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Siria: vogliamo parlare di armi chimiche una volta per tutte?

Cronistoria di una narrazione falsa e insistita sulla guerra in Siria, quella delle armi chimiche attribuite a Damasco, in rimbalzo fra cancellerie e redazioni per prepararci alla guerra

Siria: vogliamo parlare di armi chimiche una volta per tutte?
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15 Ottobre 2018 - 21.41


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di Germana Leoni von Dohnanyi.

 

Lo scorso agosto il portavoce del Ministero della Difesa russo, il generale Igor Konashenkov, lanciava un sinistro allarme. Sosteneva cioè che specialisti stranieri erano arrivati in Siria in supporto ai ribelli antigovernativi riparati nella provincia di Idlib, ultima sacca di una guerriglia eterogenea dominata da Jabhat alNusra, la versione siriana di al-Qa’ida (oggi Tahrir alSham) e da gruppi jihadisti affini, fra i quali apparentemente anche cellule dormienti dell’Isis.

Mosca accusava ora i ribelli di progettare un attacco con armi chimiche contro la popolazione civile come ultima disperata mossa in anticipazione della temuta e ritenuta imminente offensiva governativa finale: un crimine di guerra (l’uso di armi chimiche) da attribuire al presidente siriano Bashar al-Assad al fine di giustificare un intervento armato occidentale, l’unico in grado ormai di scongiurare la definitiva disfatta militare dei jihadisti sul campo di battaglia. Una “false flag” dunque, e cioè un’operazione sotto falsa bandiera.

Al riguardo un carico di armi chimiche sarebbe stato consegnato alle formazioni salafite dagli White Helmets, organizzazione di sedicenti soccorritori umanitari locali osannati dalla stampa mainstream al punto da essere addirittura proposti per il Nobel. Attivi esclusivamente in aree controllate dai ribelli e sempre nella più assoluta assenza di osservatori neutrali, il loro ruolo di “testimoni” e “soccorritori” è ormai da più parti messo in discussione.

Sono infatti in odore di collusione con gruppi jihadisti, e come tali ritenuti meri strumenti di propaganda bellica occidentale da giornalisti del calibro dell’australiano John Pilger, del britannico Robert Fisk (The Independent) e di un premio Pulitzer, l’americano Seymour Hersh. L’ex agente della Cia Philip Giraldi ne ha denunciato la collusione con al Nusra (al Qaeda) e la partecipazione in episodi di tortura ed esecuzione di soldati governativi. E l’ex ambasciatore britannico a Damasco Peter Ford li ha definiti “professionisti della disinformazione a pagamento” e “ausiliari jihadisti” in un’intervista alla BBC.

Tutto opinabile naturalmente ma…. Creato nel 2013 in Turchia da James Le Mesurier, ex ufficiale dell’esercito britannico, il gruppo è finanziato da alcuni governi europei, dalla  USAID (US Agency for International Development) e dal britannico Foreign Office… il ché non può non destare qualche legittimo sospetto….

Secondo il Cremlino, il cui obbiettivo dichiarato era eliminare ogni residuo di jihadismo dalla Siria, nella provincia di Idlib stava dunque per essere inscenato un nuovo attacco chimico, una provocazione sostenuta da un Occidente poco propenso ad accettare la vittoria militare dell’Esercito Arabo Siriano e conseguentemente a rinunciare a un cambio di regime a Damasco. E il dispiegamento di fine agosto nel Mediterraneo della USS Ross, cacciatorpediniere con 28 missili Tomahawk a bordo, lasciava poco margine alla speranza di un soluzione pacifica di un conflitto che ormai da quasi otto anni insanguina la Siria

L’attuale Segretario alla Sicurezza Nazionale John Bolton aveva peraltro pubblicamente tuonato che Washington era pronta a colpire nel caso Bashar al-Assad avesse usato i gas. Precostituzione di alibi? Uno scenario inquietante…. Ma importante qui è capire chi è John Bolton!

Neo-con doc, ex ambasciatore americano alle Nazioni Unite sotto la presidenza di George W. Bush e architetto dell’invasione in Iraq, nel 2015 Bolton aveva teorizzato lo smembramento di Siria e Iraq per far spazio a un fantomatico “Sunnistan”, Stato indipendente (si fa per dire…) rigorosamente sunnita interposto fra i due paesi e costituito su un territorio che all’epoca grossomodo coincideva col l’area geografica conquistata dall’Isis. Quasi una legittimazione del Califfato sotto mentite spoglie e un nuovo nome insomma, un piano secondo Bolton mirato a neutralizzare l’Isis.

Geniale…..! Come creare uno stato rigorosamente ariano per combattere il neonazismo, o uno per soli bianchi per combattere l’apartheid…

Bolton auspicava dunque la creazione di uno stato sunnita-salafita (lui stesso concedeva che non sarebbe stata una democrazia) interposto fra due entità sciite a garanzia di una conflittualità permanente. Mirava insomma a balcanizzare l’intera regione, a frammentarla lungo linee di demarcazione etnico-confessionali e a cancellare definitivamente dalle mappe geografiche il Medio Oriente così come lo aveva definito nel 1916 l’accordo Sykes-Picot.  Nei fatti legittimava qualcosa che all’epoca già esisteva, e cioè quel Califfato che aveva accorpato parte di Iraq e Siria e che nel 2014 era stato ufficializzato dallo stesso Abu Bakr al-Baghdadi, il terrorista iracheno a capo dell’Isis, quel sedicente Califfo che era stato in assoluto il primo a smantellare i confini fra i due paesi: piano curiosamente riproposto da John Bolton.

Ma il progetto del Califfato stentava ad andare in porto. A partire dal 2015 infatti quei guastafeste dei russi intervenivano in sostegno dell’esercito Arabo Siriano, che gradualmente riconquistava postazione su postazione. E ora, col sostegno dell’aviazione russa, sembrava preparare l’offensiva finale su Idlib, ultima roccaforte per decine di migliaia di jiadisti, 10.000 dei quali definiti senza mezzi termini “terroristi in possesso di armi chimiche”, da Staffan de Mistura, inviato speciale delle Nazioni Unite in Siria. Rivelazioni in base alle quali i timori di Mosca potrebbero non essere del tutto campati in aria, come suggerito dalla narrativa dei media mainstream.

Vale allora la pena di fare luce sui precedenti, estrapolando i fatti dalla propaganda.

 

Nella primavera del 2013 l’Esercito Arabo Siriano di Bashar al-Assad era già militarmente in vantaggio sui ribelli, mettendo così in stallo il progetto di ingegneria geopolitica atlantica mirato a frazionare il paese per ridisegnare la mappa del Grande Medio Oriente: mappa che ha nella Siria un tassello essenziale. Il progetto era peraltro stato pubblicamente denunciato già il 3 ottobre 2007 al Commonwealth Club di California da Wesley Clark, generale americano a quattro stelle ed ex comandante supremo della Nato. Ecco un stralcio del suo intervento:

  • “Dopo l’11 settembre abbiamo avuto un colpo di Stato della politica… Il controllo di questo paese è stato assunto da un gruppo di ben noti individui… Vogliono destabilizzare il Medio Oriente, stravolgerlo e assumerne il controllo… Non vedono l’ora di farla finita con l’Iraq per iniziare con la Siria…”

Chi controlla la Siria controlla infatti anche buona parte delle risorse energetiche del Mediterraneo e del Golfo. Ma una sconfitta di al Nusra e Isis implicava (e implica) la possibile permanenza al potere di Bashar al-Assad, alleato di Mosca e unico vero ostacolo alla realizzazione del progetto.

Particolarmente allarmato era anche Recep Tayyp Erdoğan, che all’epoca aveva bisogno di tutta la potenza di fuoco di cui solo l’Occidente disponeva per rovesciare le sorti della battaglia, relegare definitivamente alla storia Bashar al-Assad e realizzare il suo progetto neo-ottomano.

Ma per i Tomahawk e i B-52 sulla Siria non bastavano le morti dei civili, danni collaterali di ogni guerra e di tutti gli eserciti. Tutti, occidentali inclusi. Serviva di più, molto di più!

Già nel marzo del 2013 un attacco di armi chimiche contro Khan al-Assal, un villaggio a maggioranza sciita della provincia di Aleppo, aveva causato la morte di circa due dozzine di persone. Ma all’epoca tanto Alex Thomson, il corrispondente di Channel 4, quanto il magistrato svizzero Carla del Ponte, membro della Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite, erano stati tempestivi nell’addossarne la responsabilità ai ribelli: conclusioni che sconfessavano la narrativa ufficiale, e che come tali erano state messe a tacere. Non si canta fuori dal coro….

Mosca, dal canto suo, aveva inviato un dossier di 80 pagine alle Nazioni Unite, sollecitando l’invio di una Commissione d’inchiesta, che arrivava a Damasco il 18 agosto. Tre giorni dopo missili terra-terra armati di gas sarin si abbattevano su Ghouta, un sobborgo della capitale.

Centinaia le vittime, che americani, inglesi e francesi si affrettavano ad addossare a Bashar al-Assad, l’unico, a detta loro, che aveva armi chimiche in dotazione. Era falso!

Già da mesi l’intelligence anglo-americana sapeva che alNusra era in grado di ottenerle, e pare persino di fabbricarle direttamente in Siria. Al-Qa’ida poi le aveva da tempo, e anni prima la CNN aveva diffuso immagini che ne ritraevano la sperimentazione in Afghanistan sui cani.

Ma l’attacco di Ghouta veniva comunque attribuito al presidente siriano, prima naturalmente di qualsivoglia inchiesta. Ed era l’attacco che oltrepassava la “linea rossa”, quella soglia fittizia oltre la quale il presidente Barack Obama avrebbe considerato legittima un’aggressione militare. Un’aggressione “umanitaria” naturalmente!

All’epoca, e più precisamente nella notte fra il 20 e il 21agosto, l’esercito siriano aveva inflitto una pesante sconfitta ai ribelli nel contesto dell’operazione Shield of the Capital (Scudo della Capitale), una massiccia offensiva militare condotta all’ingresso di Jobar, sobborgo a pochi chilometri dal centro di Damasco in mano agli insorti. E per insorti si intendono 25.000 jihadisti prevalentemente affiliati a Jabhat al Nusra e Jaysh al Islam.

Bashar al-Assad stava dunque vincendo sul campo di battaglia. E perché mai avrebbe dovuto scatenare un pandemonio che avrebbe fermato l’avanzata del suo esercito e fornito al tempo stesso a Washington un pretesto su un vassoio d’argento? Perché mai scatenarlo alle porte di Damasco proprio nei giorni in cui i commissari delle Nazioni Unite soggiornavano a pochi chilometri di distanza in un albergo della capitale? Lo avevano demonizzato in tutti i modi, ma nessuno lo aveva ancora descritto come un cretino. Perché dunque?

Una prima risposta la forniva Yossef Bodansky, ex direttore della task-force del Congresso americano su Terrorismo e Guerra non Convenzionale:

  • “Recenti scoperte portano alla conclusione che l’attacco di armi chimiche in Siria sia stato un attacco auto-inflitto al fine di provocare un intervento militare americano e occidentale contro il governo baathista di Bashar al-Assad.”[1]

Aveva inoltre rivelato un alto ufficiale dell’Intelligence a Seymour Hersh:

  • – “Sappiamo che è stata un’azione coperta pianificata dagli uomini di Erdoğan per spingere Obama oltre la “linea rossa”. Dovevano provocare un attacco chimico nei pressi di Damasco quando le Nazioni Unite erano lì. L’idea era di fare qualcosa di spettacolare. La DIA aveva informato i nostri ufficiali che il sarin era arrivato dalla Turchia….”[2]

Yossef Bodansky ricordava ancora che, circa una settimana prima dell’attacco, i leader dell’opposizione stavano preparandosi a un evento destinato a cambiare il corso della guerra:

  • – “Dal 21 al 23 agosto iniziava una distribuzione senza precedenti di armi all’opposizione da depositi controllati dai servizi segreti di Turchia e Qatar, sotto la supervisione dell’intelligence americana… in previsione di sfruttare l’impatto degli imminenti bombardamenti americani sulla Siria…..”[3]

E già si levava il rombo dei tamburi di guerra. Barack Obama ripeteva ormai come un mantra che Assad se ne doveva andare, del tutto incurante di cosa ne pensassero i siriani. Poi, con un’improvvisa inversione di marcia, fermava tutto, afferrava al volo il salvagente lanciatogli da Vladimir Putin e accettava lo smantellamento dell’arsenale chimico offertogli da Bashar al-Assad. Cos’era successo?

Secondo Seymour Hersh, dai laboratori britannici di Porton Down, segretissima installazione militare dello Wiltshire che aveva esaminato i campioni prelevati sul terreno, era trapelata la notizia che il gas sarin usato nell’attacco non era in dotazione dell’esercito siriano. E il parlamento britannico aveva bocciato il piano di appoggio a Washington di David Cameron, lasciando Barack Obama isolato nella sua politica di aggressione alla Siria.

Troppo rischioso quindi esporsi in simili condizioni e rischiare di passare alla storia come il presidente che aveva causato l’inverno nucleare sulla base di informazioni false e di dubbia provenienza (leggi fonti rigorosamente antigovernative). Non si sa mai… sia pure tardiva, la verità avrebbe potuto emergere, come peraltro già successo per l’Iraq.

E così i missili Tomahawk avrebbero dovuto aspettare… almeno fino al 7 aprile 2017, quando Donald Trump autorizzava un attacco contro la base aerea siriana di Shayrat (provincia di Homs), quale ritorsione a un presunto attacco di gas nervini del governo siriano contro Khan Shaikhoun, cittadina sotto il controllo jihadista.

In realtà il 4 aprile i cacciabombardieri siriani avevano colpito un edificio che ospitava un incontro ad altissimo livello fra leader di Jabhat al-Nusra e Ahrar al-Sham: un edificio nel cui seminterrato, oltre ad armi e munizioni, erano stoccati medicinali, fertilizzanti e composti inquinanti a base di cloro, che producono nubi tossiche se colpiti.

Ma tutto indicava che quello siriano fosse stato un bombardamento convenzionale, come peraltro confermato da ufficiali dell’intelligence americana a Seymour Hersh:

  • “Sappiamo che non è stato un attacco chimico… non esiste alcuna prova che Damasco abbia usato il sarin… L’SU-24 siriano ha usato armi convenzionali per colpire l’obbiettivo…”[4]

Ma questo poco importava! I media mainstream, avamposti di guerra psicologica, diffondevano ormai a reti unificate immagini raccapriccianti di ignota provenienza, e riportavano che Bashar al-Assad aveva gasato la sua stessa gente con il sarin: una forte pressione per Donald Trump, un presidente deciso comunque a ignorare le indicazioni dell’intelligence, e apparentemente persino quelle dei militari.

E così, il 7 aprile, da due cacciatorpediniere di stanza nel Mediterraneo, Washington lanciava 59 missili Tomahawk contro la base siriana di Shayrat, non prima però di aver informato i russi, che a loro volta avvisavano i siriani. Un grosso regalo comunque per i jihadisti arroccati a Idlib, decisi a non lasciarsi scappare una prossima occasione.

Ed ecco al riguardo un altro ufficiale dell’intelligence americana a Seymour Hersh:

  • “Non rinunceranno a pianificare la messa in scena di un altro attacco sotto falsa bandiera. E Donald Trump non avrà altra scelta che ribombardare la Siria.”[5]

 

Sarebbe successo esattamente l’anno successivo, e più precisamente il 7 aprile 2018, quando USA, Gran Bretagna e Francia bombardavano postazioni governative siriane quale ritorsione a un altro presunto attacco di armi chimiche a Douma. Ancora nessuna prova naturalmente al riguardo, sebbene Emmanuel Macron giurasse di averle.

Ma Robert Fisk, uno dei primi giornalisti entrati a Douma che aveva intervistato medici e testimoni oculari, dava una versione diversa degli eventi. C’erano stati bombardamenti su Douma quella notte e in molti si erano rintanati in scantinati sotterranei invasi da nuvole di polvere. E non di gas! Raccontava al riguardo il Dr Rahaibani dalla sua clinica “Punto 200”, anch’essa sotterranea:

  • “La gente ha iniziato ad arrivare qui, ma poi all’ingresso qualcuno, un Casco Bianco, ha gridato “Gas”! Ed è scoppiato il panico. Il filmato girato è autentico, ma ciò che vedi sono persone che soffrono di ipossia, non intossicazione da gas.”[6]

Si chiede al riguardo Robert Fisk:

  • Come è possibile che i profughi di Douma che avevano raggiunto i campi in Turchia descrivessero un attacco di gas che nessuno a Douma sembrava ricordare?”[7]

Forse perché non c’era mai stato un attacco chimico? Nel rapporto preliminare del 6 luglio, gli ispettori OPAC (Organizzazione per la Proibizione di Armi Chimiche) confermavano infatti di non aver trovato tracce di agenti nervini sulla scena. Solo composti organici clorati, dei quali restava ignota la provenienza e il grado di concentrazione. Ma il cloro è dovunque in Siria, usato per la purificazione dell’acqua, per la pulitura dei cadaveri prima della sepoltura e così via. È racchiuso in contenitori, e se questi ultimi vengono colpiti accidentalmente durante un bombardamento, la sua dispersione è letale in ambienti chiusi. Ma questo non fa di un attacco con armi convenzionali un crimine di guerra.

Ad un’attenta analisi, il quadro generale risultava insomma molto poco chiaro. Che fare?

E così, a settembre, iniziavano a circolare nuove voci su un altro presunto attacco chimico da attribuire a Bashar al-Assad: un’ennesima “false-flag” denunciata in anticipo da Mosca come provocazione. Un grido d’allarme, che parte dei media occidentali vendevano a loro volta come una mossa del Cremlino per giustificare l’imminente offensiva militare su Idlib. Un’offensiva che, come peraltro tutte le offensive (ultima quella della coalizione a guida americana su Mosul) avrebbe inevitabilmente provocato vittime civili, strumentalizzabili a loro volta per giustificare l’aggressione dell’Occidente. Ma l’offensiva finale russo-siriana tardava ad arrivare.

A sorpresa, invece, il 17 settembre Putin ed Erdoğan concordavano a Sochi un piano per demilitarizzare la regione, per creare cioè una sorta di zona cuscinetto interposta fra i due fronti e pattugliata da militari russi e turchi. Una soluzione non necessariamente destinata a durare. Troppe le incognite!

Ma, in assenza di un’offensiva militare, di una catastrofe umanitaria e di attacchi di gas chimici messi in scena, anche i missili Tomahawk sembravano destinati ad aspettare. Almeno per ora…. Vista infatti l’incognita terrorista, le mire dell’Occidente sul controllo di Damasco e la discutibile affidabilità del presidente turco, in Siria resta possibile tutto e il suo contrario.

 

 

Germana Leoni von Dohnanyi è stata reporter dal Sud-est asiatico per «il Giornale» di Indro Montanelli e, dopo l’abbandono del direttore, per «L’Indipendente» di Vittorio Feltri. Ha collaborato con settimanali quali «Panorama» e «Il Borghese», con la radio tedesca Westdeutscher Rundfunk, con il periodico tedesco «Greenpeace Magazine» (Amburgo) e con la «Voce del Ribelle» di Massimo Fini.
È coautrice di Schmutzige Geschaefte und Heiliger Krieg (Pendo Verlag) e Somalia (Editori Riuniti), e autrice di Bush and Bush (Editori Riuniti) e Rapporto Medusa (Mursia). Nel 2017 ha pubblicato Lo Stato profondo: Torneo delle Ombre e jihad nell’epoca dell’inganno universale (Imprimatur)

 

 

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Lunghezza stampa: 286

Editore: Imprimatur (27 aprile 2017)

Venduto da:Amazon Media EU S.à r.l.

Lingua: Italiano

ASIN: B072DV9ZNX

Word Wise: Non abilitato

Casa editrice: Imprimatur Editore

Link d’acquisto: Lo Stato profondo

 

 

 

 

 

 

 

NOTE

[1]   Yossef Bodansky, “New granular evidence”, World Tribune, 9 settembre 2013

[2]   Seymour Hersh, “The Red Line and the Rat Line”, London Review of Books, 17 aprile 2014

[3]   Yossef Bodansky, “Did the White House help plan the Syrian chemical attack?”, Global Research, 1 settembre 2013

[4]   Seymour Hersh, “Trump’s Red Line”, Welt, 25 giugno 2017.

[5]   Ibidem

[6]   Robert Fisk, “The Search for truth in the rubbles of Douma”, The Independent, 17 aprile 2018

[7]   Ibidem

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