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di Lorenzo Vita.
La crisi fra Stati Uniti e Corea del Nord sta mettendo a repentaglio non soltanto la stabilità dell’Estremo Oriente, ma anche le relazioni bilaterali fra Washington e Pechino e, in generale, la percezione che ha il mondo degli Stati Uniti e di Donald Trump. Washington e Pyongyang hanno avviato negli ultimi mesi una politica muscolare senza precedenti e si rischia di arrivare a un punto di non ritorno in cui la diplomazia cederà il passo al rumore delle armi. Un punto di non ritorno che mette in pericolo la vita di milioni di persone. In molti, in tutto il mondo, fra analisti, diplomatici, osservatori e funzionari, hanno ipotizzato ogni tipo di scenario possibile nel prossimo futuro della penisola coreana, e in molti si sono impegnati attivamente e continuano a farlo in queste ore febbrili per evitare una guerra che potrebbe essere catastrofica non soltanto per la vita di milioni di persone, ma anche per il futuro della diplomazia. Tra le tante parole spese, ce ne sono alcune però che, specialmente negli Stati Uniti, assumono una rilevanza fondamentale: quelle di Henry Kissinger.
In un suo editoriale sul Wall Street Journal, l’ex diplomatico statunitense, nonché uomo fra i più influenti della politica americana nel mondo, ha espresso la sua opinione su come risolvere la crisi fra Stati Uniti e Corea del Nord evitando il conflitto militare. Un’opinione da tenere in considerazione non solo per l’enorme esperienza e l’importanza di Kissinger nella storia recente degli Stati Uniti, ma anche perché anche nell’amministrazione Trump, l’ex diplomatico americano ha assunto un ruolo fondamentale nelle relazioni fra la Casa Bianca e Pechino. Basti ricordare che, mentre Trump telefonava a Taiwan e parlava di dazi all’export cinese, Kissinger volava in Cina per parlare con il leader Xi Jinping, quasi a voler dimostrare che il canale diretto fra Cina e Stati Uniti non si stava per interrompere. E nessuno meglio di Kissinger poteva esserne la dimostrazione, poiché fu proprio lui, ai tempi di Nixon, ad aprire al primo incontro ufficiale fra la Cina di Mao e gli Stati Uniti.
Per Kissinger, l’unica certezza è che la soluzione militare non possa essere praticata senza giungere a conseguenze catastrofiche, come sostenuto anche da Mattis. I rischi sono enormi: Pyongyang tiene in ostaggio Seul con le sue armi e può causare danni enormi alla popolazione sudcoreana e al suo apparato militare, economico e infrastrutturale. Lo strike preventivo, paventato molto spesso dall’entourage di Trump, sarebbe in realtà un qualcosa di inefficace: non esiste strike preventivo, ma esiste l’ipotesi di una guerra aperta. Pechino, in quel caso, come già sostenuto dalla stampa statale cinese, potrebbe intervenire in favore della Corea del Nord o comunque per opporsi all’attacco statunitense. La Cina non può accettare che gli Stati Uniti decidano unilateralmente le sorti di una regione a lei vicina. E questo condurrebbe, inevitabilmente, a una risposta anche militare da parte della Repubblica Popolare cinese.
Considerazioni come queste hanno originato il tentativo dell’amministrazione di Donald Trump di impegnare la Cina in uno sforzo diplomatico per spingere la Corea verso la denuclearizzazione. Questi sforzi finora hanno avuto però solo un successo parziale. La Cina condivide la preoccupazione americana per quanto riguarda la proliferazione nucleare, perché è il primo Paese a subirne le conseguenze, sia per la sua stabilità internazionale sia perché non vuole una guerra con gli Stati Uniti. Ma mentre l’America è stata esplicita sull’obiettivo, cioè voler colpire la minaccia nucleare coreana, è stata tuttavia meno disposta ad affrontare le conseguenze politiche di un tale attacco. Per un Paese che investe enormi quantità di soldi nel suo programma nucleare, l’eliminazione delle testate, dei loro siti e di tutto l’apparato che vive grazie a quei finanziamenti, comporterebbe il rovesciamento di un regime che si fonda sostanzialmente sui militari e sugli investimenti nel settore della difesa. Il rischio dunque è che s’incorra in un regime change che per la Cina non è attualmente auspicabile, o comunque non lo è in tempi rapidi. La prospettiva di disintegrazione o di caos nella Corea del Nord evoca, infatti, almeno due preoccupazioni principali in Cina: la prima riguardo agli effetti politici e sociali di una crisi interna nordcoreana sulla Cina stessa; la seconda riguardo alla sicurezza di tutta l’Asia nordorientale
A questo punto, consiglia Kissinger, l’unica alternativa credibile è che ci si possa impegnare seriamente a un processo congiunto fra Stati Uniti e Cina per il disarmo nucleare della Corea del Nord a lungo termine. Perché la Cina, a detta del diplomatico americano, non ha alcun interesse a che Pyongyang sviluppi il suo programma nucleare, ma vuole essere garantita sulla stabilità dell’Estremo Oriente. Gli Stati Uniti non possono negoziare da soli con la Corea del Nord, perché le parti si sono ormai irrigidite e perché Pechino ha un ruolo talmente fondamentale che sarebbe impossibile evitare di ritenerlo come un interlocutore. Nello stesso tempo, gli Stati Uniti ormai si giocano tutto: a Washington sono consapevoli che lasciare che la Corea del Nord sviluppi l’atomica significherebbe decretare la fine della leadership statunitense nell’Asia nordorientale. Giappone e Corea del Sud si sentirebbero abbandonati, o comunque privi di quella protezione politica che consente loro di vivere in pace, e potrebbero anche sviluppare una propria strategia per entrare in conflitto con la Corea del Nord, in caso di gravi minacce. Ed è proprio questa convergenza di rischi fra Cina e Stati Uniti che, secondo Kissinger, sarebbe l’unica vera ragione che eviterebbe il conflitto: hanno tutti da perdere in caso di guerra.