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di Valeri
RUSSIA – I segnali della crisi economica in Russia devono essere analizzati con prudenza, ma gli scricchiolii che si percepiscono a livello strutturale fanno venire in mente le difficoltà che, solo dieci anni fa, rallentarono il macchinoso percorso che stava traghettando il paese fuori dall”economia pianificata.
La svalutazione del rublo nell”agosto del 1998 portò il paese sull”orlo del collasso, polverizzando nel giro di poche settimane i risparmi di milioni di russi, che pure erano a malapena riusciti a digerire le scelte obbligate dell”economia di mercato, dopo le privatizzazioni – o piratizzazioni, come le ha definite Marshall Goldman in un prezioso libro sulla materia – di qualche anno prima, quando il secondo mandato presidenziale di Eltsin era stato assicurato dalla svendita delle aziende di stato agli oligarchi.
Poi il premierato e la presidenza Putin, nominato ancora una volta primo ministro a marzo 2008, hanno ridisegnato l”assetto economico e politico del paese: lo stato è tornato di nuovo al centro dell”economia, in una versione à la russe delle dinamiche di mercato, mentre un partito forte e notarile ha occupato il cuore dell”agone politico, peraltro tradizionalmente poco vivace.
Con il vento in poppa per il prezzo del petrolio, il Cremlino e il popolo hanno sottoscritto un patto sociale che ora inizia a subire i colpi della recessione economica mondiale: riduzione di alcune libertà civili, per ricostruire una verticale del potere ritenuta fondamentale per la stabilità della Russia, in cambio di un maggiore e più diffuso benessere.
I segnali del surriscaldamento, in buona misura dovuto all”accresciuta spesa pubblica in preparazione delle elezioni presidenziali, erano tuttavia evidenti già prima della crisi, perciò un rallentamento della crescita era inevitabile. Nell”agosto del ”98 le istituzioni internazionali, forti del credito che vantavano e dell”inesperienza in tema di mercato della classe politica, potevano imporre delle scelte scomode, anche perché Eltsin versava in un pessimo stato di salute. La Russia di oggi è diversa: non solo c”è al timone una guida salda, sia pure del primo ministro (Putin) e non del presidente (Medvedev), ma può anche vantare autonomia politica ed economica, avendo orgogliosamente ripagato i debiti con largo anticipo e riconquistato un ruolo di primo piano sullo scenario internazionale.
La priorità di Putin è stata chiara: mantenere la fiducia della gente ed evitare un altro 1998. È per questo che la Banca centrale russa ha pilotato, a partire da novembre scorso, una svalutazione controllata della moneta, che ha permesso al rublo di perdere non troppo bruscamente un terzo del valore, allargando la fascia consentita di oscillazione e vendendo euro e dollari per frenarne la caduta. Questa scelta ha sì evitato una svalutazione improvvisa del rublo, contenendo i costi politici, ma non quelli economici, poiché la crescita è stata frenata. Così, se due mesi fa un euro comprava 29 rubli, cambio che ha subito oscillazioni minime negli ultimi 5/6 anni, ora ne compra 46, e secondo qualcuno il prezzo giusto si aggirerebbe intorno ai 70 rubli, più del doppio del valore a fine 2008, senza per questo far registrare cambiamenti nelle esportazioni. Il petrolio ora è costantemente sotto i 50 dollari, dopo aver raggiunto quota 147 l”estate scorsa. Per rallentare la scivolata, inevitabile per tutte le valute che dipendono dall”esportazione di materie prime e quindi ne seguono le oscillazioni, la Banca centrale ha speso 6 miliardi di dollari alla settimana, non lasciando alcuno spazio alla possibilità per gli esportatori di sfruttare il vantaggio del rublo debole. Questa iniezione di liquidità non è sostenibile a lungo, pur rimanendo la Russia al terzo posto nel mondo, dietro Cina e Giappone, in termini di riserve di valuta, poiché il flusso di cassa è ridotto.
Se la scelta economica può essere discutibile, quella politica è stata forzata, secondo la logica del Cremlino: evitare di creare aspettative negative fra i risparmiatori, come accaduto nel 1998 con la crisi venuta dall”Asia, e scongiurare il collasso. Un altro segnale forte da parte di Putin è arrivato con il salvataggio di alcune grandi imprese indebitate con le banche straniere, attraverso un intervento di 50 miliardi che fa parte di un”ondata di nazionalizzazioni piuttosto diffusa in questo momento di crisi. Questa mossa, paradossalmente, ha chiuso il cerchio del percorso iniziato nel 1996 quando lo stato, in un momento di difficoltà , fu costretto a svendere agli oligarchi: ora sono loro che si ritrovano a chiedere l”aiuto dello stato.
Quello che sorprende di più in questo quadro è che solo poco tempo fa la Russia sembrava essere in buona salute, messa al riparo da due fondi sovrani, istituiti poco meno di un anno fa con una delle poche scelte strutturali in termini di politica economica, e spinta da previsioni di crescita superiori al 7% del Pil. Da dopo l”estate, la perdita del mercato azionario è stata del 70%, mentre l”inflazione ha superato il 15% e i disoccupati sono quasi 6 milioni, dei quali mezzo milione solo a dicembre. La crisi si fa sentire maggiormente nelle città che vivono di una sola industria, soprattutto negli Urali, regno della metallurgia, e subiscono perdite difficili da tamponare che, alla lunga, potrebbero mettere in moto il meccanismo di forze centripete tanto temuto da Putin. La recessione in Russia è stata poi aggravata da una fuga di capitali iniziata a luglio 2008, quando un”incauta dichiarazione di Putin – che criticò l”azienda siderurgica Mechel, accusandola di evasione fiscale – fece pensare agli investitori la riproposizione del caso Yukos, ovvero un attacco del governo contro una grande azienda. La gravità della crisi economica mondiale, poi, ha scatenato una corsa generale degli investitori occidentali alla liquidità e alle plusvalenze, ove possibile, e il mercato russo ne ha risentito più di altri. La questione che sembra essere in gioco, però, è ben più ampia, perché ora che gli oligarchi sono dovuti ricorrere al supporto statale, il sistema delle imprese è ancora più dipendente dal Cremlino. Se l”azzardata scommessa anticrisi di Putin si rivelerà vincente, il ritorno in termini politici sarà enorme, con la possibilità che si cristallizzi l”attuale impianto politico ed economico del paese, privo di contrappesi al potere centrale e tutt”altro che trasparente.
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