. L”auspicio
di Davutoglu su un “nuovo ordine” subì un brutto colpo quando in Egitto
il governo guidato dai Fratelli Musulmani venne rovesciato da una serie
di proteste di piazza e dall”esercito, e le relazioni di Erdogan con il
nuovo governo a guida militare si disintegrarono rapidamente. Tuttavia è
stato in Siria che gli obiettivi in politica estera della Turchia sono
stati affossati definitivamente: il governo di Bashar al Assad ha
continuato ostinatamente a resistere, alla faccia del movimento
insurrezionale che la Turchia aveva sostenuto.

L”importanza degli eventi siriani

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Prima dell”insurrezione del 2011 la Siria costituiva l”esempio più
recente dei successi della politica turca all”insegna degli “zero
problemi” con i paesi vicini. Poco dopo l”arrivo al potere dello AKP,
l”uomo forte del paese Bashar al Assad ed Erdogan avevano intrapreso una
stretta collaborazione anche a livello personale. Si è trattato di un
cambiamento considerevole se si pensa che nel 1998 la Turchia aveva
minacciato militarmente la Siria a causa del sostegno che essa forniva
al Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), all”epoca impegnato nella
promozione di un movimento insurrezionale contro lo stato turco.
Erdogan si impegnò anche per dare il via a consultazioni indirette tra
Siria e stato sionista e si spinse fino a sostenere il governo baathista
contro un”iniziativa dell”ONU, sostenuta da Francia e Stati Uniti,
diretta a far sì che l”esercito siriano lasciasse il Libano. 

Quando in Siria iniziarono le proteste pacifiche, all”inizio Erdogan si
adoperò perché Assad non subisse lo stesso destino dei politici tunisini
ed egiziani. Erdogan fornì consigli
ad Assad sulle riforme da introdurre e di fatto pare gli abbia fatto
capire che non si trattava di fare qualcosa di troppo radicale, ma senza
risultato. Quando Assad diede mano libera all”esercito perché
reprimesse le proteste, dall”oggi al domani Erdogan si ritorse contro
l”antico alleato ed amico.

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Alla decisione di Erdogan contribuirono molti elementi: il rancore
perché Assad non aveva seguito i suoi consigli, la diffusa sensazione
che Assad non sarebbe comunque durato, l”idea di poter avere un qualche
ruolo nella nuova Siria e soprattutto il terribile crescere della
violenza durante il ramadan del 2011, contro quelli che Erdogan
considerava manifestanti sunniti. Erdogan esortò pubblicamente
all”esautorazione di Assad e proclamò che il dittatore siriano sarebbe
rimasto al potere soltanto per pochi mesi. Di lì a poco, nel 2012,
Erdogan disse: “Presto andremo a Damasco, a pregare liberi con i nostri fratelli nella moschea degli Omayyadi”.

Assad non sarebbe caduto tanto facilmente. La discrepanza fra il
desiderio di Erdogan di vederlo sostituito da un”alleanza sunnita a
lui favorevole e la realtà delle cose in cui il dittatore siriano teneva
ostinatamente il potere fu motivo di frustrazione per il primo ministro
turco, e lo spinse in direzione di una linea politica costruita di
testa propria. Con gli Stati Uniti iniziarono ad emergere profonde
divergenze quando Erdogan si espresse con disappunto sul fatto che Obama non intendesse intervenire, nonostante i molti civili vittime dell”esercito governativo.

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La rottura tra Erdogan e Assad segnò anche l”inizio di una politica
settaria da parte dei sunniti, che diventò sempre più pronunciata man
mano che il governo siriano rimaneva al suo posto. La Turchia iniziò ad incoraggiare l”ingresso di combattenti stranieri nella Siria settentrionale
attraverso i suoi posti di frontiera, cosa che radicalizzò
l”opposizione e al tempo stesso fece crescere gli attriti fra Ankara e i
suoi alleati, gli Stati Uniti e l”Europa. Il governo turco sapeva che
molti di questi combattenti si sarebbero uniti a milizie jihadiste, come
il Fronte al-Nusra che è affiliato ad Al Qaeda, ma ha lasciato che così
fosse perché i ribelli “moderati” originari del paese non si erano
mostrati in grado di arrivare alla cacciata del governo di Assad. L”idea
era che i combattenti jihadisti, molti dei quali adusi al combattimento
e più propensi a morire per la causa, sarebbero riusciti a fare quello
che non era riuscito ai ribelli siriani di altro orientamento.  

Decine di migliaia di combattenti stranieri si diressero in Siria e
presto furono evidenti le conseguenze indesiderate di tutto questo. Molti di costoro gravitavano attorno allo Stato Islamico e lo hanno reso la potenza che è oggi.
Nel maggio del 2013 durante una visita a Washington Obama chiese a
Erdogan di smettere di fornire sostegno agli jihadisti, specie al Fronte al-Nusra e di impedire loro di passare dalla frontiera turca. Il fatto
è che da allora in Turchia ha preso concretezza una rete jihadista che a
tutt”oggi tormenta il personale di frontiera.

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Il primo a trarre vantaggio dall”allentamento dei controlli fu lo Stato
Islamico. La rete nata in Turchia a sostegno degli jihadisti sarebbe
stata alla fine utilizzata per colpire le città turche, da Diyarbakir a
Suruc fino ad Ankara, per arrivare ad Istanbul. Nei primi tre casi gli
attentati hanno colpito curdi e attivisti di sinistra e hanno fatto più
di centotrentacinque morti. L”ultimo ad Istanbul ha fatto undici vittime
tedesche in un quartiere turistico. Lo Stato Islamico ha anche
impunemente passato per le armi in territorio turco propri oppositori
siriani, e richiesto riscatti a famiglie siriane e di altri paesi
affinché fossero loro restituiti i loro cari, sequestrati dallo Stato
Islamico in territorio turco.

La questione del Kurdistan

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Il rafforzamento dei curdi siriani è stato la più importante conseguenza
del caos in cui è precipitato il paese. Privati di ogni peso e repressi
dai vari governi siriani, i curdi sono riusciti ad approfittare delle
spaccature nel paese per avanzare pretese sui territori in cui
costituivano la maggioranza della popolazione. Hanno presto trovato un
alleato potente negli Stati Uniti: quando lo Stato Islamico è stato sul
punto di sommergere la città curda di Kobane, nell”ottobre del 2014,
l”aviazione statunitense ha iniziato a bombardare i combattenti del
gruppo jihadista, gettando anche le basi per una straordinaria e
fruttuosa collaborazione che si è rivelata essere il tentativo più
riuscito di spodestare lo Stato Islamico da un territorio da esso
conquistato. 

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Di questa alleanza sempre più stretta ha fatto le spese il governo
turco. Il principale movimento politico dei curdi siriani è il Partito
dell”Unione Democratica (PYD), che è uno stretto alleato, se non una
dipendenza, del PKK che lo ha addestrato e foraggiato trasformandolo in
una forza combattente formidabile. Washington ha detto chiaramente che
PKK e PYD non sono la stessa cosa, a dispetto del cordone ombelicale che
unisce le due organizzazioni. Dal punto di vista legale il PKK è nella
lista delle organizzazioni terroristiche stilata dagli USA, mentre il
PYD non c”è ed è stato il destinatario del sostegno militare
statunitense nella guerra contro lo Stato Islamico. Intanto che gli
Stati Uniti approfondivano i loro legami con il PYD, l”unica concessione
che hanno fatto ad Ankara è stato ottemperare all”ultimatum dei turchi
affinché il PYD non venisse invitato ai colloqui di pace a Ginevra. 

A posteriori, la vittoria dei curdi siriani a Kobane si è rivelata il
colpo di grazia per il processo di pace che la Turchia aveva intrapreso
con la parte curda della propria popolazione. Erdogan fu subito
aspramente critico nei confronti dell”intervento americano a Kobane:
lui e il suo partito considerano
il PYD una minaccia peggiore di quella dello Stato Islamico- Nel
febbraio 2015 Erdogan ha fatto carta straccia dell”accordo che i suoi
subalterni avevano stretto con il Partito Democratico del Popolo, di
ispirazione filocurda, e con il PKK. Ci sono documenti successivi che fanno pensare
che a provocare la rottura sia stato il timore che i curdi siriani
avrebbero messo su un doppione dell”esperienza dei curdi iracheni,
creando una regione autonoma a ridosso delle frontiere meridionali della
Turchia. 

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Dall”estate del 2015 la guerra tra PKK e stato turco è ripresa,
all”insegna del revanscismo. Dal sette giugno, data delle elezioni, sono
morti qualcosa come duecentocinquantasei militari turchi; le perdite
del PKK sono più difficili da quantificare, ma sono comunque state alte.
Le devastazioni in città curde come Silopi, Cizre e il quartiere di Sur
a Diyarbakir, dove i carri armati turchi hanno sparato sulle abitazioni
e l”ala giovanile del PKK ha deciso di resistere senza cedere, sono
state tremende.

Erdogan aveva capito che l”assedio di Kobane rappresentava un possibile
punto di svolta per i destini dei curdi in tutta la regione. Non poteva
fare che una cosa: cooptarli al potere o reprimerli. Ha scelto la
seconda alternativa.

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I curdi hanno indebolito la posizione di Erdogan sia all”interno che
sul piano internazionale; ancora peggio è andata dopo che su richiesta
di Assad i russi sono intervenuti in Siria.
Agendo senza riguardi, i
caccia turchi a novembre 2015 hanno abbattuto un bombardiere russo che
per poco tempo aveva invaso lo spazio aereo turco, con un gesto cui il
presidente russo Putin ha risposto con una serie di rappresaglie
impegnative dal punto di vista economico, politico e militare. Erdogan
si era sbagliato nel giudicare Putin: la decisione di abbattere l”aereo
veniva dalla frustrazione causata dai fallimenti in Siria e dal fatto
che sotto i suoi occhi gli iraniani e i russi erano riusciti a
rafforzare l”ormai provato esercito siriano contro gli alleati dei
turchi nel paese.

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Sull”onda degli eventi siriani, la Turchia si è trovata ai ferri corti anche con l”Iran.
Dall”inizio della guerra fino al 2015, ovvero fino a quando i russi non
sono intervenuti direttamente ed il ruolo della Forza Quds iraniana non
è diventato più ovvio, la Turchia e l”Iran hanno proceduto sulla
questione secondo un cordiale disaccordo. I fitti legami d”affari tra il
governo di Erdogan, comprese vendite di oro su larga scala, la
dipendenza della Turchia dal gas iraniano e il bisogno dell”Iran di
mantenere quote di mercato estero proprio con queste esportazioni hanno
impedito ai due paesi di accapigliarsi in pubblico. Ma non è cosa
destinata a durare, perché la collaborazione delle varie forze sul
terreno ha cambiato le cose a favore di Assad.

Erdogan non ha ancora abbandonato il sogno di fare della Turchia un
attore influente. Di recente Ankara ha annunciato l”apertura di una
propria base navale in Qatar e di un campo di addestramento in Somalia.
Erdogan è capacissimo di cambiare politica secondo gli eventi del
momento, se questo torna a suo vantaggio; negli ultimi tempi lo ha fatto
riallacciando cordiali relazioni con lo stato sionista. Un
riavvicinamento a Gerusalemme infatti apre la lucrosa prospettiva di un
gasdotto che dai giacimenti nell”est del Mediterraneo porti in Turchia
passando da Cipro.


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Cosa può attendersi Erdogan dal prossimo futuro

Erdogan ha davanti tre sfide tra loro collegate. Sta affannosamente
portando avanti l”iniziativa di cambiamenti alla costituzione che gli
permettano di riunire nella figura del presidente il potere esecutivo,
così da poter controllare il paese senza l”impiccio delle sue
istituzioni; l”inasprirsi del confronto con i curdi minaccia di portare
alla completa rottura tra curdi e stato turco ed il deteriorarsi della
situazione in Siria non soltanto può arrivare ad esacerbare il conflitto
con i curdi ma anche a far peggiorare i rapporti con gli USA, in
considerazione dei legami che Washington ha stretto con i curdi siriani.

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Erdogan può anche essere sulla strada giusta per risolvere alcuni di
questi problemi, specie per quello che riguarda l”instaurazione di un
regime presidenziale, ma al prezzo di inasprire ancora di più le
divisioni nella società turca e i disaccordi con i paesi alleati di
vecchia data. Erdogan è sicuro che il suo atteggiamento nei confronti
dei curdi finirà per pagare e si sta basando sulla disillusione di
settori della comunità curda, specie quelli maggiormente inclini alla
religione, per sradicare il PKK. Ora come ora però è verosimile che
le sofferenze delle città a maggioranza curda abbiano un impatto
incancellabile sulla comunità curda.
Il mutare della situazione
internazionale, con particolare riguardo all”Iraq e alla Siria, fa
pensare che a questo punto una vittoria militare potrebbe rivelarsi una
vittoria di Pirro. 

Per quello che riguarda la Siria, è chiaro che esistono grossi
disaccordi su quali siano le cose importanti tra Turchia, USA ed Europa.
Gli alleati occidentali della Turchia mettono al primo posto la
sconfitta dello Stato Islamico laddove ad Ankara si è preoccupati
soprattutto di rovesciare il governo di Assad e di impedire che si formi
una regione autonoma curda nel nord del paese. Su questo particolare
tema il perdurare degli attriti con i curdi in patria non farà che
allontanare ancora di più la Turchia dai suoi alleati.

Il punto fondamentale è questo: la politica estera della Turchia non è più funzionale agli interessi del paese ma a quelli di Erdogan.
In difficoltà in patria e fuori, il presidente turco ha intrapreso sul
piano interno una serie di iniziative illiberali che punta a minare
quelle che sono istituzioni esplicitamente ritenute vacillanti per
ricostruirle a propria misura. La sua onnipresenza e la sua posizione
che non ha rivali significano che la politica estera turca altro non è
che il prodotto della sua concezione del mondo, dei suoi capricci e dei
suoi gusti. Nessuno può tenergli testa. L”approccio sistematico dei
primi anni ha lasciato il posto all”indulgenza: più di ogni altra cosa è
questo che spiega le alterne sorti della politica estera turca.
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Fonte: http://foreignpolicy.com/2016/02/04/erdogans-foreign-policy-is-in-ruins/

Versione italiana: http://iononstoconoriana.blogspot.it/2016/02/henri-j-barkey-il-disastro-della.html

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