di Fulvio Scaglione.
Ghiotta è ghiotta. E infatti il Washington Post di Jeff “Mister Amazon” Bezos, uno dei quotidiani che fanno da buca delle lettere al deep State che non ama Donald Trump, l’ha puntualmente anticipata: il Pentagono studia l’ipotesi di ritirare dalla Germania i 35 mila soldati americani che vi sono dislocati, presenza che data dalla fine della seconda guerra mondiale. I soliti portavoce hanno smentito, ma senza affannarsi: sono studi che si fanno con regolarità per verificare il rapporto costi-benefici degli investimenti della Difesa, eccetera eccetera. Quindi l’ipotesi è stata presa in esame.
È chiaro che anche solo parlarne è un fatto clamoroso. Soprattutto se si pensa che Trump ha accumulato un intero catalogo di attacchi alla Germania di Angela Merkel, dalle critiche sulle politiche migratorie (comprensive di pubblici apprezzamenti nei confronti di Horst Seehofer, il rivale della cancelliera) alle ironie sul tasso di criminalità, dalle pressioni perché venga mandato a monte il progetto del gasdotto South Stream 2 in arrivo dalla Russia (a favore, chiaro, del gas americano) ai dazi sulle esportazioni tedesche di acciaio e alluminio. È vero, la Merkel se l’era cercata, proponendosi come l’ultima garante dell’ordine liberale dopo l’uscita di scena di Obama e andando negli Usa a fare a Trump la predica sul Muro al confine con Messico, lei che aveva convinto l’Europa a sganciare sei miliardi di euro a Erdogan perché il Muro lo facesse la Turchia. Ma le caramelle che Trump ha messo sul tavolo dell’ultimo G7, dicendo alla cancelliera “Poi non dire che non ti do mai niente”, unite alla firma negata al comunicato finale, sono state uno schiaffo di pari violenza.
Se poi fosse confermato il progetto di ritirare le truppe (e magari spostarle nella fedele Polonia, come si vocifera), capiremmo che Trump vuole anche ritirare la delega a garante del sistema euro-atlantico che la Germania storicamente detiene, un po’ come il Giappone la detiene in Asia.
Ma perché Trump ce l’ha con la Germania? Certo non solo perché la Merkel gli sta antipatica. Il fatto è che dalla Casa Bianca si nota con evidenza che negli ultimi anni l’Unione Europea ha avuto una sola guida politica: quella tedesca. E una sola politica: quella decisa, o consentita, dalla Germania. In altre parole, piaccia o no, il cervello e l’anima della Ue hanno sede a Berlino. E mortificare la Merkel, approfittando delle sue attuali difficoltà, significa mortificare tutta la Ue, quella almeno che non risponde direttamente, come invece fanno i Paesi dell’ex Est, alle indicazioni di Washington. Questo perché Trump è un nazionalista come altri (da “America first” a “Prima agli italiani”), con la piccola differenza che lui siede nella cabina di regia dell’unica superpotenza mondiale, quell’America a cui possono dare fastidio, Cina e Russia a parte, solo grandi coalizioni a forte impatto economico come l’Unione Europea. In altre parole: stronchi la Germania e tagli la testa alla Ue.
E fin qui tutto bene. Escluso qualche nostalgico, questo filone della politica trumpiana non incontra grandi contestazioni. E chi oserebbe, con l’economia che tira, la Borsa che vola e la disoccupazione che cala? È da qui in avanti che le cose si fanno spesse per il Presidente. Perché uno dei temi classici della sua offensiva è lo scarso contributo che la Germania offre alle spese della Nato. L’11 giugno, con uno dei suoi tweet, Trump ha detto che “la Germania versa (lentamente) l’1% del proprio Pil alla Nato, mentre noi versiamo il 4% di un Pil MOLTO più grande… Proteggiamo l’Europa (il che è una buona cosa) al prezzo di un grande sforzo economico”. E da questo a temere che Trump abbia in mente un ridimensionamento dell’impegno Usa nella Nato per alcuni il passo è breve. Soprattutto negli Usa, in quel complesso militar-industriale che condiziona in modo molto pesante la politica americana e da guerre e impegni militare trae i propri profitti.
E con questo veniamo all’oggi, anzi: al domani. Perché l’11 e 12 luglio Trump sarà a Bruxelles per il summit della Nato, il 13 sarà a Londra per incontrare Theresa May che organizza la Brexit e il 16 a Helsinki per vedersi con Vladimir Putin. Un filotto che fa fibrillare molte cancellerie, e infatti già si agitano gli sherpa: ex ambasciatori, esperti e giornalisti impegnati a sottolineare quanto sarebbe rischioso, per l’Europa, se il criticone Trump, magari incautamente perché è uno sciocco, promettesse chissà che allo Zar. E vai con il Russiagate e le bufale accluse, mentre ancora aspettiamo le famose chiarissime prove dell’avvelenamento col gas nervino “made in Russia” di Skripal padre e figlia.
È chiaro: se produci carri armati e bombardieri, ti fa comodo annunciare un giorno sì e uno no che il nemico è alle porte. Ma i Governi di Francia, Germania, Italia, Spagna, e così via, davvero credono che l’Armata Rossa aspetti solo il momento di marciare verso Ovest? E che non ci sarebbero stati Trump, Brexit, Catalogna e Governo giallo-verde in Italia se gli hacker russi non avessero digitato come pazzi?
Quello che la Ue non riesce a capire (e l’incapacità di gestire il problema migranti lo dimostra in modo eclatante) è che siamo entrati in un mondo nuovo. La vecchia idea che tutti insieme si commercia, si guadagna e si sorride è morta con la crisi finanziaria del 2008.
E l’idea, ancor più vecchia, che basta nascondersi sotto le gonne dello Zio Sam, delle sue rivoluzioni colorate e dei suoi convenienti cambi di regime, è morta in Ucraina e in Siria. Non è Trump che ha cambiato il mondo, è il mondo cambiato che ha fatto arrivare lui alla Casa Bianca. La Ue è un nano politico anche perché non vuole accettarlo. E prima di decidere alcunché si chiede “ma questo piacerà o non piacerà a Putin?”, mentre il suo vero problema è quel che piace o non piace a Trump.