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Trump, Soleimani e la guerra civile come caos controllato

Le linee di faglia su cui si sarebbe mossa l'Amministrazione di 'The Donald' erano ben visibili da subito. E l'omicidio Soleimani somiglia all'omicidio Massud. Quali conseguenze? [S. Santini]

Trump, Soleimani e la guerra civile come caos controllato
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6 Gennaio 2020 - 20.34


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di Simone Santini.

Tre anni fa, all’indomani della elezione di Donald Trump, scrivevo queste note:
“A Trump, o meglio alla sua Amministrazione, saranno affidati questi compiti.
Ripristinare e proteggere l’economia interna ricostruendo le sue basi fondamentali. Stati Uniti di nuovo come motore produttivo, manifatturiero, con piena occupazione. Fine delle delocalizzazioni selvagge.
Distensione con la Russia ma senza cedere nulla di quanto conquistato finora. Congelamento dello status quo, fine delle aggressioni, reciproco rispetto formale e collaborazione laddove gli interessi fossero convergenti.
Massima competizione commerciale ed economica con la Cina ma senza spingere al momento sull’acceleratore del confronto militare. […] Sul medio periodo si dovrà alzare sempre più l’asticella della competizione globale e porre Pechino davanti ad una scelta strategica: accettare la supremazia americana in cambio di una parziale condivisione dei dividendi dell’Impero oppure il confronto militare, sempre più aggressivo.
Concentrarsi nell’immediato sullo scacchiere mediorientale, lo scenario più urgente. Fine della sponsorizzazione del jihadismo sunnita, che ha esaurito in quell’area la sua funzione, e spinta verso la democratizzazione delle petromonarchie del Golfo, a partire dall’Arabia Saudita. Il nemico principale, tuttavia, torna ad essere lo sciismo politico e i suoi alleati, il cosiddetto asse della resistenza, e il suo centro nevralgico, l’Iran”.
Le linee di faglia su cui si sarebbe mossa l’Amministrazione americana erano dunque ben visibili da subito. Questi tre anni di Presidenza, turbolenti, ci hanno poi confermato quelle direttrici e consentito di approfondire taluni approcci.
In particolare, per quanto riguarda il confronto con l’Iran, Trump è apparso bilanciarsi tra le due fazioni principali dello Stato Profondo statunitense che, semplificando e banalizzando, si potrebbero così riassumere: la fazione realista, “il partito dell’assedio”, per cui il nemico va accerchiato, logorato, ma non colpito a fondo perché poi diventa molto difficile ricomporre i cocci di quel che si è rotto; la fazione idealista, messianica, “il partito della guerra”, per cui vale il motto colpisci per primo, colpisci due volte, e sui cocci pisciaci sopra.
Tra queste due posizioni imperiali, ne esistono tante variegate e composite. Trump è a cavallo di una di queste. Nel gruppo di potere che lo ha portato alla Casa Bianca, ad esempio, ci sono quelli che vorrebbero concentrarsi esclusivamente sugli affari interni lasciando sullo sfondo il resto del pianeta, e le lobbies ultrasioniste il cui unico interesse è togliere di mezzo la Repubblica islamica iraniana.
L’assassinio di Qassem Soleimani dimostra a mio avviso che il partito della guerra ha preso definitivamente il controllo della strategia nei confronti dell’Iran. Se Trump abbia preso tale decisione o sia stato messo davanti al fatto compiuto sarà materia di dibattito per gli storici, ma non cambia la situazione.
In ogni caso c’è chi ritiene prevalente l’ipotesi di una decisione diretta del Presidente soprattutto per scopi elettorali: creare un nemico esterno imminente lo aiuterebbe a tirarsi fuori dai guai interni, richiesta di impeachment e collaterali (va aggiunto che anche Israele, è, di nuovo, in campagna elettorale, e questa tornata è esistenziale per Netanyahu ancor più che per Trump). La tesi opposta è di un Trump che non vorrebbe lo scontro diretto ma vi è spinto dai falchi del complesso militare-industriale.
Tutto più o meno plausibile. Personalmente propendo per una ipotesi intermedia, rifacendomi anche ad un precedente storico.
Durante tutto il 1998, l’allora presidente Bill Clinton vide montare in maniera virulenta lo scandalo Lewinsky, un sexgate che portò alla sua incriminazione per spergiuro ed ostacolo alla giustizia. Clinton non aveva a cuore la crisi internazionale che si stava profilando all’orizzonte, il Kosovo. Sapeva a malapena dove si trovasse. Poi, improvvisamente, nell’autunno inoltrato di quell’anno, quando lo scandalo interno era al culmine, decise di mettere la crisi balcanica al centro della sua azione politica. Altrettanto improvvisamente la crisi interna si sgonfiò e la crisi del Kosovo, da affare regionale, divenne affare globale.
Furono molto bravi gli strateghi di Clinton a sviare l’attenzione o, piuttosto, il sexgate rivelò la sua vera natura? Uno strumento di pressione montato ad arte da alcuni centri di potere per fare sì che il Presidente, e alcuni altri centri di potere che egli rappresentava, portassero gli Stati Uniti in guerra. Sventolando il Kosovo davanti a Clinton fu facile trovare un accordo win-win: tu ci dai la guerra e il sexgate finisce nel dimenticatoio.
Mutatis mutandis può essere accaduto lo stesso in questa fase tra Trump, i gruppi di potere del Deep State, l’impeachment, e l’Iran.
A questo punto si fa un gran discutere su quali potrebbero essere le future mosse degli iraniani. La preoccupazione di una escalation è fortissima e tangibile. Le ripercussioni drammatiche.
Alcuni analisti sostengono che gli Usa stiano scherzando col fuoco, che hanno commesso un errore fatale, che la politica estera statunitense è allo sbando, chiaro segnale del loro inarrestabile declino. Non sono d’accordo. Ritengo invece che questa escalation, tale accelerazione di fase, sia stata lucidamente pianificata e perseguita.
Due conseguenze che già adesso sono arrivate sono esattamente quelle che gli americani si attendevano.
L’Iran si è ritirato dall’accordo nucleare. Il governo di Rouhani-Zarif ha resistito fino all’ultimo, ha resistito alla denuncia unilaterale del trattato da parte americana, che lo rendeva di fatto vuoto, ha resistito alla imposizione di ulteriori pesantissime sanzioni che stanno avendo profondi effetti sulla società iraniana. Hanno più volte chiesto sostegno diplomatico agli immobili e tremebondi paesi europei, inutilmente. Ora l’atto terroristico americano, una sorta di dichiarazione di guerra, ha colpito sotto la cintola la componente moderata del potere iraniano che non può più resistere alle pressioni della componente radicale senza esserne travolta sul piano interno. Gli Stati Uniti hanno di nuovo lo strumento retorico e mediatico principe da brandire contro l’Iran e contro i riottosi alleati europei per giustificare le prossime aggressioni: la paura della bomba atomica in mano agli ayatollah (e poco importa se tale minaccia sia sempre stata inesistente, conta solo che venga percepita come tale).
La seconda conseguenza è molto sottile da interpretare. Che il Parlamento iracheno abbia decretato la cacciata delle truppe straniere di occupazione dal Paese potrebbe sembrare una sconfitta per gli americani ma così non è.
Il governo iracheno è fragilissimo, di fatto dimissionario dopo le imponenti manifestazioni popolari contro corruzione e condizioni economiche dei mesi scorsi, represse a costo di centinaia di morti e migliaia di feriti, e che si sono interrotte solo in seguito alla promessa del premier Abdul-Mahdi di dimettersi. Un governo in queste condizioni non ha la minima forza per imporre la decisione assunta contro gli Stati Uniti.
L’Iraq si trova, oggettivamente, in una condizione di pre-guerra civile. Se fossi uno stratega americano, o israeliano, farei il possibile per favorire tale drammatico esito. Non solo tra le componenti etniche curde, e soprattutto sunnite e sciite, ma tra le stesse componenti sciite.
Il mondo sciita non è monolitico. In particolare la dottrina khomeinista ha prodotto al suo interno una profonda frattura di ordine religioso ma con importanti riflessi politici (religione e politica nell’Islam si intrecciano intimamente). In particolare in Iraq esistono fazioni sciite radicali ma nazionaliste (la principale è quella che fa capo a Moqtada al Sadr) e fazioni sciite altrettanto radicali ma filo-iraniane (che si richiamano alla ideologia e organizzazione degli Hezbollah libanesi). Gli sciiti nazionalisti iracheni mal sopportano (è un eufemismo) l’ascesa egemonica degli sciiti filo-iraniani in Iraq. Lo scontro armato (questi partiti, gruppi, fazioni, sono tutti strutturati in organizzazioni paramilitari) sarebbe possibile se il Paese sprofondasse nel caos, una sorta di tutti contro tutti dagli esiti imprevedibili.
In tal caso l’Iran sarebbe risucchiato in questa guerra civile irachena e ne uscirebbe ulteriormente dissanguato. Gli americani in questi lunghi anni di occupazione hanno dimostrato di non avere la forza militare sufficiente per imporre la loro egemonia, ma ce l’hanno a sufficienza per “controllare” una guerra civile, aperta o sotterranea, indefinitamente, finché fosse nel loro interesse.
Qassem Soleimani era certamente un militare, un duro, ma era anche uomo di Stato, un consigliere politico insostituibile per la Guida iraniana Khamenei. In tale veste ha dimostrato di essere un uomo di stabilizzazione, un tessitore, al pari della sua risolutezza come guerriero.
Nel 2001, un paio di giorni prima dell’11 settembre, il generale afgano Massud venne ucciso in un attentato. Chi lo fece sapeva bene che da lì a poco l’Afganistan sarebbe stato invaso e non voleva un eroe nazionale che rappresentasse un punto di stabilità per quel paese. Chi ha ucciso Soleimani sa bene cosa sta per succedere e ha inteso togliere di mezzo preventivamente un perno di stabilità per tutta la regione.

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