Golpe turco. La pista USA

Un giornale turco aveva previsto il golpe come un tentativo USA di liberarsi di Erdogan. Alcuni retroscena

Golpe turco. La pista USA
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20 Luglio 2016 - 05.55


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da Sinistra.ch.

 Il tentativo di colpo di stato dei giorni scorsi in Turchia ha dato adito a numerose speculazioni. Effettivamente lo scenario che si prospettava nella notte fra venerdì e sabato 15/16 luglio 2016 aveva tratti che potevano stupire chi conosce bene la Turchia, le sue forze armate e la sua stessa storia eversiva, per il modo scoordinato in cui il tutto si è sviluppato. 

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Diciamo subito, però, e a scanso di equivoci, che l’ipotesi complottarda di un “auto-golpe” ordito dal presidente Recep Tayyip Erdoğan stesso per aumentare i propri consensi appare del tutto fuori luogo. Si potrebbe al massimo ipotizzare che Erdoğan abbia “lasciato fare” per un po’. 



Gli ufficiali insorti erano uomini legati alla NATO: impensabile credere che agissero senza alcun contatto internazionale come dei pazzi qualunque. Certo è che i golpisti alla luce dei fatti hanno agito in modo alquanto grossolano: sintomo che, molto probabilmente, chi inizialmente aveva assicurato loro un appoggio determinante sia internamente alla Turchia sia all’estero, alla fine ha preferito ritirarsi.

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Il gruppo editoriale che unisce il quotidiano Aydinlik e la televisione Ulusal Kanal, entrambi vicini al Vatan Partisi â€“ una formazione della sinistra patriottica maoista e filo-kemalista turca di opposizione – da tempo aveva avvertito che il potere di Erdoğan non era più confacente agli interessi dell’imperialismo atlantico. 

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Già in febbraio Aydinlik aveva aperto una sua edizione con la notizia di un possibile golpe in preparazione, e meno di due settimane fa lo stesso Vatan Partisi informava pubblicamente che alcuni settori delle potenze occidentali e del mondo finanziario non erano più disponibili a tenere al potere Erdoğan oltre il mese di settembre e che dunque ci si poteva attendere a breve un colpo di stato su ordine americano. Naturalmente non si trattava di tirare a indovinare: queste previsioni erano frutto di un’attenta analisi della situazione concreata e degli equilibri profondi della società turca, sconosciuta alla maggior parte degli analisti occidentali, compresi quelli più accreditati dai media.

Più chiari agli occhi di tutti sono invece i mutamenti della politica estera di Erdoğan negli ultimi mesi, quando il conflitto inter-islamico fra la linea più istituzionale e “nazionale” del Presidente e la linea radicale e apertamente filo-americana del magnate Fetullah Gülen era esploso in tutta la sua evidenza. Come questo portale aveva comunicato, l’epurazione da parte di Erdoğan del primo ministro turco Ahmet Davutoğlu, seguace della setta di tipo “gladio” diretta da Gülen, era un segnale chiarissimo di sfida agli USA (leggi). 

Da allora Ankara ha intrapreso un’inversione di rotta non indifferente: la normalizzazione delle relazioni con la Russia e la rappacificazione con la Siria (comunicata subito dopo aver sventato il golpe dal primo ministro Binali Yildirim). Scelte evidentemente in contrasto con i piani dell’imperialismo atlantico.

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Ma non è tutto. Nel corso dell’insurrezione il vicepresidente del Vatan PartisiYunus Soner, ha contattato il segretario del Partito Comunista svizzero, Massimiliano Ay, informandolo di cosa stava accadendo: non solo escludeva che lo Stato Maggiore Generale dell’esercito turco si compromettesse con un tale colpo di stato in questa precisa fase della storia nazionale, ma spiegava: “ieri sono stati resi noti i capi d’accusa contro duemila ufficiali gülenisti e contro dei sindaci del partito HDP (cioè i separatisti curdi filo-USA). La Turchia ha cominciato un riavvicinamento al governo siriano, accanto a Russia ed Egitto. È noto da fonti primarie. Il golpe è una reazione contro tutto ciò”! Insomma, come poi Ay ha spiegato per primo ai microfoni della Radiotelevisione svizzera, i golpisti non erano affatto laici, ma appartenevano alla pericolosa setta islamista di Gülen (leggi).


Il coinvolgimento degli USA

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Le regole della diplomazia, soprattutto fra paesi alleati, avrebbero imposto a Washington di immediatamente schierarsi dalla parte del governo turco sotto attacco. E invece il ministro degli esteri John Kerry si limita a un banale augurio che le controversie si risolvano in un clima democratico, di fatto rinunciando a condannare esplicitamente il golpe. A fare questo passo ci penserà il presidente Barack Obama, ma solo qualche ora dopo, quando ormai la sollevazione stava declinando.

Nel pieno corso del golpe, però, una voce apparentemente minore dell’apparato militare statunitense, in realtà piuttosto influente, smentisce Obama: il tenente colonello Ralph Peters già attivo in Iraq, protagonista della teoria del “regime change” e fautore della balcanizzazione degli stati nazionali in Medio Oriente, su Twitter plaude apertamente agli insorti, dichiarando: “questo golpe è l’ultima chance della Turchia per evitare di diventare un regime islamico autoritario”! 

In pratica, tradotto in termini diretti: Erdoğan non è più un alleato degli USA, bisogna dunque esportare la democrazia anche in Turchia!

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Altre conferme di un coinvolgimento, almeno iniziale, dell’establishment egemone di Washington a sostegno della sollevazione arriva successivamente quando si scopre che i rifornimenti per gli F-16 in mano ai golpisti che bombardano il parlamento di Ankara giungono proprio dalla base militare di Incirlik dove stanziano le truppe statunitensi e della NATO. E non a caso poche ore fa è arrivata la minaccia della cancelleria di Washington di addirittura espellere Ankara dall’Alleanza atlantica.


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